Milano / Balconi e barconi

19 Maggio 2019

Milano diede i natali al fascismo. Milano ha anticipato tendenze, tra di loro anche antitetiche, che si sono poi consolidate nell’intero Paese. Non può quindi sorprendere che Matteo Salvini, insieme alla sua interlocutrice di sempre, Marine Le Pen, e ad altri astanti del «sovranismo» europeo, cerchi di riconquistare quella che considera la «sua» piazza. Piazza che gli viene contesa da altri pretendenti, a partire dalla sinistra che nel capoluogo lombardo – di antica tradizione socialista – è riuscita comunque, in questi anni, a mantenere un insediamento robusto, limitato solo dal fatto che molte delle intuizioni, delle speranze, dei progetti, dei laboratori incubati e poi in parte abortiti, abbiano dovuto confrontarsi sempre e comunque con la mancanza di una reale prospettiva nazionale. Cosa che non si è verificata per il fatto che la città è incuneata nella dorsale leghista per eccellenza, quella che si misura dal Ticino fino al Piave, ed oltre. Torino e Genova, anche se hanno conosciuto cambi di mano nella loro gestione amministrativa, non fanno testo per la Lega. Sono sempre state, e rimangono, agglomerati urbani e metropolitani atipici. Lo stesso, ma per un segno politico opposto, si può dire di quelle città nere, come Verona, che oggi raccolgono e sedimentano l’humus che ha accompagnato gli umori di una destra non solo illiberale ma tendenzialmente eversiva. La rassegna è di per sé incompleta ma serve per restituire un’idea della centralità di Milano nelle dinamiche politiche del Paese. Roma, per la Lega prima di Bossi adesso dei salviniani, non è mai stata d’altro canto una città attrattiva. Lontana dall’abituale baricentro geografico e dal maggiore seguito elettorale del partito “nazionalsecessionista”, fortemente legata com’è a una dimensione istituzionale, politica e amministrativa che l’ha sempre ancorata a un terziario dipendente dalle risorse pubbliche, Roma resta una determinazione topografica a tutt’oggi incongrua per il cuore pulsante della Lega, che ha invece cercato, in questi ultimi tre anni, alleati potenziali fuori dai confini dell’Italia, nell’Europa centro-settentrionale e in quella orientale. Di fatto, tuttavia, non raccogliendoli. Poiché è nella natura del cosiddetto «sovranismo», se ad esso si fa riferimento come approccio ideologico al presente, il non potere costruire assi di reciprocità.

 

 

La vera crisi dello Stato sovrano, infatti, è quella fiscale. Gli deriva dall’essere espropriato degli strumenti di tassazione su una produzione di ricchezza che si è fatta mondializzata. Oggi, l’autentico internazionalismo è quello delle merci e del capitale, non dei lavoratori (e ancora meno quello di buona parte delle cittadinanze). A questo livello della sfida saltano confini e muri, barriere e protezioni. Per porre un qualche rimedio a un quadro drammatico di tale fatta, al quale si riconnette anche il declino della quantità di lavoro socialmente necessaria per produrre la ricchezza, occorrerebbe un rilancio degli organismi internazionali di governo dei processi della circolazione. Per funzionare, dovrebbero poi dotarsi di un obiettivo che è in esatta antitesi al discorso liberista, tutt’oggi dominante, rilanciando la lotta alle diseguaglianze come prassi politica inderogabile per garantire la coesione sociale. Siamo molto lontani da ciò e Salvini, in cuor suo, non può non saperlo. Non per nobiltà d’animo ma per quella scaltrezza politica che, comunque lo si giudichi, gli appartiene. Così come non può non sapere che a rischio ci sono le istituzioni comunitarie che hanno comunque garantito, entro determinati limiti di compatibilità, la tenuta del quadro di riferimento geopolitico dopo la fine del bipolarismo tra Est ed Ovest.

 

Salvini sa tutto questo e sa benissimo anche che l’Italia da sola non potrà mai farcela. Poiché quest’ultima, dagli anni Settanta in poi, è andata avvitandosi in una crisi che la sta ora schiacciando, soprattutto su quattro piani interconnessi: quello demografico, con il declino dell’incidenza della componente giovanile nella società; quello fiscale, con l’ipertrofia del debito che, negli anni a venire, sarà tale da condizionare ogni scelta di fondo del Paese; quello della mobilità bloccata, vuoi sociale, vuoi professionale e culturale, raccogliendo il ricatto, in tutti e tre i casi, di un aggregato di interessi e gruppi corporati, indirizzati esclusivamente a garantirsi le posizioni acquisite e quindi drammaticamente indifferenti al bilancio collettivo; quello della ricchezza, essendo la nostra una società ancora relativamente florida, con un patrimonio mobiliare e immobiliare, pubblico e privato, invidiabile, quindi di interesse per quegli investitori stranieri che fossero intenzioni a beneficiare di una politica di rapina delle risorse nazionali.

 

A dare una cornice a quest’ordine di riflessioni, se si vuole infine trovare un tratto comune, è la gravissima emorragia di giovani intellettualizzati che da anni sta accompagnando le involuzioni del nostro quadro nazionale. Forse, alla fine di questo lungo periodo nel quale ci siamo calati, risulterà essere questo il vulnus più consistente. L’Italia non è un Paese per giovani poiché è una società che non riesce a pensare il suo futuro, semmai vivendolo solo come un orizzonte angosciante. Una nazione capovolta (prima gli anziani, poi i giovani) che ha recuperato il familismo come un tratto compensatorio e di corredo non del carattere nazionale bensì nei processi di disemancipazione che sono da tempo in atto. La crisi dello “stato del benessere” si alimenta e, al medesimo tempo, produce, questo esito.

 

In un tale quadro, per molti aspetti drammatico, si inerisce l’ascesa e il consolidamento di Matteo Salvini. Nella consapevolezza, peraltro non solo da parte sua, che il sommarsi e il vicendevole rafforzarsi di questo insieme di fattori strutturali di crisi sia destinato, forse anche in un lasso di tempo relativamente breve, a produrre lacerazioni definitive nel tessuto istituzionale e costituzionale ancora esistente. In tutta probabilità, su una tale prospettiva, che si fa per lui aspettativa premiante, spera di potere giocare le sue carte a venire. Anche se in questo caso rivela una sostanziale mancanza di lungimiranza politica, essendo in forte difetto di progettualità. Ovvero, dovendo scontare un quadro di aspettative molto diverso da quello dei paesi dell’Europa orientale, dove il modello delle «democrature» (dalla Polonia all’Ungheria, passando per la Russia) si inserisce invece non nella sottrazione di una libertà trascorsa ma nel tradimento della promessa di poterne finalmente garantire una con il tempo a venire. Non a caso, quindi, l’intero discorso di Salvini – simulando una sorta di costante risposta all’appello che gli giungerebbe da un pubblico al medesimo tempo accorato, dolente e sofferente, poiché inascoltato dagli altri (politici) – è la pedissequa riproposizione della falsa dialettica tra inside e outside. Tra “dentro” e fuori”, per essere un poco più spicci ma anche maggiormente chiari. Mentre l’inclusività delle moderne cittadinanze sociali traspone e affronta il problema dei dispositivi di evoluzione delle democrazie attraverso l’assorbimento dei flussi demografici e migratori (le fratture non sono solo quelle spaziali, da parte di chi “viene da fuori”, ma anche da chi proviene da un tempo altro, essendo però già “al di dentro”, per via dell’avvicendarsi intergenerazionale), nella consapevolezza che le società non possano mai essere uguali a se stesse, la retorica di Salvini definisce invece l’appartenenza sovrana come fatto di esclusione. È l’elemento di maggiore chiarezza seduttiva per i suoi elettori e per chi lo ascolta con un qualche interesse, cercando nelle sue parole elementi di verosimiglianza: esisto poiché ho un perimetro che esclude ciò che è “altro da me”. Ed è altro da me quanto o chi intendo, di volta in volta, come minaccia. Ribaltando il discorso: io sono ciò che credo di essere (o che mi è stato detto di credere di essere o diventare) solo in opposizione a ciò che mi è presentato come una minaccia alla mia stessa esistenza.

 

 

L’«Europa del buonsenso», come il medesimo Salvini l’ha presentata, si basa su questa unica architrave identitaria. Tutta l’intelaiatura della comunicazione del vicepremier si fonda sul paradigma che coniuga e miscela emergenzialismo, eccezionalismo, scontornamento, vittimismo e parossismo. L’emergenzialismo della minaccia incombente (i migranti), puntualmente evocata a fasi alterne come strumento di regolazione del sentire pubblico; l’eccezionalismo delle condizioni esistenti, dettate dalla congiura degli espropriatori (gli «eurocrati»), alla quale opporre la sana veracità del comune sentire; lo scontornamento agorafobico che la globalizzazione ingenera nella percezione di sé in quella parte del ceto medio che è in fase di declino culturale e sociale, prima ancora che economico (sono poi questi i cosiddetti «territori»); il vittimismo di quanti – e sono molti – non vogliono concepire se stessi come titolari di un diritto, bensì come esclusivi destinatari di un favore da parte di coloro che hanno più potere, ripetendo ossessivamente la geremiade autoconfortativa dell’espropriazione esercitata dalla voracità dei più poveri nei confronti dei meno poveri; il parossismo del «già detto», vorticosamente ripetuto e, come tale, destinato a convalidarsi da sé.

Lo si è sentito anche nella manifestazione “sovranista” di Milano, con una decina di partiti e movimenti dell’Europa di destra. Il discorso populista di Salvini, di contro a quello che un tempo poteva essere fatto dal fascismo, si presenta come anti-istituzionale. Ovvero, dichiara di volere istituire un rapporto diretto tra rappresentati e rappresentante, saltando a piè pari la mediazione delle istituzioni. Lo stesso Mussolini si era incaricato di esortare in tal senso la «teppa» (1904), poi la «plebe» (1912), a seguire il «proletariato» (1914), il «popolo» (1917) e infine la «razza», ma all’interno di una dimensione semantica dove all’istanza della veracità attribuita a queste essenzializzazioni (secondo gli insegnamenti abborracciati e para-etologici della cosiddetta “psicologia delle masse”) si accompagnava prima il mito di un evento catartico (la «rivoluzione») e poi l’inveramento dello spirito attraverso la dimensione dello statocentrismo. In fondo, delle diverse cose che il romagnolo aveva consumato, spesso velocemente, comunque sempre in superficie, il sindacalismo rivoluzionario, con il suo vitalismo vuoto e programmaticamente velleitario, era quanto di meglio gli fosse rimasto appiccicato. Salvini arriva quasi cent’anni dopo ed è ben altro. La sua prosa comiziante si inserisce in un panorama sociale, politico, economico e culturale completamente diverso. Se gli anni dell’ascesa e del consolidamento di Mussolini si accompagnavano alla necessità di neutralizzare il conflitto sociale oggi, invece, la priorità che ad essa si è sostituita è semmai quella di dargli un qualche sembiante di voce. Se il 1919 era segnato dall’accesso delle masse all’agone politico, con i clamorosi risultati elettorali raccolti da partiti come quello socialista e il popolare, il 2019 è contraddistinto dalla crescente superfluità del voto, se non all’interno di un dispositivo di ratifica che è meramente recitativo. Nessuna opposizione organizzata si sta manifestando nei confronti del populismo fluttuante, semmai si accomoda nel recepirne parte delle presunte istanze, simulate come espressione di “autenticità”. Non di meno, alle immediate spalle del primo dopoguerra c’era il difficile ma speranzoso assestamento verso equilibri più avanzati che, invece, nel volgere di poco tempo sarebbero stati distrutti. Oggi, semmai, c’è invece il lamento di chi chiede di essere non troppo retrocesso, domandando grazia.

 

In questo quadro Salvini detta il suo “marciare per non marcire”. Non invoca il “noi” (se non quando richiama – ripetutamente - la «Lega», come una sorta di organismo transustanziale) ma l’“io” criptonarcisista dell’elettore ferito, al quale si rivolge con il suo monologo autoreferenziato; non manifesta calcolata distanza ma rassicurante vicinanza; azzera il crisma di autorevolezza (che peraltro la sua storia professionale, prima ancora che politica, non gli può cero assicurare) e al suo posto mette quel senso comune di cui si fa paladino. Non indosserà mai l’orbace ma la polo sporca di Nutella, in quanto il suo universo semantico, al pari di tutti i registri che si fondano non sul presupposto di autorevolezza bensì di autoritarismo, ha una semplice logica binaria: lo “sporco”, che va sottratto alla sua sgradevole visione da parte di una collettività che chiede protezione e quindi “pulizia” (da ciò anche la ruspa, che copre quanto non si deve vedere); il “pulito”, che si identifica con ciò che va inteso come omogeneo, ovvero uniforme, lineare, prevedibile. L’uso della questione dei migranti in chiave ossessiva, quasi una cornice escatologica, ordalia della e sulla politica, rimanda a questo frame elementare e basico: la sporcizia dei “negri”, che contaminano il territorio e lo pregiudicano, mettendone in discussione le virtù e attentandone l’ordine invece da ricostituire. Come tutti i discorsi di destra, soprattutto di quella radicalizzata, si presenta al pari di un percorso di rimoralizzazione degli spazi di relazione sociale: la presenza aliena – che sia quella dei corpi o delle altrui merci – è l’indice di una perdita di aderenza delle condotte pubbliche alla «tradizione». Il disordine che ne deriva va ricomposto con l’imposizione autoritaria. La quale si presenta con le vesti, da sempre suadenti, della grande semplificazione, della banalizzazione estrema. È in atto una guerra tra la «natura», di cui la Lega si candida ad essere l’espressione politica, quella organizzata, e la perversione dei costumi, introdotta da ciò che al «territorio» (che è naturale per eccellenza, essendo il topos della «tradizione») è estraneo.

 

Il salvinismo, se non sarà travolto nel mentre da repentini cambi di scenario, in tutta probabilità sancirà su un piano politico ed istituzionale lo sgretolamento delle democrazie sociali e il loro trapasso verso assetti autoritari. Non ne sarà il vero agente ma senz’altro uno dei suoi beneficiari. D’altro canto, manifesta a tutt’oggi un forte collante al suo interno, ovvero quel desiderio di autopromozione che un ceto politico giovanilistico (ancorché spesso per nulla giovane) un po’ in tutta Europa sta esprimendo, avendo inteso la politica, ancora una volta, come l’unico strumento di mobilità sociale esistente in paesi altrimenti bloccati. Non a caso, per intenderli meglio, bisogna seguire la regola investigativa del «follow the money»: la lotta contro le aborrite élite finanziare si fa con i denari e la loro capitalizzazione internazionale. La centrale moscovita, evidentemente, a qualcosa deve pure servire. Non dobbiamo allora chiederci soltanto quanto costoro cambieranno della nostra esistenza ma, ad eventi un giorno terminati, quello che essi, ceto rampante, avranno mutato della loro. Il nostro cammino è peraltro già da tempo segnato: e la via del grande impoverimento culturale, civile e morale, di cui la vicenda della professoressa palermitana, sospesa dall’Ufficio scolastico provinciale per una slide proiettata dai suoi studenti, è solo la punta di un iceberg di imbarbarimento collettivo. Un episodio che ancora una volta ci racconta come nello Stato weberiano ci sia sempre qualcuno che è più realista del politico medesimo, ossia l’amministrazione pubblica che si adopera nell’esercizio cieco delle sue ottuse prerogative. Ecco in cosa consiste la vera sovranità autoritaria. Un film in parte già visto, proprio nel 1938.

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