Harold Brodkey. Questo buio feroce

4 Febbraio 2014

In apertura di Questo buio feroce di Harold Brodkey (Traduzione di Delfina Vezzoli), la moglie Ellen Schwamm Brodkey ringrazia gli amici più stretti per la vicinanza “nel corso di questi ultimi anni di vita, duramente conquistati”.

E sono anni di vita duramente conquistati quelli di cui racconta Harold Brodkey, ma non riguardano solo gli anni della malattia, anzi spesso non coincidono nemmeno, riguardano piuttosto la coscienza del proprio posto nel mondo: ruolo, immagine, memoria di sé. Brodkey non imbroglia le carte, la sua è sempre letteratura anche quando, come in questo caso, l’obiettivo è totalmente puntato su se stesso.

La malattia, il ricovero e l’AIDS diagnosticato diventano l’ultima storia da raccontare, l’ultimo posto da cui vedere il mondo. L’intensità dolorosa delle pagine gioca un continuo balletto con l’ironia di un autore straordinario che a tratti ricorda l’affilata intelligenza di Truman Capote. Un percorso a ritroso nella propria esistenza, un viaggio esibito e spesso compiaciuto, ma sempre in maniera dichiarata e in un certo senso vigorosa. La storia di un ragazzo irresistibile, di un fallito annunciato, di un figlio abbandonato, di un figlio molestato e poi di un autore in cerca di acclamazione e ancora l’ansia e l’angoscia della scrittura, di un lavoro che non può mai avere termine e che sempre è sottoposto a giudizio di chiunque; come di chiunque è costretto (volente o nolente) a tenere conto l’autore.

L’amore per Ellen, centrale nel libro, è raccontato con lo sguardo di un amante ogni momento sorpreso dall’energia della compagna, dalla sua bellezza e dalla sua vicinanza. La morte non invade le pagine, resta solo come mezzo per raccontare questo amore che si fa ogni giorno più totale in ogni sua rifrazione, in ogni sua quotidiana angoscia.


                               Ph. Richard Avedon


“Credo che alla fine, a ucciderci, sia il dolore per il mondo e per il fatto di non essere creduti. È vitale invece il riconoscimento della propria verità affettiva, la verità della propria vita”. Farsi una storia ed essere obbligati a raccontarla ogni volta: una terapia, avverte Brodkey, ma anche un lavoro. Uno spazio dentro al quale lo sguardo può finalmente sciogliere i nodi e tornare a vedere senza i lacci di una realtà che non può essere raccontata se non partendo da ciò che si vede.

Brodkey ha una straordinaria libertà di visione, accetta il proprio ruolo senza censure o senza vergogne: il racconto è il suo modo di vedere le cose e tanto basta. Lontano dall’autofiction spesso costruita attorno ad un autocompiacimento mimetizzato da buoni sentimenti che poco distano dal tentativo di grandi narrazioni (due semplificazioni in un corpo unico, e noioso), Questo buio feroce non nasconde prima che i fatti le intenzioni; trasforma le ansie di una vita in un’esplicita richiesta di partecipazione: voglia di esibizionismo, seduzione, ambiguità e gusto per la comoda vita borghese sono i ganci di una storia che non ha un lieto fine, ma lo è in ogni sua pagina.

Brodkey non cerca pace o perdono, lotta pur sapendo che dovrà arrendersi e la resa per sfinimento sarà la sua soluzione: la vita è noiosa, ma la morte non è meglio, scrive. Morte come forma ultima del suo preteso fallimento, dentro al quale ha alimentato la propria letteratura, il proprio fascino e una vita esposta, negata e contraddittoria; una vita che si potrebbe pensare audace, ma più semplicemente obbligata.

La lucentezza delle pagine di Harold Brodkey, di Questo buio feroce come del suo capolavoro Storie in modo quasi classico è il risultato di una disciplina parallela ad un continuo richiamo, un impulso vitale e confuso di cui è colma l’esistenza, basta saperlo. Nessuna lezione, semplicemente la sua storia e quella della sua morte. Nulla da imparare.

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