5 per mille

Il ritorno del Gorilla Quadrumàno

10 Giugno 2025

Cinquantuno anni fa uscì per Feltrinelli Il Gorilla Quadrumàno, a firma collettiva del Gruppo di Drammaturgia 2 dell’Università di Bologna guidato da Giuliano Scabia. All’inizio del 2025 quello stesso volume è stato riedito per Quodlibet Storie, con l’aggiunta di due preziosi saggi a firma dei curatori del volume Angela Borghesi e Massimo Marino, all’epoca studente del Gruppo. Come molte azioni a partecipazione di Scabia, condotte dal 1969 in avanti per un decennio, anche Il Gorilla è circondato da un’aura mitica, quella degli accadimenti da reinterrogare ciclicamente, con semi destinati a germogliare nei decenni successivi. Come è noto, nel 1974 Scabia aveva alle spalle già diverse scritture e collaborazioni che forzavano le consuetudini produttive e narrative del teatro dell’epoca e che gli erano costate censure e rifiuti. Dal 1969 in avanti era partita l’avventura del suo teatro vagante, una reinvenzione del teatro nelle animazioni e drammatizzazioni, negli incontri e scontri nelle periferie urbane, raccogliendo storie e istanze degli operai, degli abitanti degli appennini, giocando con ragazzi e bambini in Abruzzo, sognando e costruendo cavalli azzurri nel manicomio di Trieste. Dall’anno accademico 72/73, su invito di Luigi Squarzina, il poeta padovano aveva inoltre iniziato a insegnare al Dams di Bologna.

A rileggere oggi Il Gorilla Quadrumàno, diario di viaggio che testimonia alcuni mesi di lavoro nella prima parte del 1974, si è colti da due sensazioni all’apparenza opposte: una distanza quasi incolmabile da quel mondo raccontato, pensando alla vita delle persone e alle forme del teatro proposto; ma anche un forte desiderio di prossimità, affaticati come siamo dalle burocrazie e asfissiati dalla mancanza di risorse, condizioni che subisce chiunque si occupi di educazione e di teatro oggi. Vorrei dunque rileggere il volume da questa prospettiva, come una rinnovata possibilità, strumento di lavoro e interrogazione per tutti noi insegnanti di ogni ordine e grado, provenienti dal campo artistico o educativo.

Da tre anni insegno Discipline dello spettacolo al Corso di Laurea in Educazione Professionale dell’Università di Bologna, nella sede di Imola presso l’ex Lolli di Imola. Con studenti e studentesse, durante il corso leggiamo i diari del lavoro di Scabia a Trieste: apriamo per qualche ora le porte dell’aula facendo entrare Marco Cavallo, poi camminiamo sotto agli archi di quello che era un ex-manicomio, immaginando gli sguardi di chi era internato a inizio Novecento e inventando modi e forme per applicare quell’esempio nel presente. Anche questo neoedito Gorilla Quadrumàno è un vitale regesto di strumenti per chi educa con l’arte e con il teatro.

k

Struttura del libro e del progetto

Dopo il primo anno di insegnamento al Dams, dedicato alla forma del teatrogiornale, uno studente, Remo Melloni (che diventerà uno dei massimi esperti di teatro di figura e a sua volta docente Dams) entra in classe con una suggestione: il desiderio di sperimentare il “teatro di stalla”, avendo rinvenuto una storia su cui si potrebbe indagare. Questa a grandissime linee la trama: il re di Portogallo ordina ai suoi due servi la cattura dell’Uomo Selvatico, unico elemento mancante nel fastoso giardino. Iniziano diverse peripezie che coinvolgeranno il figlio del Re, infidi cavalieri traditori, una pulzella che s’innamora del giovane principe, i due servi Salam e Codghin e il Gorilla, che nell’evolvere della storia rivela la sua natura di personaggio positivo. La trama diviene traccia per una ricerca sulle radici popolari della fiaba, ma anche concretissima storia da narrare e animare negli incontri con la popolazione: nelle scuole al mattino, nelle case al pomeriggio, in spettacoli all’aperto di sera creando cartelloni e burattini, usando canzoni e musiche, proseguendo a discutere in assemblee aperte. Il libro, dopo l’introduzione metodologica di Scabia, presenta le diverse fasi del progetto: la ricerca sul teatro di stalla all’università (quella che oggi definiremmo, in progettese, la fase “desk”), la messa a punto delle azioni in una “residenza-test” a Morro Reatino, infine il ‘rapporto’ dai diversi luoghi e paesi prevalentemente nel Reggiano (da Ramiseto a Fornolo, da Marmoreto al Monte Ventasso, dalla Pietra di Bismantova a Ligonchio) e in seconda battuta nell’area di Marghera, dove il libro termina la sua cronaca. Nell’appendice sono depositati il testo teatrale utilizzato e alcune composizioni poetiche donate dagli abitanti-letterati. Nei saggi finali Marino ragguaglia sui progetti del gruppo negli anni successivi, con nuove incursioni e storie fino alla partecipazione al Festival di Nancy nel 1975, con il successivo scioglimento del gruppo, mentre Borghesi ripercorre la fortuna critica del volume, ricostruendo il rapporto con Gianni Celati e il dissidio sulle “radici della cultura popolare”, superficialmente scambiate per irrigidimento ideologico, ma in realtà ricerca sugli elementi che sostanziano il comunicare, a partire dalla lingua.

k

Il Gorilla e l’università
“Abbiamo cercato di fare teatro e fare scuola integralmente e organicamente”: a scriverlo è Scabia nell’introduzione. Immaginare un insegnamento che preveda momenti di viaggio e residenza così prolungati oggi appare quasi fantascientifico, eppure abbiamo presente la vitalità pedagogica della didattica incarnata, dove la trasmissione avviene per via esperienziale e non solo frontale. Nel Gorilla si studia, si cerca, si discute in classe ma anche e soprattutto negli incontri e nelle relazioni, senza perdere la densità dell’approfondimento disciplinare, come testimoniano le meticolose investigazioni letterario-etnologiche sulla presenza della figura dell’uomo selvatico nella cultura fiabesca, da Calvino ai Grimm (un metodo di indagine molto scabiano, che ritroveremo in diverse sue avventure, come quella legata al Diavolo e il suo Angelo di qualche anno dopo). Di fatto, come scrive Angela Borghesi, quella di Scabia è una pedagogia aurorale o una contropedagogia, in dialogo con le istanze del Movimento di Cooperazione Educativa che stava diffondendo le sue pratiche. Non è possibile non restare colpiti, anche oggi, da un metodo interdisciplinare che limita le pretese definitorie di ogni disciplina: non si tratta dunque di un mero procedere genealogico-storiografico utile per validare le diverse prospettive, né di uno stratificarsi erudito di rimandi, ma di un domandare aperto, un “open access” degli strumenti necessari per produrre determinati esiti, approccio che oggi metterebbe fortemente in discussione il dominio della competizione che permea tutti i livelli della ricerca.

k

Il Gorilla e la scrittura, anche scientifica: tenere traccia di un progetto

Il volume di Quodlibet è anche un modello di cronaca e testimonianza di un progetto. In una breve nota finale, il gruppo racconta che l’esito editoriale è stato frutto di un ritiro in collina con diverse discussioni e revisioni. La metodologia di analisi e testimonianza appare cristallinamente dispiegata: l’introduzione contiene i presupposti di ricerca e premette gli strumenti di cui ci si vuole dotare; i saggi di apertura presentano i ritrovamenti parziali dell’inchiesta sulle fonti scientifiche e letterarie. Le sezioni sul laboratorio e sugli incontri sono scandite attraverso: a) un racconto-cronaca degli avvenimenti, ripercorsi per fare in modo che chi legge riviva gli incontri nei paesi, nelle case, nei boschi o al tavolo delle osterie; b) le canzoni, le poesie, i racconti ‘donati’ dagli abitanti e trascritti; c) le discussioni post-spettacolo e le assemblee con la popolazione, anche queste trascritte e sintetizzate. Nelle Note sui modi del comunicare si tenta un compendio degli strumenti utilizzati. Angela Borghesi individua nel lavoro di don Milani un antecedente diretto di questa azione. Volendo allargare la focale, potremmo menzionare le testimonianze che percorrono alcuni capisaldi del racconto storico italiano visto dal punto di vista delle classi popolari, per esempio nei libri di Danilo Dolci, Nuto Revelli, Alessandro Portelli ecc.

k

Il Gorilla e il teatro

Nella premessa viene esplicitato che la ragione primaria del viaggio sta nella ricerca delle tracce di una cultura non subalterna, nei contorni della quale si voleva trovare qualcosa che assomigliasse a un’origine del teatro: una “comunicazione primaria”, un trovarsi insieme per raccontarsi storie. Nel dissidio dell’epoca fra teatro tradizionale o tradizionalistico, verso il quale tendevano gli Stabili, e le rotture di un’avanguardia a rischio di distacco con la popolazione, si scelse una terza via: la ricerca sulle lingue, sui dialetti e sulle storie puntava a rigenerare la comunicazione artistica recitando nelle piazze, nei paesi, nelle osterie. L’improvvisazione diviene dunque strumento di relazione ma anche “sonda” rivolta al proprio recitare, così da permettere uno scambio sincero per fare sì che bambini e adulti instaurino un dialogo con attori e personaggi, aggiungendo frammenti di storie allo spettacolo. Le assonanze fra i personaggi del Gorilla e i tratti fisiognomici degli abitanti, o la somiglianza di alcune vicende narrate con taluni accadimenti reali diventano le chiavi per ottenere l’interesse e la partecipazione degli spettatori. Mentre i due servi Codghin e Salam dialogano, dal pubblico si racconta di Mingùn da Bora, il raccoglitore di castagne di Marmoreto preso di mira dai furti dei bambini che ne danno una versione coi burattini.

l

Le già citate Note sui modi del comunicare fungono allora da vero e proprio strumentario: si può immaginare, anche oggi, un teatro in forma di incontro che si avvalga di strumenti come i “sopralluoghi”, le “persone tramite”, usando “manifesti, bandiere e strumentini”, usando la “musica come scambio”, alternando “recitazione/improvvisazione”. Sono una decina di pagine in mezzo al libro e valgono come un intero manuale di recitazione. Che si tratti di un’epoca molto distante dai nostri tempi burocratizzati emerge nel racconto della rimessa in prova del Gorilla prima dell’incursione veneta, con il gruppo radunato in una vecchia casa di via Begatto a Bologna, da dove decide di scendere in strada, ‘occupando’ la carreggiata per fare le prove e dirigendo il traffico, spontaneamente e senza permessi. È anche vero che questa azione, come altre che menziona Marino, può essere considerata un’invenzione destinata a lasciare tracce da riscoprire nel futuro, per esempio nei teatri partecipativi e documentari, quando gli spettacoli sono preceduti e sostituiti da incontri, indagini, scambi.

k

Il Gorilla e la mutazione antropologica
Il volume è però forse soprattutto uno straordinario documento di un’indagine sul campo dentro a quella cultura popolare che stava scomparendo, condotta negli stessi anni in cui Pasolini parlava di mutazione antropologica. Quella che si cerca di ricostruire è la tradizione del teatro di stalla o “filò” o “veglia”: trovarsi in tanti, spesso nelle stalle (sufficientemente grandi e riscaldate) per ascoltare storie composte dalla popolazione e intanto mangiare e bere. Come avvenivano questi raduni? Che cosa si raccontava? Perché questa tradizione sta scomparendo? Attraverso tali domande si ricostruisce l’usanza del cantar maggio, canzoni e musiche itineranti e convivi improvvisati per celebrare la fine dell’inverno, ma si ritrovano anche componimenti sui tragici eccidi nazisti e sulla resistenza partigiana raccolti nella Vera Storia di Amilcare Vegeti. Ma è nella trascrizione delle assemblee post-spettacoli che i documenti orali anticipano con lancinante lucidità il destino che abbiamo visto accadere alle zone interne e montane: chi lamenta che tutti i giovani se ne vanno, chi sostiene che la vita in città sia fuori scala rispetto ai ritmi della montagna, dove persiste “l’ombra della simbiosi uomo-natura dei nostri avi”, chi spiega lo spopolamento con la mancanza di occasioni dove incontrarsi, anche nei paesi. Nel dialogo con i maestri di Marghera la persuasione di Scabia e del gruppo, sulla necessità di dare voce a storie di lotta ed emancipazione anche nelle fabbriche, si confronta con il disincanto di chi vive e lavora in quei paesi tutto l’anno, sostenendo che per ipotizzare un cambiamento serva prima di tutto una presa di coscienza di chi ha subito un’acculturazione (con sorprendenti echi al pensiero di Freinet de La pedagogia degli oppressi, tradotto nel 1970). Qualcosa che i maestri ritenevano molto distante dalla tendenza dei genitori dei loro alunni a “comportarsi diversamente, come Carosello [...] verso la promozione sociale”.

k

Il Gorilla e noi
Tirando tutti questi fili, Il Gorilla Quadrumàno. Il teatro come ricerca delle nostre radici profonde è un formidabile invito a non perdere di vista quelle domande che sostanziano ogni relazione, da quella artistica a quella educativa fino alla semplice relazione interpersonale. Così come può esistere un teatro nella sua forma più elementare, quando almeno una persona osserva un’altra che agisce, leggendo il libro vien da pensare che esista la possibilità di una relazione se ci sono almeno due persone che si domandano reciprocamente: di che cosa hai bisogno? Tutto il viaggio del Gorilla in fondo è anche una rielaborazione di questa domanda, divenuta concreta nell’incontro con comunità e paesi montani: quali sono le vostre esigenze, qui in montagna? Quali sono gli spazi che vi mancano? Di che cosa hai bisogno? Una domanda che possiamo rielaborare e rimodulare in diversi contesti, misurandola nel presente. Di che cosa abbiamo bisogno? Forse di un uomo selvatico che torni ad affacciarsi dal margine dei boschi per darci la sveglia, per ricordarci che domandare, ascoltare, raccontare sono l’inizio della relazione e dell’educazione.

Tutte le immagini sono quelle originali, tratte dal volume.

Gruppo di Drammaturgia 2 dell’Università di Bologna, Il Gorilla Quadrumàno. Il teatro come ricerca delle nostre radici profonde (introduzione di Giuliano Scabia, a cura di Angela Borghesi e Massimo Marino), Quodlibet, pp. 376, euro 22.

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO