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Una trappola ideologica / L'ossessione meritocratica

9 Ottobre 2019

La celebrazione della “meritocrazia” è radicata nel discorso pubblico. Non ne è certo estranea la scuola e, anzi, quello del “merito” è uno dei temi attorno cui hanno insistentemente profuso sforzi retorici tutti i ministri dell'istruzione succedutisi – e non sono pochi – negli ultimi vent'anni. D'altra parte, sembra chiedersi la vox populi, quale altra istituzione se non quella scolastica dovrebbe farsi carico della promozione del merito?

Contro questo senso comune si scaglia Mauro Boarelli, in un agile ma documentato saggio dall'eloquente titolo Contro l'ideologia del merito, uscito per Laterza nella scorsa primavera. Esplorando cosa si cela dietro una parola così seducente come “meritocrazia”, Boarelli ci spiega che quella del merito è una pericolosa “trappola ideologica”, in grado di minare i fondamenti stessi della nostra concezione di uguaglianza sociale tra gli individui.

La maschera meritocratica, lungi dal promuovere pari opportunità per tutti, nasconde quei processi che stanno gradualmente modificando, se non distruggendo, le grandi istituzioni collettive dello stato sociale europeo: oltre alla scuola e all'università, anche il sistema sanitario e l'intera pubblica amministrazione. Proviamo a vedere come ciò sia potuto accadere.

 

Meritocrazia: storia di un vocabolo

 

Il termine inglese meritocracy inizia a diffondersi con una connotazione negativa, nella seconda metà degli anni Cinquanta, tra i sociologi di area laburista. Uno tra questi, Michael Young, pubblica nel 1958 un romanzo distopico intitolato The Rise of Meritocracy (L'avvento della meritocrazia). Immaginando un futuro in cui i meccanismi di promozione sociale sono totalmente basati su principi meritocratici, Young descrive un mondo in cui l'aristocrazia di nascita è stata sostituita da un'aristocrazia dell'ingegno: ne deriva una stratificazione sociale rigida in cui la mobilità è pressoché assente e le opportunità di cambiamento scarseggiano. I “non meritevoli” sono così spinti a rivoltarsi per rovesciare un sistema che li tiene ai margini. La meritocrazia genera ingiustizie e le ingiustizie portano alla rivolta, pare dirci Young.

Passano pochi anni e la parola “meritocrazia” comincia ad assumere un'accezione positiva, quella di una società in cui vige l'uguaglianza delle opportunità, una società basata esclusivamente sui meriti individuali. Il significato iniziale del termine è rovesciato. La disinvoltura con cui procede a rivisitazioni semantiche è un tratto caratteristico dell'ideologia del merito: «Il suo vocabolario – ci spiega Boarelli – è in parte mutuato dall'economia, in parte colonizza la lingua comune distorcendo i significati originari delle parole.»

La celebrazione della meritocrazia come pratica positiva va associata all'affermazione e diffusione del pensiero economico neoliberale. È questo lo sfondo su cui, tra anni Sessanta e anni Settanta, iniziano a delinearsi tre pilastri concettuali che sorreggono, in ambito educativo, la struttura dell'edificio meritocratico: il “capitale umano”, la “didattica delle competenze” e la “valutazione standardizzata delle performance”. 

 

I tre pilastri: capitale umano, competenze, valutazione

 

L'idea che l'educazione abbia un fondamentale valore economico per il sistema delle imprese è l'assunto fondamentale della teoria del “capitale umano”: abilità, conoscenze, attitudini degli individui possono incrementare il profitto privato. È quindi necessario trovare standard oggettivi di misurazione dell'efficacia dei sistemi educativi e formativi per rendere più efficiente possibile la valorizzazione che avviene in essi del “capitale umano”.

Funzionale a questo scopo è l'introduzione della “didattica delle competenze”, il cui scopo è trasformare i sistemi di istruzione nazionali in strumenti al servizio della competitività economica. 

Di ambigua se non impossibile definizione – gli stessi suoi sostenitori non riescono a trovarne una chiara ed univoca – la competenza sarebbe un modo per inverare il “sapere astratto” attraverso un “saper fare” concreto. Di fatto è una visione utilitaristica del rapporto tra la conoscenza e la sua applicazione: gli apprendimenti sono validi se sono utili.

Sono pertanto meritevoli quei sistemi scolastici che sanno valorizzare il capitale umano a disposizione: quello degli studenti – già lavoratori in pectore – così come quello dei docenti che li formano. Questa esigenza spinge alla promozione di sistemi educativi in cui gli uomini e le donne di domani devono essere formati alla flessibilità, all'adattamento continuo, all'auto-imprenditorialità. La cornice ideologica entro cui si muovono i dispositivi meritocratici riconduce le competenze chiave, quelle indicate, ad esempio, dalle direttive-quadro europee, alla cultura d'impresa e al perseguimento del “successo nella vita”. Non ne sono esenti nemmeno le attitudini relazionali – le cosiddette competenze sociali – che sono ricondotte a un'utilità economica di fondo: «La capacità di relazionarsi in modo adeguato con gli altri – si leggeva già in un rapporto dell'Ocse del 1997 – non è solo un requisito necessario alla coesione sociale ma, in misura sempre maggiore, al successo economico». 

 

 

La teoria delle competenze scarica così sul singolo individuo, attraverso la retorica della riflessività e dell'autonomia d'azione, la responsabilità del proprio successo o fallimento. “Decidi, scegli e agisci in autonomia”, dice la teoria. Se fallisci nella vita, evidentemente, è perché non hai sviluppato a sufficienza le tue competenze: insomma, non hai meritato. 

Dovrebbe bastare questo a chiarire che è infondata la tesi secondo cui, affermando di voler declinare i saperi astratti in saperi concreti, le competenze svilupperebbero alcuni assunti della pedagogia attiva. L'educazione attiva ha l'obiettivo di comprendere criticamente la realtà per coglierne i limiti e modificarla, l'approccio per competenze assume invece la realtà esistente come un dato di fatto a cui è necessario adattare il proprio profilo attitudinale. 

Facendo leva sulle competenze, l'ideologia del merito suggerisce che è davvero meritevole solo chi accetta il mondo così com'è, modificando se stesso nell'impossibilità di modificare il contesto. L'individuo è costantemente messo in rilievo rispetto all'intreccio dei rapporti sociali in cui è inserito. Proprio per questo Boarelli sostiene che la rimozione del conflitto sia un corollario inevitabile dell'ideologia del merito: «Il conflitto sociale si nutre dell'azione collettiva, il merito dell'iniziativa individuale. Il primo persegue scopi comuni che investono la società nel suo complesso, il secondo concepisce il progresso sociale come ricaduta naturale di una somma di successi personali. L'uno prefigura un diverso ordine sociale, l'altro conferma quello esistente.» (p. 84)

 

Il terzo pilastro che sostiene l'ideologia del merito è la certificazione del possesso pieno o parziale delle competenze. Ciò avviene generalmente attraverso la somministrazione di test: la loro pretesa oggettività rinchiude nel recinto ristretto della performance le potenzialità che i processi di apprendimento potrebbero far scaturire. Si radica nel senso comune l'idea che vale davvero la pena apprendere soltanto ciò che è funzionale a ottenere buoni risultati nei test. L'utilitarismo respinge così gli stimoli euristici: conoscere le risposte assume più importanza che porsi delle domande.

Si delinea una realtà immodificabile, dove gli individui sono in perenne concorrenza tra loro. «I test scolastici sono un mezzo per misurare il grado di banalizzazione. Se lo studente ottiene il punteggio massimo, ciò è segno di una perfetta banalizzazione: lo studente è completamente prevedibile, e quindi può essere ammesso nella società. Non sarà fonte di sorprese, né di problemi.» Così ci metteva in guardia, più di trent'anni fa, il fisico e filosofo Heinz von Foerster (Sistemi che osservano, Astrolabio, Roma, 1987, p. 130). 

Il fatto che queste pratiche banalizzanti siano state ormai assunte organicamente da ogni grado del sistema d'istruzione italiano non può certo indurre all'ottimismo.

 

Decide il mercato

 

I pilastri dell'ideologia del merito sono sorretti dalla visione più spinta dell'homo oeconomicus, quella secondo cui qualunque aspetto dell'esistenza è riconducibile alla razionalità del mercato. Se il dato di partenza è la valorizzazione del capitale umano, allora funziona davvero solo ciò che permette la messa a profitto del capitale. 

Gli studenti meritevoli sono quelli che valorizzano al massimo il proprio capitale, gli insegnanti meritevoli sono quelli che sanno indurre gli studenti a farlo, le scuole meritevoli sono quelle che, attraverso meccanismi di premialità e riconoscimento, stimolano i docenti ad agire così. 

Basti un esempio: in Italia, ogni anno fondazioni private stilano classifiche in base alle quali scegliere la scuola migliore. I parametri di questa classifica sono, ovviamente, improntati alla logica della valorizzazione del capitale umano: quale percorso universitario scelgono gli studenti che hanno frequentato quella scuola, quale successo universitario conseguono, qual è il loro tasso di inserimento nel mercato del lavoro. I genitori hanno l'illusione di poter scegliere la scuola per i propri figli come se si trattasse di un investimento economico: qual è la scuola che valorizza meglio il capitale umano di mio figlio?

 

L'equazione che si delinea è semplice: più merito uguale più possibilità di profitto. Ciò spiega anche perché, oltre alla scuola e all'università, il furore ideologico meritocratico investa altri settori come la sanità, i servizi alla persona e l'intero apparato della pubblica amministrazione. Sono i comparti interessati, negli ultimi decenni, dalla campagna di delegittimazione di ciò che è pubblico a vantaggio del privato, ovviamente presentato come più efficiente perché, per natura, sottoposto alla selezione meritocratica.

L'ideologia del merito è così il grimaldello attraverso cui è possibile procedere allo smantellamento dello stato sociale nelle sue forme universalistiche novecentesche. Perché dare un servizio efficiente a tutti, se c'è qualcuno che ha fatto in modo di meritarselo di più? Perché finanziare in modo eguale gli ospedali o le scuole, se vi è chi è più virtuoso? Sono questi gli interrogativi che sorreggono il senso comune. La trasformazione aziendalistica della scuola, dell'università o della sanità ne è la più lineare conseguenza. 

 

Merito versus democrazia

 

La percezione diffusa è che il merito sia una forma di giustizia, perché in grado di incarnare al meglio il principio dell'uguaglianza delle opportunità. Qui sta la sua forza seduttiva: alimentare la favola secondo cui chi ha del talento e si impegna a farlo fruttare potrà ottenere tutto ciò che desidera.

Se però si tutelano solo le istanze individuali e non quelle collettive, attraverso la meritocrazia rischia di realizzarsi solo “l'uguaglianza delle opportunità di essere ineguali”. Senza coraggiosi interventi di redistribuzione, i numerosi ostacoli di carattere economico e sociale, che di fatto rendono fittizia l'uguaglianza delle opportunità, restano al loro posto. 

«Ma i fautori del merito – ci spiega Boarelli – non sono interessati a politiche redistributive: per loro tutto si gioca sul piano individuale, sulla competizione, sul mercato, la cui centralità è testimoniata dalla sua estensione ad ambiti della vita sociale che prima ne erano protetti.» (p. 113)

Così, nella realtà dei fatti, l'applicazione della meritocrazia produce nuove gerarchie, fondate sul suo stesso dispiegamento: i meritevoli surclassano i non meritevoli. Ma i criteri con cui si stabilisce il merito sono tutt'altro che naturali, come invece l'ideologia che li sostiene vorrebbe far credere: sono costruzioni artificiali che, per includere alcuni parametri, ne tengono fuori altri. Chiedersi quale legittimazione abbia un comitato tecnico, un'agenzia di valutazione o un'impresa privata nel decidere i parametri che determinano le sorti dei servizi di cui beneficiano tutti i cittadini è un problema che tocca i fondamenti della democrazia.

Esplorare le ambiguità dell'ideologia del merito ci invita dunque a interrogarci su quale sia il senso che vogliamo dare alla nostra idea di cittadinanza.

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