I taccuini / Goliarda Sapienza: scrittura dell’anima nuda

30 Maggio 2022

“Il calendario non mi segue” è un incipit tratto da una pagina dei taccuini di Goliarda Sapienza, autrice del grande romanzo del Novecento L’arte della gioia. È un incipit che contiene tutta la scrittura e la figura di questa grande scrittrice che con i suoi libri e la sua vita è stata in un tempo altro, un altrove temporale sbalzato in avanti di qualche decennio: sia con il grande romanzo, sia con i romanzi in forma di autobiografia analitica, soprattutto con le poesie e con i taccuini. Gran parte della sua produzione è uscita postuma, mentre Sapienza era in vita molto di ciò che andava scrivendo e tentava di pubblicare, spesso senza risultati, era collocabile in una visione del mondo e in un approccio alla scrittura ancora incomprensibile anche agli addetti ai lavori.

La sua scrittura privata, privatissima, si è riversata in ottomila pagine raccolte in quaranta taccuini, a penna Bic, e copre gli anni che vanno dal 1976 al 1992: sono la testimonianza dell’importanza della pratica della scrittura lungo tutta la seconda parte della vita di Goliarda, nonché della diversità e varietà del suo tipo di scrittura nelle differenti tipologie di testo.


Se la data di inizio stesura è il 1976, ciò indica che la scrittrice inizia a scriverli quando sta ultimando la stesura di L’arte della gioia. Continua indefessamente a redigere i suoi taccuini fino al 1980 quando nella sua vita accade dell’altro: la stesura di L’università di Rebibbia e di Le certezze del dubbio che escono rispettivamente nell’83 per Rizzoli e nell’87 per Pellicanolibri (entrambi poi riediti da Einaudi), il carcere per furto e una profonda depressione dovuta principalmente al susseguirsi dei rifiuti editoriali per il grande romanzo. Nell’88, in seguito a un viaggio, Goliarda riprenderà la sua scrittura privata che non lascerà fino alla morte e che si rivelerà essere la nuova dimensione di scrittura che la pervade.
Non sono diari, non sono confessioni, non sono nemmeno bozze di altri testi: sono taccuini, appunti di vita. Goliarda rifiutava l’idea sia di diario sia di autobiografia. Già con Lettera aperta nel ’67 e Il filo di mezzogiorno nel ’69 aveva iniziato una narrazione in forma di autobiografia analitica, sulla scia delle esperienze di quegli anni – la depressione, la cura analitica ecc. – rifiutando nettamente la memorialistica.

“Anche allora per dieci anni, e Citto mi fu amico nel nostro segreto, non dissi niente a nessuno che scrivevo. E che pace in quei dieci anni di lavoro, ricerca, libera da occhi estranei… ecco, si scrive per gli altri, ma senza averli addosso. Scrivere per gli altri come se si fosse già morti e pensando che mai, mai i tuoi scritti arriveranno alle persone che ami, ma solo a una massa sconosciuta che poi si riduce a un ragazzo, una ragazza, un vecchio saggio che mai hai conosciuto e mai conoscerai. Questo è per me lo scrivere, non c’è niente da fare”.

 

I taccuini nascono da questo credo di Goliarda, come educazione ricevuta in famiglia e come pratica di vita, rifiutando dunque tutto ciò che possa suonare falsificazione della realtà o esaltazione dell’ego, come i diari, per approdare sempre alla scrittura e letteratura come impegno, come ricerca di verità; contengono la vita di Goliarda, i suoi incontri, ricette, appunti, disegni, riflessioni su piccoli e grandi eventi della sua vita privata ma anche dell’Italia e del mondo, testimonianza di affetti, relazioni, riflessioni sulla scrittura degli altri e sulla propria, testamenti, liste delle cose da fare ma soprattutto grandi elenchi di cose da non fare mai, racchiudono anche parte della storia del Paese, di lotta sociale e politica.

 

Ma ci sono anche moltissime persone che si incontrano di pagina in pagina, tra i tanti sua madre Maria Giudice e suo padre Peppino Sapienza, i suoi numerosi fratelli e sorelle, Dario Bellezza, Elsa Morante, Natalia Ginzburg, Cesare Garboli, Sandro Pertini, Citto Maselli, Umberto Terracini, Orson Welles. Tra le sue pagine passeggiano anche molte sue personagge che riaffiorano dai romanzi, Modesta, la personaggia di L’arte della gioia, è quella più sconsolata perché non vede pubblicazione e giace abbandonata senza lettori:

 

“Cerco il modo di tagliare qualche artiglio al pensiero lucido della mia Modesta. È molto difficile, non ho mai ceduto né allo scrivere troppo né dopo a queste lusinghe dell’autocensura, ma forse per una volta devo farlo: non vorrei seppellire del tutto questa mia bimba nata morta. Fra poco sarò vecchia e lei deve vivere, anche a costo di gridare meno forte le sue istanze ribelli di vita”. 

 

 

Questo meraviglioso luogo di scrittura della vita è uscito in volume in questi giorni con il titolo Scrittura dell’anima nuda, Einaudi, e unisce tutti i taccuini finora editi di Goliarda Sapienza. Il primo volume è uscito nel 2011 con il titolo Il vizio di parlare a me stessa, il secondo, La mia parte di gioia, nel 2013, entrambi per Einaudi. Questo nuovo volume che li mette insieme ha una prefazione ampliata rispetto alle precedenti a cura di Angelo Pellegrino e una postfazione, sempre a firma dello stesso, che compare in tutte le uscite dei titoli Einaudi di Goliarda Sapienza dalla ristampa di Il filo di mezzogiorno.
I taccuini, oltre al loro straordinario contenuto, gettano una nuova e interessantissima luce sulla voce di Sapienza, sulla sua scrittura anche in relazione alla sua storia di attrice di cinema e teatro.


La voce di Goliarda Sapienza nasce come voce nell’espressione sua di ragazzina che racconta ai coetanei i film che ha appena veduto al cinema: Goliarda che dà voce ad altre voci, ad altre storie, e in questo si fa ascolto e narrazione; si dirama poi in Goliarda attrice di teatro e cinema, in voce di scrittura di documentari e film con il compagno Citto Maselli, scrittura privata e pubblica nella prima parte della sua vita, fino agli anni ’50 circa, punto in cui si disperde, sembra quasi che perda la voce di sé stessa. Accade il momento invero in cui la scrittrice deve affrontare una depressione fortissima dopo la morte della madre, è il periodo in cui rinchiusa nel suo male trova espressione attraverso la propria voce poetica e scrive la silloge Ancestrale, che vedrà la luce solo presso la vita felice nel 2013. Ma è questo smarrimento della propria voce, il non trovare senso in quello che si sta scrivendo per lo più per altri, che la porta alla poesia come approdo salvifico che la condurrà a ritirarsi da ogni cosa per dedicarsi solo alla scrittura. E lo fa producendo romanzi, poesie, taccuini, lettere... 

 

Nei suoi romanzi autobiografici la sua voce trapela nella versione di lei stessa che indossa una maschera e come personaggia parla di sé; nel grande romanzo è quella di Modesta, suo alter ego ma personaggia letteraria; poi ci sono le lettere e i biglietti in cui la voce è quella più intima, relazionale, affettiva, personale; la voce dei taccuini è quella di chi osserva tutto da una giusta distanza dalle cose, una sorta di riflessione testimoniale o di testimonianza riflessiva: sa di non essere letta, almeno in vita, e per questo si sente più libera dall’occhio degli altri. La voce della poesia attraversa, interpreta, dà corpo e slancio a tutte le altre. In tutta la sua prosa alcuni versi fanno capolino qui e lì tra le pagina, anche nel grande romanzo vi sono dei versi, nei taccuini si incontrano incipit, come quello citato qui in apertura, di straordinaria forza poetica.


Come cambia la voce nei diversi testi che scrive, così cambia la scrittura all’interno dei taccuini. Nei primi anni, tra il ’76 e il ’78 si percepisce una scrittura più sincopata dettata dall’urgenza di dire meno controllata sia nel periodare sia nelle osservazioni che sono talvolta molto dettagliate, talvolta sotto uno sguardo affettivo sulle cose. Si ha la sensazione che in questa parte confluisca quell’assenza di freni che non poteva mettere in pratica nel frattempo con la stesura del grande romanzo, una sorta di sfogo libero totalmente dalla lettura degli altri. Questa scrittura più prorompente mantiene molte delle sue caratteristiche nel periodo in cui descrive il viaggio in Transiberiana, per poi divenire più controllata nel periodo che va fino agli anni ’80.

 

Quando riprende i taccuini nell’88 la scrittura si fa meno concitata ma al contempo più piena, intensa, come se tra gli appunti minuti di ogni giorno e i pensieri, i resoconti, le riflessioni, la scrittrice la intraprendesse come comprensiva di tutti gli altri generi. Non sta scrivendo altro, riprende in questi anni a recitare per guadagnare, non scriverà più romanzi anche se in alcune pagine il progetto di un grande romanzo sulla madre appare spesso ma sa di non averne più le forze e la delusione per Modesta la pervade. I taccuini sono in questo periodo per lei la sua forma unica di scrittura in cui condensa decenni di stesure di romanzi, poesie, lettere, generi in cui ha declinato una voce diversa: ora la voce è una e ingloba tutte le altre, ora è libera di scrivere con una voce unica che ha una giusta distanza dalle cose da essere eterna, quasi post mortem. La voce di lei bambina che racconta i film ai compagnucci di scuola è arrivata sino a qua, la voce dell’attrice e della scrittrice:

 

“Feci questa scoperta con Elsa Morante: un giorno di sua ira furiosa (cosa che Adele e io conosciamo di persona) mi trovai sotto i suoi insulti a stupirmi affascinata dei tempi d’attrice che possedeva. Lei mi insultava e io pensavo: avrebbe solo bisogno di uno studio vocale per abbassare di qualche tono ed essere una tragica perfetta; in certi suoi sguardi e gesti, infatti, mi ricordò la Magnani. Giusto per scherzare: forse anche della silenziosa Natalia Ginzburg si potrebbe fare un’attrice comica, a volte ha degli imbarazzi a rispondere a chi l’interroga che sono proprio graziosi! La Bice Valori li fingeva a meraviglia”. 

 

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