La fusione del soggetto / Il sultanato del nulla. Ontani a Bali, fuoco e fiamme

19 Gennaio 2017

Per Goffredo Parise, che nel 1983 – in una delle mirabili scorciatoie e raccontini che l’anno dopo andranno a comporre Artisti – confessa nei suoi confronti un’attrazione venata d’invidia, quello di Luigi Ontani è il «sultanato del nulla». Sovrano indiscusso è l’artista, allora quarantenne (e ben lungi dall’essere canonizzato qual è oggi, dopo aver esposto in tutto il mondo), il cui regno è però immateriale, esercitandosi su «una forma d’arte o comunque un territorio geografico situato in una parte del mondo certamente esotica ma che nessuno ha mai visitato se non indirettamente attraverso i suoi manufatti».

 

 

Sin da allora, come si vede, l’espressione artistica di Ontani e il suo riferirsi all’altrove erano una cosa sola. Rappresenta qualcosa di perturbante, allora, il bellissimo Ontani a Bali (136 pp. a colori, € 29), che – come è ormai consuetudine nei magnifici libri di viaggio della Humboldt Books – vede incrociarsi, o riallinearsi, le parole della letteratura e le immagini della fotografia: stavolta le parole di Emanuele Trevi e le immagini della stessa Giovanna Silva, inventrice editoriale e tour manager, ma anche artista in prima persona. Il connubio era di quelli già scritti. Trevi, mi ha detto Ontani in un’intervista recente, è un «vero viaggiatore»: e in tanti suoi pezzi su queste pagine (nonché in diversi suoi libri, dall’Onda del porto al Viaggio iniziatico) s’è visto come proprio l’Oriente rappresenti la sua stella polare.

È perturbante, il libro, perché – come si vede anche dalle parole di Parise – da molto presto la consuetudine con Bali è forse l’aspetto più noto di un’esistenza ad alto tasso di mitobiografia come quella di Ontani ma, sino ad oggi, nessuno era mai davvero andato a vederlo lavorare in situ – come invece hanno fatto stavolta, nel corso di un viaggio fatto due anni e mezzo fa, Trevi e Silva.

Ogni anno, in marzo, sull’isola si svolge una processione notturna chiamata Ngrupuk, che prelude al giorno più sacro del (complicatissimo) calendario balinese: quello che viene chiamato Nyepi, il Giorno del Silenzio, in cui tutti se ne stanno chiusi in casa, non accendono la luce e restano appunto silenziosi, «mentre gli spiriti», spiega Trevi, «si aggirano nell’isola deserta, usurpata dai viventi il resto del tempo». Nella processione la cittadinanza riunita trasporta a spalle delle sorte di carri allegorici, gli Ogoh-ogoh, che rappresentano esseri della mitologia induista, per lo più demoni, «un po’ come si fa da noi con le statue e i trofei dei santi e delle candelore». (A me viene in mente la processione dei Ceri, che dal 1160 si tiene a Gubbio ogni maggio: con le macchine dei Santi Patroni portate di corsa su per l’erta della collina, in un clima orgiastico, e il resto della cittadinanza al seguito, travolgendo ogni osservatore al quale fosse venuto il ticchio d’assistere, alla cerimonia, con attitudine freddamente fenomenologica.) Alla fine del rito, accompagnati dai sistri e dai tamburi del gamelan, una volta che si è giunti in una località chiamata Curva dei Morti, la macchina viene data alle fiamme: nell’intento di purgare ogni impurità che possa albergare nella comunità. Non meno importante è la preparazione dei carri: che nelle settimane precedenti vede una volta di più impegnata la comunità dei balinesi nella loro costruzione e nel loro ornamento.

 

 

Più improntato alla dépense è il rito, maggiore l’attenzione col quale deve essere preparato. Il segno che l’artista straniero – che i balinesi venerano, dice Trevi, riconoscendogli «una sorta di indiscutibile sovranità», pure loro!, «il cui segno più evidente consiste nel distacco» – è stato accettato nella comunità, si è fuso con essa, è dato proprio dalla possibilità concessagli di realizzare anche lui un Ogoh-ogoh: che, al posto dei demoni locali, raffigura però alcune delle sue divinità personali – quelli che Ontani chiama ibridoli. Così è portata al massimo grado la relazionalità che gli è cara: come ha scritto Andrea Bellini (presentando la grande personale tenutasi nel 2012 al Castello di Rivoli), Ontani «non “commissiona” semplicemente la realizzazione dell’opera, piuttosto dialoga con le differenti maestranze artigiane», come i ceramisti Gatti di Faenza, così creando «un laboratorio diffuso, una grande bottega fiabesca senza latitudine, stravagante ed eccentrica».

Al contrario di Alighiero Boetti, che tematizzava proprio la distanza – anche in senso fisico, geografico – fra il proprio lavoro concettuale e la sua realizzazione, per esempio da parte delle tessitrici afgane, per Ontani fondamentale è dunque la coesistenza, l’incontro fusionale con le comunità e i luoghi di volta in volta da lui visitati. Si realizza così un vero e proprio sincretismo, una con-fusione – o appunto un’ibridazione – di differenti mitologie (figura araldica di Ontani è del resto l’ibrido per antonomasia, la Chimera). È un «vero prodigio» quello per cui – dice Trevi, a sua volta non senza un filo d’invidia – «le figure di Ontani sono riuscite a intrufolarsi in quello spazio narrativo vecchio di millenni, come se io, invece di scrivere un romanzo mio, riuscissi a infilare i miei personaggi nell’accampamento dei Greci sotto le mura di Troia o sulla nave del capitano Achab». Anche le immagini del libro, che documentano tanto la lavorazione dell’Ogoh-ogoh che il suo sacrificio finale, vogliono trasfondere nel proprio singolare linguaggio cromatico questa esperienza di fusione. Mi spiega infatti Giovanna Silva: «abbiamo virato le foto in tre colori, oro, magenta e ciano, che insieme danno il malva, il colore di Ontani. Quando c’è Ontani i tre colori sono insieme. Quando c’è solo Bali ci sono due colori (e l’effetto è simile anche all’effetto seppiato e dipinto a mano dei primi lavori di Ontani)». È anche la patina, questa, delle immagini dei libri degli antropologi (come – a Ontani assai caro – Balinese Character, di Margaret Mead e Gregory Bateson) che, a partire dagli anni Trenta, crearono il mito occidentale di Bali celebrato da autori come Artaud e Michaux.

 

 

Nella prima parte il testo di Trevi segue l’attenta preparazione dell’ibridolo (un gruppo assai stratificato con alla base l’elemento attinto, per così dire, dal substrato – una tigre ruggente dai talloni alati «come il Perseo del Cellini» –, e sopra tre demoni, uno dei quali bifronte, che a loro volta sorreggono la «magnifica preda» di una ninfa-sirena ermafrodita, munita di lunga e minacciosa coda scorpionesca, distesa a pancia in giù; infine, al culmine, un sapienziale gnomo barbuto, un «Dante-grillo» – probabile avatar dell’artista – col dito spianato in segno di pacato ma deciso ammonimento), al quale attendono gli espertissimi ragazzi del luogo, che appaiono e scompaiono come fantasmi. Una lavorazione tutta notturna: «a causa del caldo, per lavorare bisogna aspettare che cali il sole».

 

 

E davvero «questo viaggio da una notte all’altra» – la notte della partenza in aereo dalla fredda Europa, la notte febbrile in cui si viene ultimato l’Ogoh-ogoh, sino a quella incendiata dall’ekpyrosis finale – è una storia notturna: una dionisiaca visione del sabba di fronte alla cui «allucinazione o fantasmagoria» il pur simpatetico Trevi, certo non un razionalista militante, mostra a più riprese un’inquietudine reale. (Persino Giorgio Manganelli, che pure in India si esporrà senza filtri all’esperienza del numinoso, mostra di avere problemi con Bali; visita l’isola nel ’73 e ne scrive in una lettera a Ebe Flamini: «è una cosa singolarissima, che ti eccita e ti ripugna, […] un viaggio straordinario, ma un po’ troppo onnivoro». Sta di fatto che nel libro pubblicato l’anno seguente da Bompiani, Cina e altri Orienti, quel viaggio non trova spazio – neppure nell’iper-accessoriata edizione aumentata, procurata nel 2013 da Silvano Nigro per Adelphi.)

Già Parise del resto, conversando con Ontani, immaginava di Bali «il tormentoso caldo di fornace che avvolge il viaggiatore come davanti a un altoforno». Rileggendo queste parole, all’improvviso ho capito quali spettri mi stessero attraversando, mentre sfogliavo le pagine di Ontani a Bali. Il rito al quale ho assistito, sia pure per procura, ricorda infatti due episodi-chiave della mitologia dell’artista d’Occidente, due miti per eccellenza della sua «biografia prescritta» (per dirla con Kris e Kurz). Il primo lo racconta Benvenuto Cellini nel secondo libro della sua Vita, il cui highlight più memorabile è appunto la fusione, nel 1553, del Perseo bronzeo commissionatogli da Cosimo I de’ Medici (e chissà che la menzione dell’opera, da parte di Trevi, non si debba al medesimo cortocircuito).

 

Benvenuto Cellini, Perseo, Piazza della Signori, Firenze (particolare).

 

Il vitalismo e il titanismo del personaggio – che tanto lo faranno amare dai  Romantici – rifulgono qui al massimo grado: colle febbri che colpiscono l’artefice proprio a causa della temperatura altissima sprigionata dalla fornace, ma che non gli impediscono di trionfare, infine, sulla resistenza della materia (per infine celebrare le sue eroiche fatiche con un prosaico piatto d’insalata). Il secondo lo racconta Andrej Tarkovskij in Andrei Rublëv, il film dedicato nel 1966 al grande pittore di icone del Quattrocento che è in primo luogo un travolgente apologo sul senso – politico, religioso, esistenziale – della creazione artistica. Nell’ultimo, grandioso episodio viene mostrata in toni epici la fusione – alla quale prende parte tutta la cittadinanza di un villaggio – di una grande campana nelle viscere della terra, che poi vediamo lentamente ascendere verso il cielo.

 

Andrej Tarkovskij, Andrej Rublev, 1966. La fusione della campana

 

In tutti questi casi l’opera può essere realizzata solo ad altissima, quanto mai simbolica, temperatura. Ma c’è una differenza sostanziale: mentre il demiurgo occidentale, dall’alchemica immersione nel fuoco, vede plasmarsi la forma agognata (e non sarà un caso che l’episodio russo appaia in qualche modo intermedio fra Oriente e Occidente: perché non a un singolo titano si deve l’impresa, bensì all’intera popolazione), nel caso di Ontani la forma al fuoco si consegna, si dissolve, s’incenerisce: segnando la volatilizzazione del soggetto, la sua fusione definitiva appunto.

 

 

È quanto il rito prescrive, ma la resistenza che a questo processo oppone la nostra mentalità è simboleggiata – nell’ultima, bellissima pagina del testo – dalla lacrima perlacea che a sorpresa scorre sul volto di uno dei giovani collaboratori dell’artista (che da lui, evidentemente, ha mutuato un modo di pensare diverso da quello ereditato dai suoi padri). In quello specchio liquido si riflette, pure, il turbamento di chi legge.

 

Una versione piu breve di questo articolo è uscita il 30 ottobre 2016 su Alias.

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