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Elsa Morante: il passato, la traccia e l'oblio

28 Novembre 2024

In un secolo scandito dalle persecuzioni e dai genocidi, Elsa Morante ci regala La Storia: Romanzo (1974) un romanzo variamente recensito, stroncato, accusato di patetismo, ma anche molto amato da parte della critica come da alcuni intellettuali dell’epoca fra i quali Natalia Ginzburg e Italo Calvino. La pulsione di morte presente nella collettività, e più volte affermata dall’autrice in vari discorsi come Pro o contro la bomba atomica (1965) e sicuramente nel pastiche Il mondo salvato dai ragazzini (1968), diventa adesso finzione romanzesca che prende corpo in un romanzo non per pochi, ma per tutti, mediante sapienti strategie narrative che non si esitano ad accostare alla postmemoria affiliativa teorizzata da Marianne Hirsch e un uso del tempo inteso quasi come un eterno coma umano e universale. Nel romanzo esiste la presenza della storia collettiva, della microstoria, come anche di una resa dei conti autoriale con la propria repressa origine ebraica. Il sentire della narratrice (come dell’autrice) si rivela con tratti che la critica oggi definisce in termini di ecocritica, in cui i protagonisti indiscussi e indistinguibili nel loro dolore che li accomuna non sono gli uomini secondo quella legge universalista per cui tale sostantivo è onnicomprensivo. La vulnerabilità si costituisce come un imposto minimo comune denominatore per animali e donne, ebrei e diseredati. Più che vittime, i personaggi di Morante sono i veri protagonisti di una storia che non cessa di esistere. A loro il faticoso compito di sollecitare dai lettori empatia e considerazione per il male assoluto quanto banale, per quell’aspetto apocalittico della storia avvertito da Walter Benjamin. Distanti dalle considerazioni riguardanti il loro supposto vitalismo (forse l’unico a possederne rimane Nino), i diseredati esplicitano la sofferenza umana di cui la narrazione assume sempre volti nuovi.

A una rilettura dopo cinquant’anni dalla data della sua pubblicazione e nonché controversa prima ricezione critica (Borghesi 2018), La Storia ci sembra più che mai un’opera emblematica del continuo sforzo che compie il genere del romanzo di inseguire – mediante tutti i mezzi retorici e non – l’andamento asincrono e non lineare di quell’instabile tempo che costruisce il nostro passato. Tutte le possibili anse in cui si posa l’angoscia come la gioia del vivere si riflettono nello specchio meraviglioso di una favola amara, quella di una famigliola composta da una madre e due figli di due diversi uomini che viene destinata all’estinzione per le circostanze immutate e immutabili del greed, dell’avidità disumana camuffata da teorie e dottrine tra le più diverse e tutte ugualmente mortifere. Con un certo spirito provocatorio, le mie riflessioni esaminano una basica inutilità della letteratura: quella cioè di costruire un dispositivo estetico che ci aiuti a capire e a imparare dagli eventi storici, sia quelli realmente vissuti dall’autore/autrice, sia quelli su cui si basa la ricerca documentaria dello/a stesso/a che non ci salverà mai dal nostro stesso desiderio di autoestinzione.

La letteratura non ci salverà mai dall’estinzione: tutt’al più rallenterà il processo del nostro autodisfacimento. Alla luce degli eventi vicini alla nostra generazione di lettori e di amanti delle pagine morantiane, quella famigliola di Ida Ramundo Mancuso ci appare sempre più sconfitta di fronte all’inerzia etica e sociale in cui viviamo. In un momento in cui è evidente a tutti che la Storia si ripresenta puntualmente con i suoi massacri, con la sua crudeltà, senza tuttavia dimenticare di operare variazioni rispetto al modo di operare (adesso abbiamo persino i cercapersone a compiere misfatti) cosa possiamo dire della nostra ostinazione nel voler imparare qualcosa da questa Storia che ci tormenta, da questa bufera che soffia venti nefasti verso di noi? Oggi parlo di Morante e del suo capolavoro del 1974. Una narrazione caleidoscopica di altre narrazioni della Seconda guerra mondiale e della prima metà del Novecento più in generale. Le narrazioni che partecipano con quella morantiana ad organizzare l’affresco dipinto dalle tonalità che declinano l’infinita carica emotiva dei personaggi cari a Elsa provengono non soltanto dai testi a cui l’autrice fa riferimento alla fine del romanzo (mi riferisco ai titoli citati nelle Note a pagina 658 dell’edizione Einaudi del 1995) ma da tante altre fonti, romanzesche e non, che provengono e nutrono l’epopea del romanzo neorealista italiano, quello famoso ma anche criticato da scrittori quali Carlo Emilio Gadda e Giuseppe Berto. Il Neorealismo rispondeva ad una precisa pulsione politica e ideologica: l’avversione alla dittatura e al Fascismo in particolare. Quel linguaggio disadorno, quella rabbiosa aderenza alla realtà di cui parla Berto nella sua appendice al Male oscuro, quella volontà di presenza e di fama di cui erano in fondo desiderosi molti giovani autori sbarcati a Roma con la voglia di quella ‘gloria’ per cui lo stesso Berto cadde malato, non erano argomenti che potevano sedurre invece una scrittrice amante della finzione. Di una finzione di cui si sentiva tra l’altro già maestra e la cui corona si posava sui suoi folti capelli già da tempo. Una scrittrice nata, Morante, mai allineatasi, d’altronde, con qualunque partito e idea al di fuori di un anarchismo dettato dal desiderio di una libertà di espressione che travalicava i confini angusti di resistenze a chicchessia. Detestava il Potere e i Poteri. Ma la sua poetica a volte sembra intrecciarsi con quello che un neorealista come Elio Vittorini aveva pronunciato nel 1951:

se consideriamo il romanzo come un lavoro di un’ispirazione poetica che cerca la verità poetica (e dico la poetica e non la morale o la psicologica o la sociale) d’una certa realtà da cui sia sollecitata, allora la parte che io mi sono trovato a chiamare ‘musica’ è sostanziale e determinante. Il romanziere, in tal caso, non si trova davanti alla realtà e sarebbe assurdo chiedergli sia di riprodurla fedelmente sia d’interpretarla secondo quello che tu chiami metro di una verità interiore. La realtà è la fonte della sua ispirazione poetica, e dunque è contenuta nella ispirazione poetica stessa, è un oggetto che agisce soggettivamente entro al romanziere che lo porta, e il senso poetico che avrà acquistato nell’opera scritta sarà una verità obbiettiva che il romanziere avrà scoperto in essa mentre la portava e non già mentre la contemplava per riprodurla o mentre la contemplava per interpretarla. Non è senza motivo che le verità scoperte dai poeti nel loro campo siano più durature di quelle scoperte dagli scienziati nel proprio. Sono in effetti e indipendentemente dalla volontà stessa dei poeti stessi, più scientifiche.

Questa dichiarazione di Vittorini nell’Inchiesta sul neorealismo di Carlo Bo (Eri, Torino 1951), rivela una straordinaria consonanza delle sue idee con quello che sostiene Morante nella famosa intervista sul romanzo in Nuovi Argomenti nel 1959, ‘la realtà corruttibile dev’essere tramutata […] in una verità poetica incorruttibile. Questa è l’unica ragione dell’arte: e questo è il suo necessario realismo […] Le verità scientifiche sono, senza dubbio, legittime: però le verità poetiche, di certo non lo sono meno’ (‘Nove domande’, in Morante, Opere, Mondadori 1990, p. 1502).

Con il lascito comunque potente di quel Neorealismo che appartiene a un illustre antesignano della corrente come Pane e vino di Ignazio Silone, all’Italo Calvino del Sentiero dei nidi di ragno, all’Alberto Moravia della Ciociara, a Se questo è un uomo di Primo Levi, Morante costruisce le fondamenta della cattedrale dedicata ai senzastoria, ai paria, a chi è afflitto da afasia sociale, come anche agli afflitti dalle ideologie transitorie di cui Ninnuzzu, nella sua ingenua gioventù, ci pare essere un valido esempio. Per Neorealismo intendo anche la lezione del cinema italiano che, con le teorie di Cesare Zavattini, intesse la potenza della narrazione visuale degli eventi raccontati da Morante nel romanzo. Questo a partire almeno dall’immagine di Anna Magnani e alle descrizioni dei quartieri proletari romani, dal Prenestino di Roma, città aperta fino all’ultimo, il Portuense in cui una splendida Magnani non cede alle lusinghe di Walter Chiari in Bellissima di Luchino Visconti. Ancora, a tutti coloro che hanno visto Sciuscià (1946) di Vittorio De Sica ambientato proprio in quell’Istituto San Michele dove il padre di Morante lavorava, oppure la trilogia della guerra di Rossellini in cui, dopo aver osservato i bambini romani che scimmiottavano con fucili e rabbia i grandi in Roma, città aperta, la tragedia si allarga con orrore anche al piccolo berlinese Edmund Koeler di Germania anno zero. Il Male lo rende impari di fronte alla Storia e decide a fare a meno dell’unico suo tesoro: la sua stessa esistenza. Ma si pensi anche a L’oro di Roma di Carlo Lizzani del 1961… Gli esempi sono davvero tanti.

L’ordine del tempo

Morante esegue un grande lavoro citazionale in stile postmoderno, azionato cioè su livelli multipli e non certo volto al plagio: sta ai lettori ripescare la narrazione a cui faceva riferimento mentre scriveva forsennata per far capire ai ragazzi – quelli pochi felici ma anche a quei molti e infelici del Mondo salvato dai ragazzini – che cosa le pareva fosse stato il Novecento a partire dalla scoperta dell’energia nucleare. A partire (se non prima) dalle scoperte quantistiche di Werner Heisenberg in quell’isoletta chiamata Helgoland il cui inavvertito male avrebbe colmato l’Antropocene: “…1900-1905/ Le ultime scoperte scientifiche sulla struttura della materia segnano l’inizio del secolo atomico” (p.7). Si rinnova anche nel Novecento il “noto principio immobile della dinamica storica: agli uni il potere, e agli altri la servitù” (La Storia p.7):

Al centro di tutti i movimenti sociali e politici stanno le grandi industrie, promosse, ormai da tempo, col loro enorme e crescente sviluppo, ai sistemi delle industrie di massa (che riducono l’operaio «a un semplice accessorio della macchina»). Per le loro funzioni e i loro consumi, le industrie hanno bisogno di masse, e viceversa. E siccome il lavoro dell’industria è sempre al servizio di Poteri e Potenze, fra i suoi prodotti il primo posto, necessariamente, spetta alle armi (corsa agli armamenti) le quali, in base all’economia dei consumi di massa, trovano il loro sbocco nella guerra di massa. (p.7)

La lezione di Antonio Gramsci non sembra essere passata inosservata: Morante ne interpreta le parole nell’assetto che sceglie per il proprio affresco romanzesco. Ma dalle industrie di massa e dalla corsa agli armamenti annotate nel testo che inaugura ciascun capitoletto, deriva anche una trasformazione radicale dell’essere umano che prevede per questo obiettivo la disumanizzazione di milioni di individui mediante studiatissimi e funzionanti campi di concentramento e di sterminio in nome di una Reinigung etnica ma soprattutto della dichiarata e documentata manodopera a costo zero che risollevasse l’economia tedesca a terra dopo il trattato di Versailles del 1919. Il desiderio maligno e insopportabile di distinzioni e classificazioni – insomma – che funzionassero e fossero utili quando la furia classificatoria sarebbe stata posta al servizio del profitto capitalistico, imponendo scelte e decisioni politiche camuffate dietro inesistenti ragioni scientifiche, si sviluppa in tal modo.

Come affermano Tiziana de Rogatis (Homing/Ritrovarsi 2023) e Katrin Wehling-Giorgi («Come un fotogramma spezzato»: Traumatic Images and Multistable Visions in Elsa Morante’s History: A Novel in Trauma and Women Writers: A Transnational and Italian Perspective, a cura di de Rogatis e Wehling-Giorgi 2022, pp. 55-78), l’universo corale della Storia mobilita risorse narrative e visuali in grado di contribuire e sottolineare la negazione iconica della dissociazione delle varie visioni. Gli stessi traumi messi in scena dalla vicenda scardinano i rapporti di forza come io stessa ho rilevato nei miei studi (Lucamante 2012 e 2014). Gli spazi di resistenza provengono sia dall’esercizio degli affetti che dalla “narratività coinvolgente del romanzo. Raccontare è quindi una capacità creativa che ripara le fratture cognitive e psichiche causate dai traumi della Grande Storia: una forma di medicina narrativa” (de Rogatis e Wehling-Giorgi «Allegoria» 2024).

Questa riscrittura della Storia monumentale e patriarcale e delle sue precedenti narrazioni letterarie e visuali ancorate a un’idea del tempo, del passato, della politica e del genere di appartenenza trova un porto sicuro nella microstoria che appartiene a noi tutti/e e viene infine raccontata attraverso una prospettiva legata al dis/placement (trovarsi fuori dal proprio posto di origine), dei traumi delle migrazioni e del loro pathos (de Rogatis 2023). Ida e Useppe vivono a Roma nello sradicamento di una migrazione interna dalla Calabria, nell’isolamento di una grande metropoli e nella vergogna del male epilettico sofferto da entrambi, segnati per di più dal microtraumatismo quotidiano del razzismo antisemita. Intorno alla madre e al figlio si dispiega il grande epos migratorio del romanzo: un quadro di umanità eterogenea in movimento, composto da famiglie meridionali insediate a Roma, sfollati, partigiani, ebrei e deportati. I Mille di Pietralata, nella loro grazia animale, vivono felici in una condizione che Ida invidia loro capendo istintivamente che si tratta di uno stato di grazia quello di accettare la vita per quello che è. I Mille accettano le gemelline di Carulì come la gatta Rossella nello stesso modo in cui accolgono nel loro angolino dello stanzone Ida e Useppe, come Davide/Cesare. La grazia vira naturalmente verso questi esseri più vicini agli animali che agli umani in quel loro semplice e grato riconoscimento della vita. Ma si tratta di una ricostruzione mitica delle possibilità umane offerte o negate a chi non ha mezzi per difendersi dal Male, di un’epica omerica, come scrive Borghesi in Tra «Epos» e Epicedio. Paragrafi sulla «Storia» di Elsa Morante e Simone Weil, «Italianistica», XLIII:3 (settembre/dicembre 2014), pp. 91-113.

Essere ebrei

Impossibile non essere oggi colti da un profondo senso di scoraggiamento nei confronti delle possibilità stesse della letteratura. Chiedo a chi mi legge come a me stessa in fondo, in cosa sia riuscita davvero l’operazione creativa che sottende alla Storia. In effetti, penso si tratti di una faccenda privata che riguardava solo Elsa: Elsa ipse come scrisse Cesare Garboli nell’introduzione einaudiana del 1995. Per comprendere questo, bisogna partire da una delle letture dichiarate nelle Note a pagina 658 dell’edizione già citata: vale a dire 16 ottobre 1943 di Giacomo Debenedetti. Una cronaca di eventi non vissuti da Debenedetti che si fece testimone per interposta persona della deportazione degli Ebrei del Ghetto di Roma. Questo particolare evento ci consegna a uno studio attento non tanto del personaggio di Davide Segre, quanto, e qui vengo al punto, della figura della narratrice della Storia. Ho già scritto di questo elemento così rilevante nell’ossatura stessa del romanzo e nella resa del mondo che tale romanzo vuole regalarci.

Troppo spesso oggi si indica disinvoltamente l’appartenenza alla razza ebraica delle varie Morante e Ginzburg. Ma noi sappiamo bene che per Morante non era per nulla così. Non lo era d’altronde neppure per Primo Levi che coltivava un rapporto quasi enigmatico come scrive Nancy Harrowitz (2015) con la propria identità fino ai suoi ultimi giorni. Era stato il campo, in fondo a fargli ricordare di essere ebreo, di appartenere alla razza di coloro che non sono mai stanziali, ma mentalmente e psicologicamente sempre diasporici. Essere ebreo, capire la propria identità per Levi è stato il tetro regalo del campo. Ma per Morante si tratta di una cosa diversa. Mentre Ginzburg negli stessi anni nel saggio Gli ebrei dichiarava anche lei la propria appartenenza a tale gruppo – se non altro culturalmente dato che la famiglia Levi era laica e socialista – Morante rivendica la sua per una questione identitaria che, alla luce di tante riflessioni, ci sembra quasi studiata a tavolino per poter meglio identificarsi e produrre la voce Elsa ipse. Morante si studia nella propria ebraitudine mediante il proprio alibi narrativo che non è solo il confuso Davide, ma anche e piuttosto la povera Ida Ramundo vedova Mancuso:

Veramente, secondo l’intenzione dei suoi genitori, il suo primo nome doveva essere Aida. Ma, per un errore dell’impiegato, era stata iscritta all’anagrafe come Ida, detta Iduzza dal padre calabrese. (p.21)

Il nome Aida suona strano all’impiegato calabrese che preferisce registrare la bimba dei signori Mancuso con un nome più solito, Ida appunto. Della sua reale origine, la madre Nora, “si era confidata solo con lo sposo e con la figlia, sotto pegno severissimo di segreto” (p.22). Il segreto con cui dovrà convivere Ida riemerge un giorno del gennaio del 1941: una questione posta nel fondo di memorie di bimba e un giuramento fatto per una cosa altrettanto misteriosa quanto almeno la propria vera religione. Questo Nora le aveva detto in proposito:

Nei riguardi del suo segreto ebraico, essa aveva spiegato alla figlia fin da piccolina, che gli ebrei sono un popolo predestinato dall’eternità all’odio vendicativo di tutti gli altri popoli; e che la persecuzione si accanirà sempre su di loro, pure attraverso tregue apparenti, riproducendosi sempre in eterno, secondo il loro destino prescritto. Per tali motivi, era stata lei stessa a volere Iduzza battezzata cattolica, come il padre. Il quale, per il bene di Iduzza, aveva acconsentito, benché recalcitrante: piegandosi perfino, durante la cerimonia, per gli occhi del mondo, a farsi in fretta e furia un gran segnaccio di croce. Però in privato, invero, sul conto di Dio, lui soleva citare il detto: «L’ipotesi DIO è inutile» aggiungendoci in accento solenne la firma dell’Autore: «Faure!» come faceva di regola alle sue citazioni. (p.24)

Nora Almagià aveva approfittato anche per questo della migrazione interna che portava le maestrine del Nord Italia nei luoghi più remoti del Sud. Forte della lontananza dal Ghetto di Padova, Nora aveva potuto condurre una vita tranquilla in un luogo in cui il suo cognome non significa assolutamente nulla. Nonostante ciò, viveva comunque “come soggetta a un dio vendicativo e carcerario, che la spiava” (p. 25). La figlia, una donnina descritta come resa inerme dalla consapevolezza del suo segreto, rivendica a metà del romanzo quello di cui da sempre l’avevano fatta vergognare e per cui aveva forse sviluppato l’epilessia sin da piccola. Il richiamo ostinato e muto al Ghetto è uno spazio che Morante, nella sua assoluta ignoranza della propria discendenza, deve ricordarsi di specificare nei suoi appunti che si trova dall’altra parte del Tevere.

La donnina, insegnante anche lei (l’unico lavoro possibile per le donne di Morante, se lavorano), rivendica ora la proprietà di quella Iduzza che non è soltanto Iduzza, ma, appunto A-ida, schiava ebrea soggetta al popolo egizio. L’identità ebraica non è un giocattolo da tirar fuori a piacimento in certi momenti della nostra esistenza. Pure, per Morante la sua identificazione con Ida Mancuso risulta molto più autobiografica e aderente di tutti i riferimenti ai testi del Neorealismo italiano, cosa che Pier Paolo Pasolini non omette di notare nella sua recensione vetriolica. Diaspore interne degli italiani diventati tali di recente come i suoi stessi genitori avevano condotto a esistenze e vite familiari discutibili, oscurati da ombre etiche e morali.  Per costruire la figura di Ida Morante ha dovuto fare i conti con un ebraismo sottaciuto (per non dire ignorato) per via della decisione materna di crescere tutti i figli nella religione cattolica. Ma quello che Pasolini non si chiese mai riguarda, piuttosto, il tempo che era stato necessario a Morante per scavare su questo elemento autobiografico così pesante. Io pure sono ebrea, sussurra con voce malferma Ida alla signora Di Segni di fronte al treno che parte dalla stazione Tiburtina. Una realtà soffocata e repressa che riemerge soltanto grazie al lavoro della scrittura per gli altri. In Massa e potere, Elias Canetti scrive: «Ci si può chiedere in che cosa dunque questi uomini rimangono ebrei, che cosa li faccia ebrei, quale sia l’ultima, l’ultimissima cosa che li unisce agli altri quando si dicono: ‘Io sono ebreo’». Chissà cosa avrà voluto ammettere Ida/Elsa con la stessa frase a cui aggiunge un semplice ‘pure’. Ritrovarsi dopo tanto tempo nel calore della propria gente e dividerne il destino. La mite Ida fa voto di appartenenza alla propria gente. Elsa ne registra i sussulti, fossero anche gli ultimi, mentre il fiore negativo della nostra civiltà sboccia in tutta la sua virulenza

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In occasione dei 50 anni dalla prima pubblicazione del romanzo La Storia di Elsa Morante nel 1974, Biblioteche di Roma e doppiozero propongono dal 24 settembre al 17 dicembre 2024 una nuova rassegna Alfabeto Morante, Lezioni in biblioteca dedicata a una delle autrici più significative del Novecento.

venerdì 29 novembre ore 11.00 Biblioteca Casa della Memoria e della Storia
La persistenza del passato e la traccia dell’oblio: “La Storia”, l’ebraitudine di Elsa Morante e l’inutile esercizio della memoria con Stefania Lucamante.

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