L'inconscio delle città

20 Aprile 2015

M. Una Metronovela (Einaudi, 2015) non è semplicemente uno tra i migliori libri di Stefano Bartezzaghi, ma inaugura con forza un nuovo tempo del suo lavoro di scrittura e di ricerca; quello di una maturità irregolare, storta, filosofica e letteraria insieme. Questo libro è innanzitutto una intensissima prova di letteratura, se per letteratura si intende, innanzitutto, la ricerca attiva di una lingua nuova, eccentrica, non prevista dal Codice ordinario del linguaggio, capace non solo e non tanto di raccontare la realtà, ma di redimerla.

 

La struggente e irresistibile Milano di Bartezzaghi, vista attraverso la lente privilegiata della metropolitana, delle sue fermate (Garibaldi, Moscova, Conciliazione, Porta Venezia, Loreto…) e delle sue linee (rossa, verde, gialla e lilla), non è quella da bere, quella degli stereotipi iperattivisti, dell’affarismo e dell’edonismo idiota, ma un luogo di fitte coincidenze e sovrapposizioni, stratificazioni e incroci, condensazioni e aperture, metonimie e  metafore che la rendono piuttosto simile ad un cruciverba dalla risoluzione impossibile. Questa Milano è la Milano che la memoria dello scrittore sa ricostruire autobiograficamente ogni volta come nuova.

 

Diversamente dalle passioni tormentate che animano l’uomo del sottosuolo descritto da Dostevskij, il protagonista non è dilaniato tra la voce severa della Legge morale e la spinta trasgressiva del desiderio. Il suo universo assomiglia di più a quello beckettiano di un girovagare senza bussola, né meta certa, perché la dissoluzione delle grandi narrazioni metafisiche del mondo ha reso il mondo stesso un labirinto impossibile da evadere. Milano è solo illusoriamente una città costruita a cerchi disposti ordinatamente uno nell’altro. La sua topografia è tortuosa e non linearmente geometrica: «i cerchi ci sono, ma sono sghembi, come una ruota di bicicletta su cui è piombato Dumbo in picchiata... Milano è piuttosto un guscio di lumaca... per la spirale della conchiglia: un solo centro e, attorno, un meandro».

 

Per Stefano Bartezzaghi - l’uomo della metropolitana -, diversamente dall’uomo del sottosuolo dostoevskjiano, il problema non è tanto quello della scissione dell’Io – che è qui come data già avvenuta, scontata, come fosse lo sfondo implicito di tutta la narrazione -, ma il suo viaggio nel labirinto. Cosa resta? Cosa resta dopo la fine delle grandi narrazioni (metafisiche) della polis e del mondo? Ecco l’afflato autenticamente beckettiano che attraversa tutto il libro. Se infatti Samuel Beckett, più di tutti, è riuscito ad elevare il resto, lo scarto, il residuo alla dignità della letteratura come resistenza assoluta nei confronti dell’atrocità imperdonabile del senso comune e dell’amministrazione ordinaria del mondo, Stefano Bartezzaghi sembra camminare in questo libro su quella stessa via anche se con passo più leggero e ancora capace di stupore, di ironia, di gioco. Pur aggirandosi tra spettri, ombre, memorie lontane e l’invadenza molesta dei sembianti contemporanei, il suo sguardo sa rinnovarsi ogni volta. Sono veri e propri frammenti di un discorso amoroso quelli che ci presenta. Dove però l’amore non ha un nome certo. I nomi propri che appaiono, innanzitutto quello dell’amica Maria, sono importanti, ma mai decisivi nel poter trattenere il movimento metonimico del desiderio che passa, è il caso di dire, da una fermata all’altra senza mai potersi arrestare.

 

Il teatro della città rivela allora le sue figure senza nome: gli “arrapati” e gli “accorati” («guardano niente, vogliono incontrare nessuno, sanno niente di quel che sta loro passando per la testa»), ma anche la dolcissima ed estraniante mendicante del ponte di ferro di Porta Genova che ogni giorno «spazzava il ponte e i gradini delle due rampe» tenendo in ordine il luogo dove lavorava e che in un ultimo addio bacia lo scrittore chiamandolo “amore”, oppure il signore «molto compunto» che viaggia nel vagone della metropolitana tenendo tra le mani un vaso che potrebbe essere un’urna ceneraria. E lo stesso Bartezzaghi, quando  racconta di come la familiarità della città può rapidamente capovolgersi nel suo contrario: «Era inverno, il corso era deserto, camminavo senza percepire. Il mondo non c’era più. Non so come abbia fatto a rincasare: ora che sono arrivato alla fermata della metropolitana era già chiusa, sarò andato a piedi, nella notte, non volevo aprire bocca neppure per dare ad un tassista la buona notte e il mio indirizzo».

 

Un’altra differenza balza agli occhi tra l’uomo della metropolitana e quello del sottosuolo. Per Bartezzaghi viaggiare sotto terra non è sprofondare nei meandri dell’inconscio – che come opportunamente ci ricorda Lacan, commentando Freud, non è per nulla un “subconscio” –, ma ritrovarsi, raccogliersi, dare finalmente alla città una sintesi, un ordine possibile. Il disordine, infatti, è tutto di sopra. È là fuori, là dove la città è in perenne movimento: “per perdersi davvero basta salire le rampe e tornare a livello del suolo, sulla terra e non più nella terra… È un flipper, una corsa ad ostacoli, un videogame, uno slalom”. Tutto si è, dunque, ribaltato: i sotterranei della metropolitana non sono il luogo del caos, ma quello di una vera e propria “teoria sulla città” che può dare una forma al caos. Di qui le vertigini ipermoderne (“vertigini dal basso”)  che non scaturiscono più dalla verticalità enfatica dell’altitudine, ma dalla paura che qualcosa possa improvvisamente crollare, cadere dall’alto, cedere, spezzarsi. È il soggetto  - l’"Homo Obliterans” - come "anti-Icaro”. Salire per liberarsi dalla “incombenza della materia” è stata, da sempre, una aspirazione umana. Sono il monte e la vetta ad essere sacri, ad avvicinare l’uomo a Dio. Lo sguardo, dall’alto, diventa panoramico e allarga l’orizzonte. La Legge della gravità ci sospinge invece verso il basso. Carlo Michelstaedter ne La persuasione e la rettorica (1910) ne aveva fatto la Legge generale della condizione umana: il peso, come la vita, pesa, tende a rotolare vero il basso senza potersi mai frenare del tutto. L’aspirazione dell’uomo della metropolitana non è più quella di volare, di abbandonare spiritualisticamente la terra, ma di acconsentire alla gravità, di scavare, perché è solo lo scavare – non elevarsi verso l’alto – che può rendere possibile una vera costruzione. «La mano che gratta il cielo – infatti - ritira presto il suo dito. Quella che gratta la crosta della Terra non può - invece - che spostare il terreno più in giù, costruisce un nuovo equilibrio statico un po’ più in basso».

 

La lingua nuova a cui Bartezzaghi approda in questo libro vive di questa attrazione verso il suolo, di questo addensamento di segni, di ricordi, di tracce. Ne è, anzi, la testimonianza più efficace e convincente. Una sorta di deposito attivo di memoria e invenzione. Lo stesso intreccio che ritroviamo in un episodio dell’infanzia dell’autore che segna un passaggio cruciale nel libro: tre cuscini per tre fratelli. Due di gommapiuma uno di piume d’oca. Ogni sera lo stesso rituale: la madre li consegna ai suoi figli tenendo conto della predilezione di Stefano per quello di piume. Una volta però il suo umore storto suggerirebbe al figlio, cui è toccato quello di gommapiuma, di accettarne la consegna senza fiatare. Invece il bambino non accetta di rinunciare al cuscino amato e avanza la sua protesta che la madre accoglierà, con sua sorpresa, accontentandolo dolcemente. Quel cuscino sarà da allora suo e sarà la sua città: sotto di lui verranno custoditi i primi dentini da latte e le prime ricompense felici, sotto di lui si depositeranno i desideri più inconfessabili. Non sempre si è in grado di sostenere la voce del proprio desiderio, di domandare il suo soddisfacimento. Subentra nella vita il timore della ferita e del rifiuto. Allora se non sarà più il cuscino a rappresentare l’oggetto del desiderio, potrà diventare almeno il luogo segreto dove nasconderli. Che venga da lì l’amore di Bartezzaghi per il rigore umanissimo della metropolitana?

 

Una versione abbreviata di questo articolo è uscita su Repubblica di mercoledì 15 aprile 2015.

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