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La corrispondenza di una vita / Camille Claudel e Auguste Rodin: parole come pietre

29 Agosto 2020

“Monsieur Rodin, ho appena iniziato un appunto per M. Gauchez, impantanandomi totalmente, come può vedere, e mi pare senza alcun dubbio il più stupido del mondo. Voglia usarmi la cortesia di correggerlo e di aggiungervi una bella tiritera sul movimento e sulla ricerca della natura, ecc. mi è stato impossibile trarmi d’impaccio. Mi rimandi l’appunto corretto al più presto, altrimenti M. Gauchez mi sgriderà di nuovo, lei lo sa.”

 

Questa sembrerebbe la prima lettera inviata da Camille Claudel ad Auguste Rodin, o almeno la prima a noi pervenuta, risale al maggio o giugno del 1886. Claudel e Rodin si sono incontrati cinque anni prima quando lei aveva 17 anni e lui 45: lei piena di passione per la scultura da poco trasferita a Parigi con la famiglia, lui ormai riconosciuto come scultore ma ancora a un passo dalla grande notorietà. Camille a 11 anni già mette le sue sculture di terracotta nel forno di casa, manifesta un temperamento entusiasta verso la natura e lo studio, così tanto che di fronte a una madre piuttosto severa riesce a farsi sostenere dal padre nel suo desiderio e impegno verso l’arte, con l’aiuto del fratello, Paul Claudel, anch’esso desideroso di lasciare la casa di campagna per la capitale.

 

A Parigi Claudel incontra Rodin all’Accademia Colarossi, un’accademia privata perché la scuola pubblica era ancora interdetta alle donne: è il 1883 e ne diviene allieva e modella, pochi anni dopo diverranno amanti. La corrispondenza di Camille Claudel è corposa ma mancante di molte lettere, molte quelle andate perdute, alcune da lei distrutte, altre citate ma ancora non ritrovate, ma dà traccia della sua tenace attività di comunicazione con critici, amici, sostenitori, parenti. Missive come strumento di lavoro per aver commissioni da gallerie, dallo stato, ma soprattutto per chiedere anticipi di denaro e sostegno. E le lettere al suo maestro, Rodin, personaggio a cui Claudel, nel bene e nel male, ha acconsentito di attraversare la propria vita. 

 

Questa prima lettera racconta il temperamento della scultrice, i suoi modi spesso diretti, le richieste impellenti, la necessità di una presenza nella sua vita, il bisogno sempre di procedere di scultura in scultura, di progetto in progetto, per plasmare, per guadagnare, imprimendo un continuo movimento che è della sua vita e della sua arte. In una seconda lettera, di pochi mesi successiva alla precedente, dalla Gran Bretagna Claudel non scrive solo di scultura ma della loro vita separata e di lui: “sono certa che ha ancora ecceduto con il cibo nelle sue maledette cene, con quella maledetta gente che detesto, che si prende il suo tempo e la sua salute e non le dà nulla in cambio”. Sembrerebbe uno sfogo di gelosia causato soprattutto dalla lontananza, ma forse è il seme della distanza che li separerà, a cui molti daranno il nome di follia. Di sé, in questa seconda lettera, gli scrive: “ha ragione a pensare che io non sia molto felice qui: mi sembra di essere così lontana da lei! e di esserle completamente estranea! C’è sempre qualcosa di assente che mi tormenta”.

 

Rodin intuisce sin da subito il talento della sua allieva, la caparbietà della lotta di Claudel con la materia, la sua esigenza e la sua voglia di plasmarla, la sua fame di saper e di imparare, nonché il suo genio. L’Atelier di lui diverrà il campo di lavoro tra maestro e allieva, il ring della modella e dello scultore, l’alcova dei due amanti: la relazione in questo scenario diviene scambio continuo di idee e forme, le mani e il genio di chi lavora a un’opera si mescolano alle mani e al genio dell’altra. La commistione tra i due, dapprima prassi e condivisione, inizierà a produrre delle crepe in Camille Claudel.

È un amore segreto, nascosto: benché a un certo punto Camille rimanga l’unica allieva di Auguste e l’unica le cui opere Auguste caldeggi, la loro storia non diviene presto di dominio pubblico. Lui ha una relazione da molti anni, lei è una giovane donna di buona famiglia a fine Ottocento. Così si incontrano di nascosto in un castello lontano dagli occhi di tutti.

 

 

Le poche lettere di Auguste in questi primi anni della loro relazione esprimono un grande amore e una grande passione. “Ci sono momenti in cui francamente credo che ti dimenticherò. Ma poi, in un solo istante, sento la tua terribile potenza. Abbi pietà, crudele. Non ne posso più, non posso più passare un giorno senza vederti. E no, l’atroce follia. È finita, non lavoro più, divinità famelica, e tuttavia ti amo furiosamente”, scrive nel 1886. Sono parole che parlano di corpi e di baci, di bellezza e di intelligenza, sono parole che ringraziano – “Grazie perché devo a te tutta la parte di cielo che ho avuto nella mia vita”;  e parole che promettono, invano, fedeltà e amore eterno. C’è una lettera, datata 12 ottobre 1886, in cui Auguste le scrive una dichiarazione d’amore quasi formale e una promessa di matrimonio: 

 

Per il futuro, a partire da oggi 12 ottobre 1886, mia sola allieva sarà Mlle Camille Claudel e lei soltanto aiuterò con tutti i mezzi che avrò a mia disposizione tramite i miei amici che saranno i suoi, soprattutto i miei amici influenti. Non accetterò più altre allieve affinché non si producono talenti rivali, sebbene ritenga che non s’incontrino spesso artiste così naturalmente dotate. All’esposizione farò tutto il possibile per la collocazione delle sue opere e per la stampa. Non andrò più con nessun pretesto a casa di Mme… alla quale non darò più lezioni di scultura. Dopo l’esposizione partiremo nel mese di maggio per l’Italia e vi rimarremo almeno sei mesi, e sarà l’inizio di un legame indissolubile dopo il quale Mlle Camille diventerà mia moglie. Sarò felicissimo di donarle una statuetta in marmo, se Mlle vorrà accettarla. Da ora e per 4 o 5 mesi, da ora sino al mese di maggio, non avrò nessuna donna altrimenti questo patto sarà infranto. Se la commessa del Cile va in porto, è in Cile che andremo invece che in Italia. Non prenderò come modella nessuna donna che ho conosciuto […]. 

 

 

Ma la storia non andrà in questo modo. Nel 1891 da L’Islette partirà per Auguste una delle missive più esplicite di Camille, in cui descrive le sue giornate nel pensiero e nell’attesa dell’amante, “Dormo completamente nuda per illudermi che lei è con me ma quando mi sveglio non è più la stessa cosa. Un bacio”, per chiudersi con un: “Soprattutto non mi tradisca più”.

 

La grande storia d’amore inizia a cedere: Camille soffre i continui tradimenti di Auguste, non tollera la sua vita mondana, non regge alla proposta di matrimonio non rispettata da anni; ma soprattutto non sopporta più di esser ancora letta dalla critica come un’allieva di Rodin, che in ogni sua opera venga rintracciata l’influenza del grande maestro. A Claudel sembra che nessuno veda il genio autentico che è in lei, genio che il suo maestro aveva dichiarato: “Le ho mostrato l'oro, ma l'oro che trova è tutto suo”. Dopo un periodo di allontanamenti e riavvicinamenti, compresa una stretta amicizia e forse breve relazione con Claude Debussy, l’artista inizia un percorso forzato di distanziamento dal suo maestro che sta diventando un’ossessione. Da passione d’amore e d’arte Rodin diviene per Claudel una persecuzione: “Conosco la mano malevola che lavora nell’ombra per allontanare da me tutte le amicizie, tutte le buone volontà, perché io arrivi a implorare il suo aiuto e lo faccia passare per un benefattore”, scriverà in una lettera nel 1905.

 

Rodin, per la verità, la sostiene talvolta economicamente anche di nascosto e caldeggia le commissioni delle sue opere, perché stima grandemente il suo lavoro d’artista; ma al contempo è un uomo che sta entrando nell’olimpo della notorietà, acclamato, richiesto come artista e come amante: è un uomo che non vive più della sua arte ma della gloria che ne deriva. Claudel, al bivio delle cose, inizia a deragliare: la linea della razionalità e della lucidità sui fatti non è più netta, la fatica di vivere, di esistere, di sopportare le angherie la spinge a superare quel labile confine steso tra realtà e immaginazione.  Camille è quella donna che a metà Ottocento ha lottato per praticare la sua arte infrangendo molte regole e tabù, ha lottato di fronte a una madre severa e distante per studiare e vivere a Parigi. Camille è la prima scultrice che raggiunge la notorietà per il suo genio e per la sua bravura, che vive sola, ha il suo atelier, paga i suoi modelli, i marmi, gli operai. Camille è una donna che imprime un corpo a corpo con la materia per farla opera d’arte, un corpo a corpo con la vita per esistere come vuole lei, un corpo a corpo con Rodin per riempire quella grande assenza di cui parla nella sua seconda lettera – in molti rintracciata già nella lontananza affettiva della madre – e per uscire dal suo insegnamento come artista autonoma. Il corpo a corpo è anche con una società che la considera la sorella di Paul Claudel e l’allieva di Auguste Rodin. Un corpo a corpo, infine, con il quotidiano in cui il denaro non basta mai in una delle arti più faticose e costose. Camille Claudel è una donna sola, con un amante più vecchio di lei, scolpisce corpi nudi, vive con i suoi gatti, è piuttosto indipendente. È una donna che ha lottato strenuamente in questi decenni della sua vita e inizia a cedere sul filo dei pensieri laddove è spesso presente un persecutore, “la mano malevola” di Rodin in principio, la madre e poi molti altri.

 

Nel momento in cui lo stacco della sua arte su quella del maestro viene riconosciuta, le sue opere sono viste come indipendente evoluzione dal maestro, il suo genio celebrato, la grande forza di Camille inizia a soccombere. Di fronte a opere in cui lei imprime un movimento forte e costante, al cospetto di una potenza creativa unica e originale che viene acclamata, l’artista declina in se stessa. 

La morte di suo padre rivela quanto l’uomo fosse l’unico ancora a sostenerla e a credere in lei, infatti dopo pochi giorni, con un certificato medico su richiesta della madre e del fratello, Camille Claudel verrà rinchiusa a 49 anni in un manicomio per i suoi successivi trent’anni, fino alla morte.

 

Molte le lettere scritte e ricevute da Camille negli anni dell’internamento che sono giunte a noi, grazie alla madre che aveva dato ordine di non recapitarle e non consegnarle “nell’interesse della paziente” e dunque conservate dall’amministrazione dell’ospedale. Perché se la sua arte era stata messa a tacere, anche la sua voce doveva divenire muta per timore ancora dello scandalo sociale: “Se mia figlia ha la possibilità di scrivere in questo modo a chi vuole, continuerà a farlo a tutti i conoscenti e Dio sa che cosa è capace di dire”.  Quasi nessuno andrà a trovarla, se non qualche sporadica visita del fratello di passaggio dalle sue molte missioni diplomatiche in altri paesi. Non andrà mai la madre, nonostante le suppliche della figlia, non andrà Rodin. Le implorazioni per uscire non sortiranno nessun effetto, nemmeno le promesse di non seguire più la sua arte ma di voler stare sola nella loro casa di campagna, sola in una stanza e cucina, null’altro. La morte della madre porta la speranza che il fratello la faccia uscire, ma accadrà solo un addolcimento nelle parole di Camille verso una donna così fredda.

 

La morte di Rodin non la riappacifica, continua a scriverne come di un nemico ancora vivo. L’isolamento, le camerate piene di donne che urlano e si strappano i vestiti, il gelo dell’inverno che la sfibra, il pessimo cibo, le molte domande sul perché si trovi abbandonata lì, saranno la compagnia per trent’anni. In una lettera del 1918 al dottore che ha firmato il suo internamento:

 

“Mi si rimprovera (crimine spaventoso) di aver vissuto da sola, di passare la mia vita con dei gatti, di avere manie di persecuzione! È a causa di queste accuse che sono incarcerata come un criminale, privata della libertà, privata del cibo, del fuoco e delle comodità più elementari”.

 

Nel 1927 in una lettera alla madre:

 

“I manicomi sono fatti apposta per far soffrire, non c’è rimedio, specialmente quando non si vede mai nessuno. […] Mi sono fatta dare 4 patate in camicia a mezzogiorno e la sera, è di questo che vivrò, vale quindi la pena di pagare 20 f al giorno per questo? È il caso di dire che dovete esser pazzi”. 

 

Scrive dal manicomio lettere lunghe, articolate, dove racconta del suo orribile quotidiano e sogna il mondo fuori, la libertà di esistere: parla di amici e parenti, conoscenti, cita solo saltuariamente il maestro e gli amici di lui che, insieme alla madre, l’hanno portata alla rovina.

 

 

E Rodin? Di lui nessuna traccia più di corrispondenza diretta, verrà citato in una missiva accusatoria della madre e, nel 1932, in una lettera di Eugène Blot successiva a decenni di silenzio: lui le scrive dopo aver ritrovato e sistemato la loro antica corrispondenza in cui le commissionava opere e parlavano di scultura, le scrive di sé, della propria malattia e di Rodin 

 

un giorno era venuto a farmi visita, l’ho visto improvvisamente impietrirsi davanti a quel ritratto [L’Implorante], contemplarlo, accarezzare dolcemente il metallo e piangere. Sì, piangere. Come un bambino. Sono passati quindici anni da quando è morto. In realtà non ha amato che lei, Camille, oggi posso dirglielo. Tutto il resto – quelle avventure pietose, quella ridicola vita mondana, lui che in fondo restava un uomo del popolo – era lo sfogo di una natura eccessiva. Oh! so bene, Camille, che lui l’ha abbandonata, non cerco di giustificarlo. Lei ha troppo sofferto per causa sua. 

 

La risposta di Camille è andata perduta, ma la corrispondenza tra loro continua e nel 1935 gli scrive:

 

Sono caduta nell’abisso. Vivo in un mondo così strano, così estraneo. Del sogno che fu la mia vita, questo è l’incubo.

 

Il 19 ottobre 1943 Camille Claudel muore a 78 anni nella prigione psichiatrica, viene sepolta alla presenza solamente del personale dell’ospedale. Dei suoi resti non vi è più traccia.

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