Jameson e il risentimento sociale

14 Dicembre 2023

Nel leggere il libro di Fredric Jameson, il cui titolo italiano è Risentimento sociale. Sulle alternative al capitalismo globale (Meltemi, Milano 2023, pp. 195), ma che in originale è An American Utopia (2016), e nel leggerlo dopo quello di Alain Badiou (Osservazioni sul disorientamento nel mondo, recensito su ‘Doppiozero’ il 7 novembre 2023), comprendo meglio perché Marx e Engels si sono sempre rifiutati di costruire immagini utopiche di una società comunista. Troviamo qualche cenno a una società di liberi produttori associati, a un diverso rapporto tra gli uomini e la natura nel loro ricambio organico, a un mutamento della relazione tra individui e cose, all’importanza della cooperazione dove gli individui sviluppano la facoltà della loro specie, al diverso rapporto che si stabilisce con il lavoro, ma non troviamo costruzioni utopiche.

Mostrano, sì, simpatia per Fourier, ma il loro problema è sempre stato quello di collegare visione comunista e la possibilità di un futuro alternativo al capitalismo alla situazione storica e al campo delle possibilità concrete storicamente date. È in questa chiave, a mio parere, che la teoria marxiana del feticismo delle merci diventa qualcosa di più e di diverso della giovanile critica dell’ideologia e della falsa coscienza per proporsi come un aspetto specifico del modo di produzione capitalistico basato sullo sfruttamento e su un sistema di simbolizzazione dove le relazioni tra gli uomini appaiono come relazioni fra cose. Inoltre, l’interesse di Marx negli ultimi anni della sua vita si sposta verso la questione antropologica, la comunità russa, le società irochese matriarcale ecc. Si tratta di campi storici di possibilità non da attuare, ovviamente, ma da comparare criticamente. In Badiou abbiamo visto la proposta di centrali nucleari piccole e sparse per risolvere la questione energetica a basso (?!) impatto ambientale, in Jameson troviamo una teoria utopica del doppio potere che ha come modelli possibili il servizio postale, la mafia, ma soprattutto l’esercito e la psicoanalisi (lacaniana) e come forme di riconoscimento l’invidia e il risentimento.

Le tre problematiche che affronta Jameson sono: globalizzazione, spazio, federalismo. Quest’ultimo è considerato la vera sciagura da combattere e da contrastare con un contropotere che egli individua negli ospedali della Veteran Administration: “Gli ospedali della Veteran Administration sono già stati descritti recentemente (dal senatore Sanders) come un sistema di medicina socializzata privo di qualsiasi connessione con le immense organizzazioni private mediche e ospedaliere dalle quali è circondato: le condizioni disgraziate e lo stato di deplorevole sottofinanziamento in cui versano sono un’ennesima prova, se mai ve ne fosse stato bisogno, di quale sia il destino delle enclave socialiste o semplicemente pubbliche all’interno dell’onnicomprensivo sistema tardo capitalista” (p. 45). Essi, nell’utopia americana, diventerebbero il sistema sanitario nazionale pubblico, ma, a differenza di ciò che si fece in Europa e in Canada (e che ora il neoliberismo sta cercando di smantellare), qui il servizio sanitario è organizzato e controllato dall’esercito, perché “il primo passo della mia proposta è quindi quello di, per così dire, ri-nazionalizzare l’esercito lungo le linee di qualsiasi altro elenco di candidati socialisti alla nazionalizzazione (alcuni dei quali sono stati menzionati in precedenza), reintroducendo la leva allo scopo di trasformare le attuali forze armate in quella forza popolare di massa capace di coesistere con successo con un ‘governo rappresentativo’ sempre meno rappresentativo e in un veicolo per una democrazia di massa piuttosto che di tipo rappresentativo” (p. 62).

Un esercito che è una specie di ‘servizio civile’ a cui partecipano obbligatoriamente donne e uomini (“chiunque” scrive Jameson) dai sedici ai cinquant’anni. “Una tale massa ingestibile di persone sarebbe quindi incapace di intraprendere guerre all’estero e tantomeno di organizzare con successo un colpo di Stato” (p. 62). E perché no? Per un eccesso di numero? Jameson metterebbe l’istruzione sotto l’egida militare “non soltanto per i bambini della popolazione coscritta ma anche per i diversi gradi di istruzione avanzata” (p. 64). Egli ha in mente i paesi ex-socialisti dove gli eserciti includevano la produzione dei vestiti, di film, automobili e sindacati. Inoltre l’esercito è la fonte di forza lavoro in caso di soccorso, manutenzione, disastri e calamità. Come si concilia questo con la democrazia? Negli eserciti prevale come è noto la gerarchia non solo fra gradi, ma anche fra anziani e reclute. La sua efficacia è basata appunto sulla gerarchizzazione della collettività.

Quando Marx evoca l’esercito, lo fa in ragione dell’aspetto efficace della forza collettiva e cooperativa che è però anche, nello stesso tempo, mezzo di sfruttamento. La cooperazione, in quest’ultimo senso, è cioè paragonata a un’entità che lega la forza collettiva a una dimensione dispoticamente gerarchica. Se dovessi immaginare una forma di cooperazione non gerarchica penserei, piuttosto che all’esercito, al complesso jazz, dove il comando avviene a turno e in cooperazione. Ma nel caso dell’esercito così com’è, come conciliare la gerarchia e l’eguaglianza? Ciò che l’esercito mette insieme sono la gerarchia, il conformismo e l’omologazione, non l’eguaglianza. Si tratta di un’idea di collettivo e di cooperazione di tipo dispotico così come si trova nelle fabbriche e nei sistemi capitalistici di produzione. Jameson propone come modello dell’esercito universale la Guardia Nazionale, utopica espressione del doppio potere, poiché si contrappone agli eserciti e alle forze di polizia professionali, ed anche perché è “il primo scorcio di una società senza classi, con tutte le ansie che una tale nuova situazione sociale ha storicamente (e inevitabilmente) suscitato” (p. 126). La proposta di Jameson è ispirata a quella di Trockij, ma naturalmente in chiave americana. 

L’utopia di Jameson implica l’estinzione dello Stato e la fine della politica. Si può obiettare che le due cose devono però stare strettamente insieme, perché la fine della politica con la presenza e permanenza della Stato porta alla dittatura. Come fare? La questione resta aperta in modo inquietante. L’altra proposta è la psicoanalisi di Lacan: “La fondamentale superiorità della dottrina lacaniana rispetto alla moltitudine di altre scuole psicoanalitiche, inclusa quella originaria di Freud, sta nel modo in cui essa coglie l’Altro come strutturalmente interno alla soggettività stessa: il problema di tale formulazione rimane ovviamente il termine ‘interno’, che ripristina immediatamente una distinzione tra il dentro e il fuori, tra il sé e ciò che è esterno a esso, una distinzione che non doveva tanto essere evitata o elusa quanto piuttosto prevenuta in partenza” (p. 150-151). Questo significa che il godimento non può essere soddisfatto e che dunque anche in una società comunista ci troveremo nella condizione dell’invidia e delle passioni tristi spinoziane. E qui interviene l’“Agenzia Psicoanalitica di Collocamento”, che “gestirà e organizzerà tutte le forme di occupazione nonché tutte le forme di terapia personali e collettive” (p. 165). Dunque un’unica istituzione capace di affrontare tutte le problematiche sociali e individuali. Qui c’è davvero da avere paura! Chi gestisce a sua volta questa istituzione? Gli psicoanalisti, nuovi difensori della Repubblica di Platone nel III millennio? 

In questo libro non ci sono donne, uomini, bambine, bambini, neri, bianchi, gialli, meticci, ebrei, cristiani, musulmani, buddisti, poveri, ricchi, sfruttati e sfruttatori, non c’è la storia. Troviamo gli U.S.A. in un sogno comunista ma in una prospettiva involontariamente e inconsciamente dispotica e coloniale. Gli U.S.A. come espressione dell’Occidente e centro del mondo, come punta più avanzata del pianeta su cui poter edificare il comunismo. Ma si può considerare l’utopia e la prospettiva comunista come in una chiave esclusivamente occidentalista? Le rivoluzioni sono avvenute storicamente in luoghi e in tempi inaspettati e, come ebbe a scrivere lo storico Arnaldo Momigliano, nella storia la misura dell’inatteso è infinita. Forse è per questo che gli ultimi studi di Marx riguardavano società e sistemi sociali non occidentali. Esplorava campi diversi di possibilità sociale senza per questo voler tornare indietro nella storia.

Jameson è un grande studioso e critico letterario marxista, ha scritto libri importanti e tuttavia questa sua proposta utopica comunista-militarista-lacaniana, al di là di tutto, proprio non riesce immaginare sé stessa se non all’interno dell’idea implicita e coloniale secondo cui l’Occidente (e nella fattispecie gli U.S.A.) sarebbe la chiave politica, culturale ed economica per uscire dal capitalismo e dal neoliberismo. Siamo sicuri che, in questo III millennio, le cose stiano storicamente così? E siamo sicuri che per esercitare l’immaginazione utopica dobbiamo ricorrere all’esercito e a Lacan? Nessuno vorrebbe il mondo noioso immaginato da Tommaso Moro, ma questo di Jameson chi mai potrebbe desiderarlo?

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