Greetings from Corelli

18 Ottobre 2013

Lunedì mattina sono entrata per la prima volta al CIE di Milano, in via Corelli. Ero in ritardo, quasi a non voler andare. Con il taxi abbiamo cercato il posto risalendo in tutti i sensi quel pezzetto di città che si immerge sotto la tangenziale, senza riuscire a trovare il gabbiotto della polizia, i padiglioni nascosti all’ombra dei pilastri. Mentre mi accingevo ad arrivare, pensavo tra me e me che non potesse essere diverso dalle molte case di reclusione, circondariali, carceri di mezza Italia in cui sono entrata negli ultimi anni. Eppure. Eppure una differenza c’è.

 

C’è la facilità con cui ora si può entrare, dopo l’ondata emotiva della strage di Lampedusa, grazie alla quale tutti gli operatori del settore migratorio cercano di legittimarsi come “non complici” del sistema di controllo e gestione degli ingressi e delle uscite dal territorio nazionale. C’è che, una volta dentro, lo spazio è qualcosa di differente. Se tra le mura di un carcere è chiaro cos’è il dentro e cos’è il fuori e è evidente il confine simbolico che lo Stato traccia tra colpa e libertà, tra il “giusto” e il “punibile”, nei centri di identificazione il confine è molto più labile, sfumato, ma, appunto per questo, ancor meno valicabile.

 

Gli spazi si somigliano tutti. Entrando, l’androne che accoglie è pieno di poliziotti. Non bevono caffè e non fumano sigarette come spesso accade con la polizia penitenziaria. Alle loro spalle, un po’ come gli armadietti per gli zaini in biblioteca, c’è una mensola piena di caschi, e di scudi: il kit per la più accesa delle manifestazioni di piazza. Quasi ad attendere, costantemente, una guerriglia urbana inframuraria. C’è un’infermeria stretta, l’unica porta non blindata è ammaccata da innumerevoli colpi. Passando oltre, ci sono i padiglioni, alcuni in ristrutturazione. Si sta cercando di rendere la struttura, parole degli operatori, “a prova di sommossa”. Per questo i letti sono saldati al terreno. Per questo gli “armadi” sono degli alveari di calcestruzzo, cubi bloccati al pavimento. Le stanze sono da 6. Sei letti inchiodati, un quadro svedese di cemento portaoggetti, materassi non infiammabili. E basta.

 

Questo stupisce.

 

Non c’è nulla. Qualche abito raffazzonato sul letto. Non un poster, un Padre Pio, una divinità animista, un’immaginetta porno. Niente. Nessuna iconografia. Pareti spoglie, letti vuoti, stanze che si ripetono uguali. L’antropomorfismo delle celle del carcere è qui completamente assente. Non pervenuto. Sono sale d’attesa, perenne.

 

Ci sono spazi di ricreazione e socialità. In questi, altri tavoli inchiodati con seggiolini anch’essi fissati al terreno riempiono lo spazio. A tre metri da terra, protetta da possibili colpi o lanci, una tv trasmette un telegiornale. Sbarchi. Lampedusa. Incrocio gli sguardi dei ragazzi presenti, che guardano la tv e mi rivolgono occhiate interrogative. C’è un silenzio misto ad imbarazzo. Mi vergogno di essere lì, e di non aver la possibilità di comprendere quella solidarietà che passa diretta dalla saletta asettica al plasma della tv a quelle spiagge, a quel mare.

 

Ci sono tre macchinette del caffè, avvolte in una gabbia metallica, che permette solo lo spazio della mano per inserire le monetine, prendere il bicchiere. E poi, incastonati come appliques alle pareti, i telefoni. Vecchi telefoni Sip, ora Telecom, argentati, con la cornetta arancione. Uno slancio di fine anni novanta, in disuso per tutto ciò che sta fuori. Sono l’unica cosa non fissata da un trapano, talmente preziosi che nessuno deciderebbe di utilizzarli come oggetto contundente.

 

E poi arrivano le parole, le chiacchiere, i racconti. Il caffè non arriva, il grigio di una Milano d’autunno di mischia al “giardino”, una colata di cemento tra gli androni e le ‘sezioni’.

 

S. viene dall’Egitto. Come gli altri, prima di Corelli è passato a San Vittore. Come gli altri, preferirebbe tornare in carcere piuttosto che rimanere dov’è. Come gli altri, ha preso e prende quotidianamente “la terapia”, una misura antisommossa più efficace del letto trapanato al terreno: benzodiazepine. S. ha una compagna, fuori. Lei è mia coetanea, si chiama A., viene da Bizerte, la roccaforte dei salafiti tunisini, ridente località di mare che guarda all’Europa. A. è regolare, è badante e grazie al decreto flussi può permanere sul territorio italiano. A. è incinta, di 11 settimane+6.

 

Le carte spiegazzate di S. mi raccontano la sua vita, una ventina di fogli sul tavolino da mensa che parlano di amori, di notti, di viaggi, di scontri, di insulti per le scale, di offese alla futura sposa, di pubblicazioni matrimoniali, di tribunali del riesame che rivedono sentenze, di permessi che scadono, di incontri per le vie di Milano, di piccole case e di grandi attese. Raramente ho immaginato che il destino si potesse riassumere in un piccolo plico di A4. Eppure. S. vorrebbe sposare A.. Hanno una data, il 21 ottobre, per arrivare come le coppie felici al Palazzo Reale, la sala piena di specchi e velluti (ostentata ricchezza tardo-napoleonica) e sposarsi. Come dice il diritto, “perfezionare il negozio matrimoniale” permetterebbe ad S. di rimanere regolarmente in Italia. Ad S. non interessa il proprio status giuridico.

 

La fretta non è dettata dal dover dormire ancora notti nei letti saldati, dal dover passare ancora giorni nei cortili di cemento, vista tangenziale. A. è incinta, quindi impura. E non sposata. La futura moglie, il futuro figlio, rischiano, secondo S., il disonore e il disconoscimento da parte della comunità. L’unica ragione per sposarsi è che il figlio nasca in una famiglia, formale. Una famiglia come non ce ne sono più nella nostra Italietta. Quel modello di famiglia che tuttavia pretendiamo dagli altri, la famiglia ideale, un Mulino Bianco simbolico necessario per dare una forma giuridica allo stare nel territorio. I legami e i sentimenti devono essere saldi, perché le procedure, le tutele, le strutture giuridiche che passano il mare permangono deboli.

 

S. non può andare a palazzo Reale il 21. S. non può camminare sul territorio italiano, è un’eccezione. Discuto con i funzionari della questura. Per sposarsi non serve un luogo fisico, basta un pubblico ufficiale, una delega del comune, gli sposi e due testimoni. Se S. non può uscire, i requisiti del matrimonio potrebbero entrare, o quantomeno stare al cancello. Basterebbe stringersi la mano tra l’ingresso e la guardiola per avere un matrimonio.

 

Basterebbe quello per rendere S. regolare, per uscire dall’eccedenza. In carcere esiste il matrimonio per procura. A Corelli no. Formalmente, S. dovrebbe tornare in Egitto, sposarsi con A., e a quel punto, entrambi regolari, tornare in Italia. I costi umani, emotivi, fisici, i tempi del “negozio giuridico”, non contano. “Cosa vuole mai, signorina? Si potesse fare lo faremmo, ma non possiamo aiutarli più del dovuto… il diritto è il diritto.

 

Lui non può uscire, lei non può entrare. Lui non può permanere sul territorio italiano, rimane qui, in questo spazio “altro”, eccezione di giurisdizione e di diritto. “Il matrimonio, non s’ha da fare”. Non è il romanticismo che mi commuove. Non stavolta. E’ il bisogno costante di frustrare i pochi, labili diritti. E’ l’affermare violento, con le parole della giustizia, con i simboli dello Stato, che ci sono spazi di libertà e spazi di sospensione. Sono questi gli atti che mi feriscono. Sono il riconoscimento della cittadinanza dei morti di Lampedusa, che acquistano dignità solo dopo il pianto, dopo la strage, e che vengono quotidianamente umiliati da vivi. Perché i diritti dei morti non costano nulla, mentre i diritti dei vivi ci fanno paura. Come se ci venisse sottratto qualcosa. Come se questi promessi sposi potessero minacciare altre nozze, altri veli, altri confetti, altre famiglie, altre nascite, altre vite.

 

Perché è questo che non mi spiego mentre guardo questi ragazzi, questi uomini, qualche signore che ha superato i 60, che ci seguono con i documenti, che indossano pigiami o scarpe da corsa, quasi fossero costantemente indecisi sul partire o sul restare. Questo mi domando: da quale minaccia reale ci stiamo proteggendo? Quali sono le ragioni profonde che ci hanno spinto a costruire centri di detenzione amministrativa? E' una questione di qualità o una formalità? Non ricordo più bene una formalità, come decidere di radersi i capelli, di eliminare il caffè, le sigarette. Non ricordo più bene, questa è la questione.

 

Dal decreto Dini, alla Turco-Napolitano, passando per la celebre Bossi-Fini, sino al “Pacchetto Sicurezza” e alla recente “Direttiva Rimpatri”, le maglie del diritto si sono aperte e chiuse a fisarmonica. La detenzione presso i centri si è dilatata nei massimi, da 30 giorni sino all’extrema ratio, in casi gravissimi, di 18 mesi della direttiva rimpatri. Al tempo stesso, gli spazi giuridici dell’accoglienza si sono rimpiccioliti: le possibilità di poter richiedere ed ottenere asilo ridotte, le procedure irrigidite, le difficoltà di riconoscimento della protezione da parte dello Stato affievolite.

 

La discrezionalità italiana, quella europea, hanno stabilito di volta in volta chi fosse includibile e chi no, come correggere le permanenze grazie a decreti flussi e a controlli ai confini. Con navi, con radar, ora con droni. Eppure, si parla di detenzione amministrativa, di “ospiti”. Una burocrazia tagliente, più incisiva del diritto penale stesso, che sospende a data da destinarsi le traiettorie di vita di centinaia di persone tra Gradisca d’Isonzo, Mineo, Ponte Galeria, Bari, Trapani, Torino, Crotone, Bologna, Modena, Caltanissetta e le scompone tra centri d’accoglienza (CDA), Centri di accoglienza richiedenti asilo (CARA) e Centri di identificazione ed Espulsione (CIE). Una formalità, o una questione di qualità. Senza tempo, né spazio.

 

I filosofi parlano di concetto di campo, e si richiamano spesso a tristi memorie del Novecento. Di cosa parliamo quando parliamo di CIE? Eppure ci sono vite che continuano dentro e fuori, attese, bambini che nascono, genitori che si ammalano e che non possono nemmeno essere raggiunti con il rimpatrio volontario, perché la macchina si inceppa anche se si sceglie di partire. Una formalità, o una questione di qualità.

 

Il corridoio di uscita è lo stesso dell’infermeria. Le finestre sono tutte incrinate. Non c’è un vetro intero. La struttura è immobile, le carte ferme, ma lo slancio vitale è lì, testimone di nozze simboliche, di ricongiungimenti ideali, di viaggi alla ricerca di una casa, una vita, un parente, un sogno, lontano dalla tangenziale.

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