Un selfie con Enrico Berlinguer

26 Marzo 2014

Quando c’era è nel titolo, Addio è invece la prima pagina spiegazzata dell’Unità con cui si apre il film. Walter Veltroni dichiara così fin da subito nel suo primo film – Quando c’era Berlinguer – che le sue intenzioni non sono quelle del racconto, ma dell’enunciazione, della citazione. Non un ricordo di Berlinguer, intimo o politico che sia, ma la dichiarazione di una nostalgia, a tratti anche di una rivalsa tutta votata al presente.

Tra i vari testimoni interpellati da Veltroni mancano solo gli esponenti della sua generazione, i suoi diretti concorrenti si potrebbe dire o ancora i suoi compagni, mancano i  cosiddetti berlingueriani. Tutti compaiono solo etichettati sotto la vaga categoria generalista dei “giovani”. E qui Veltroni compie due movimenti: in uno certifica l’azione politica di Giorgio Napolitano che oggi, a novant’anni, comunque sia regge il sistema politico; nell’altro evita di evidenziare la sconfitta di una generazione saltandola a piè pari, citando giusto qualche fuoriuscito da Ferdinando Adornato a Giuliano Ferrara per i soliti usurati birignao d’occasione.

 


Come nel caso di Il desiderio di essere come tutti di Francesco Piccolo, non è la partecipazione il nodo, ma l’esserci stati, aver preso parte alla grande storia, non all’interno della mitologia del collettivo di una generazione, ma nella totale mancanza di presa di responsabilità di una generazione in tal senso decisamente poco mitica. Al punto che Veltroni si concede anche di comparire con la futura moglie (prima ancora mostra invece la ragazza dei suoi sogni, un amore sfortunato...) giovani e scapigliati durante una manifestazione. Questa comparsata non va però declinata a banale vezzo, ma è in realtà il segno più evidente di un’evocazione nostalgica che è priva di capacità testimoniale e anche di analisi critica. Il presente e chi vi si adopera sono semplicemente dei turisti di un tempo che è una spiaggia lontana nei ricordi.  Come si farebbe su qualsiasi social network, Veltroni prende testimonianze, documenti d’archivio, estratti da lettere o discorsi, video di repertorio e li condivide, e  lo spettatore si sofferma e dà il proprio mi piace a ciò che preferisce, ringraziando l’amico Walter per averglielo indicato.

 

Adriano Sofri


Decisamente di taglio più intimo è il racconto autobiografico di Romano Luperini, L’uso della vita – 1968 (Transeuropa edizioni), in cui il famoso critico romanza la propria autobiografia da normalista durante gli anni della contestazione. Pagine dense e curiose, a tratti commoventi soprattutto nel rapporto tra il protagonista e la famiglia e più in generale attorno alla propria formazione. Tuttavia l’utilizzo di nomi immaginari (come per lo stesso protagonista) vicino a nomi reali e pubblici, fa nuovamente slittare il senso del racconto in una forma di esibizionismo passivo.

Come ha scritto brillantemente Tiziano Bonini qui, il passaggio dall’autoritratto al selfie è anche un modo per sondare se stessi, di cui ancora non si ha il pieno controllo, non semplicemente un banale esercizio narcisistico. E in tal senso il passaggio dall’autobiografia al selfie letterario non è da meno, l’anonimo protagonista che si trova a discutere faccia a faccia con Adriano Sofri o con Massimo D’Alema come con Franco Fortini (seppur delicatamente meno esposto dei primi due) rivela tutta l’ansia del tempo che è stato e del tempo che è e che inesorabile sfugge via come acqua tra le dita, senza che nulla abbia la forza di restare. Il selfie qui prende la forma di una memoria di pietra inscalfibile che quasi tende a schiacciare ogni riflessione presente, ogni forma di scoperta di un sé che di contro appare sempre più liquido e sciolto.

Probabilmente con Piccolo seduto davanti al televisore a vedere i funerali  di Berlinguer nella camera dei genitori c’era anche Walter Veltroni (segretario del più grande partito riformista d’Europa, come ebbe a dire rivelando tutta l’inadeguatezza edipica del caso), spettatore di un tempo mai realmente governato; così come nel duro scambio a tavola raccontato da Romano Luperini tra Adriano Sofri e Franco Fortini sul ruolo dell’intellettuale pare di vedere sovrapporsi all’espressione irosa e arrossata d’impotenza di Fortini quella dello stesso Luperini, seppur con la gradazione del disincanto

 



Selfie è un gioco, un modo per e di apparire, ma anche una presa di coscienza del proprio ruolo di spettatore: si fotografa se stessi e ci si guarda. Davanti a uno schermo tutti si è nudi e svelati, gli artifici scenici non servono a nulla perché si è già dall’altra parte, immersi nelle proprie rogne e quotidianità varie. Si guarda allora per convincersi, per darsi un ruolo, per ritagliarsi un profilo. In fondo si deroga a se stessi in nome di un po’ di luce in volto.

Il selfie è sempre alla fine l’autoritratto o la biografia di un altro, colui che avremmo voluto essere o almeno conoscere. Quello che rimane non è il volto più superficiale e stupido, ma quello nero e oscuro del desiderio. Un desiderio accecante, spesso anche figlio di una sincera passione che riduce a orpello anche se stessi, perché quello che si desidera vive solamente in un passato ideale di cui si vorrebbe davvero far parte. Ma non è possibile, e allora tutti attorno in posa: Quando c’era Berlinquer.

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