Elezioni USA / Presidenze fittizie, minacce reali

21 Gennaio 2021

Washington, D.C.. L’enorme, candida cupola del Campidoglio – la sede del Parlamento federale statunitense, il tempio laico della democrazia americana – viene violata. Un’esplosione la scuote. Le fiamme, altissime, squarciano la notte. Il Governo è stato decapitato da un oscuro attentato terroristico.

 

“Designated Survivor” (prima stagione, episodio I)


È l’inizio di Designated Survivor, serie tv che dal 2016 è andata in onda per tre stagioni. Il protagonista, interpretato da Kiefer Sutherland, è Tom Kirkman: membro di secondo piano del Cabinet presidenziale, “sopravvissuto designato” e quindi tenuto al sicuro durante l’annuale discorso sullo Stato dell’Unione. Proprio per garantire, in caso di catastrofe, la continuità del governo del Paese.

 

Finzione, realtà. Il tema è proprio questo: chi rincorre chi? Quale sta maggiormente influenzando l’altra? La messa in scena narrativa del potere politico ha subito negli ultimi anni una progressiva e formidabile degenerazione morale. Soprattutto la tv ha costruito e cristallizzato un immaginario feroce, sadico, davvero oscuro. Prendendo a esempio la Casa Bianca: la Camelot di The West Wing si è mutata nell'incubo di House of Cards. Ma il discorso non cambia neppure se dal drama passiamo alla satira. C’è stato un precipitare verso la rappresentazione della politica come trionfo, più che della forza, della violenza. Certo, si dirà: è la politica che degenera, e così fa la sua rappresentazione. Ma se – questa la mia domanda – le cose fossero più complicate di così? Se la messa in scena pervasiva del potere come di un elemento sempre più oscuro, persino malevolo, finisse per plasmare a sua volta la realtà? Se producesse effetti visibili, misurabili, reali? Come un assedio armato al Parlamento della più antica democrazia del mondo moderno, con la sua scia di morti e di vulnerabilità improvvisamente scoperte?

 

Prima di dismettere la domanda, ricordate: stiamo ragionando di immaginario. Un termine sempre più rilevante per leggere e interpretare la realtà e le dinamiche di un mondo fluido, o se preferite post-fattuale. 

 

Guardando le scene dell’insurrezione a Capitol Hill mi sono accorto a un certo punto di come una delle ragioni di smarrimento fosse semplice. Non avevo nulla a cui rapportare quanto vedevo – in America! – per renderlo meno disturbante. Non c’erano precedenti storici, negli USA, di un fatto così clamoroso, a escludere il lontano rogo appiccato al Campidoglio (e alla Casa Bianca) dalle truppe inglesi nel 1814. E soprattutto non c’erano esempi visivi. A meno, certo, di non sconfinare nell’immaginario cinematografico e televisivo degli ultimi decenni. Lì, invece, gli esempi abbondano, specie nell’universo pop “basso” che è divenuto un pressoché onnipotente generatore di segni e di significati a enorme diffusione: trame terroristiche, complotti, storie di spionaggio, d’azione, d’avventura sono, letteralmente, all’ordine del giorno. E sono divenuti parte integrante del racconto della politica e del potere, che ha conquistato spazi crescenti nel panorama mediatico: e che lo ha fatto divenendo sempre più cupo.

 

In questa rincorsa, cinema e tv non hanno agito nello stesso modo. Il cinema ha bene o male tenuto distinte alcune diverse modalità di rappresentazione del potere, secondo criteri di genere che, alla fine, equivalgono anche a modi per fare ordine nel mondo. La tv, con la capacità di rimasticazione e digestione rapidissima di cui è portatrice, ha reso i confini progressivamente sempre più labili. Confini tra i generi. Ma anche confini tra realtà e finzione, e tra plausibile e impensabile. 

 

Jack Nicholson in “Mars Attacks!” (1996).


Partiamo dal cinema: rapidissime pennellate per tratteggiare un’idea. Il Presidente degli Stati Uniti, l’“uomo più potente del mondo” è stato rappresentato in molti modi. Ci sono i biopic più o meno realistici: film come Lincoln, Nixon, e in misura minore le pellicole “kennediane” 13 Days (dedicato al confronto con l’URSS attorno a Cuba) e JFK, che invece dello sfortunato Presidente indaga l’assassinio. Ci sono le parodie e le satire, in cui il “leader del mondo libero” è un emerito imbecille: da quella del kubrickiano Dottor Stranamore (1964) al Mars Attacks! di Tim Burton (1996). Ci sono le dramedy che provano a illuminare in modo diverso la figura del Presidente, tra cui due emerse forse non casualmente nel primo mandato Clinton: Dave Presidente per un giorno (1993), con la tesi un po’ qualunquista ma anche romantica per cui un cittadino qualunque potrebbe, con buon senso e voglia di fare, cavarsela meglio del politico di professione nella soluzione dei problemi del Paese. E ancora Il Presidente (1995), diretto da Rob Reiner ma soprattutto scritto da Aaron Sorkin in linea con quella “Nuova Camelot” idealista che poi sarebbe sfociata alcuni anni dopo in The West Wing, con un intenso Michael Douglas a mostrarci il volto umano del Commander in Chief. 

 

Non di sole sfide realistiche, però, vivono i Presidenti del grande schermo: la catastrofe incombe sotto forma di un evento astronomico che minaccia di spazzare via la vita dalla Terra in Deep Impact (1998), con Morgan Freeman presidente nero, dieci anni prima di Obama. La minaccia viene dallo spazio anche nel superblockbuster Independence Day (1996), con l’arrivo di alieni che distruggono la Casa Bianca e cercano di sterminare l’umanità: ma qui la dinamica cambia, aprendo a un nuovo e attualissimo filone. Il Presidente non si limita a dirigere le danze: scende sulla pista da ballo lui stesso. Con le sembianze di Bill Pullman, sarà lui in persona a guidare l’eroica azione dell’ultima pattuglia di aerei che cerca di distruggere l’astronave-madre dei viscidi invasori. Vogliamo, in altre parole, che chi ci governa sia anche in grado, alla bisogna, di risolvere il problema lui stesso, con le sue mani. Del tutto analogamente a quello che dovrà fare Harrison Ford in Air Force One (1997), con la sola differenza di una minaccia più “realistica”: un complotto terroristico per sequestrare l’aereo presidenziale, che POTUS sventerà a cazzotti. 

 

Harrison Ford (a sinistra) in “Air Force One” (1997).


E il terrorismo la fa da padrone negli anni più recenti, in cui il cinema americano ha sfornato con grande successo pellicole nate sotto lo stesso segno e in contemporanea: la saga di Attacco al Potere inizia nel 2013, lo stesso anno di Sotto assedio White House Down (di nuovo il Roland Emmerich di Independence Day). La premessa è la stessa per entrambi i film: la Casa Bianca viene invasa, il Presidente sequestrato o messo in pericolo da spietati terroristi, che hanno alle spalle loschissimi complotti tutti interni a una politica statunitense avvelenata dagli special interest e fattasi ormai ineludibilmente paludosa. In ambo i casi, un poliziotto onesto dovrà aiutare il Presidente (che è onesto pure lui, ed è un fustacchione: Aaron Eckhart nel primo film, Jamie Foxx nel secondo), chiamato a sporcarsi le mani per rimettere in carreggiata il Paese. Ci stiamo avvicinando a pezzi dell’immaginario trumpiano di cui tutti abbiamo respirato i miasmi nelle scorse settimane: contro il Deep State e i suoi complotti, il vero patriota non delega alla democrazia rappresentativa. Deve prendere la materia nelle proprie mani, e combattere.

 

Se il cinema di consumo ha conosciuto negli ultimi 25 anni un progressivo processo di infantilizzazione della propria estetica (si veda l’inflazione dei supereroi in formato cartoonesco), la tv ha, in termini di prodotti pensati per il pubblico di massa, saputo viceversa complessificare il proprio discorso. Ribaltando il rapporto pre-anni ‘90 tra i due media. E in effetti il film che forse meglio fa da ponte tra l’immaginario cinematografico e quello televisivo nella rappresentazione della Casa Bianca è un altro, a cui magari non penseremmo subito: Potere assoluto (1997), uno dei gioielli di Clint Eastwood. L’attore-regista è un ladro (perbene) che assiste, durante un colpo, a un orribile delitto commesso nientemeno che dal Presidente (Gene Hackman): deciderà di non fargliela passare liscia. È qui che forse vediamo anticipata una tendenza che sarà il piccolo schermo a raccogliere: dietro la propria facciata, il potere politico è non solo corrotto ma violento, persino crudele, dark, fino a sfociare nella sociopatia. 

 

Gene Hackman in “Potere assoluto” (1997).


Partiamo dal contrario di questa visione: e cioè dall’idealismo di Aaron Sorkin, brillante sceneggiatore di Codice d’onore, The Social Network, Steve Jobs. La sua The West Wing (1999-2006) è il caposaldo della rappresentazione televisiva della politica americana, e in particolare della vita della Casa Bianca. Di fatto, ha costruito il canone della rappresentazione di tutto ciò che ruota attorno alla figura del Presidente degli Stati Uniti. Lo ha fatto adottando un punto di osservazione che abbraccia radicalmente l’idea della politica come missione. L’amministrazione Bartlett, condotta dall’integerrimo e carismatico presidente impersonato da Martin Sheen, è ovviamente Democratica. Progressista, onesta, piena di persone intelligentissime, capaci di analizzare e affrontare ogni problema nelle sue più minute sfumature politiche, sociali, culturali - ma anche in termini di giustezza morale. Insomma, è davvero il trionfo della politica come spazio dell’Idealismo. 

Non per caso, non è incentrata sull’uomo solo al comando, il Presidente e basta, ma sullo staff. Cosa importante in termini non solo narrativi ma anche filosofici: la decisione finale spetta al leader, certo, ma la maturazione della decisione è processo lungo, complesso, arricchito da input diversi e molteplici, da riflessioni e punti di vista mai banali. Una citazione, che appare nello show, ne sintetizza benissimo lo spirito entusiasticamente progressista: “Non dubitare mai che un piccolo gruppo di cittadini coscienziosi e dedicati possa cambiare il mondo”. 

 

Dopo The West Wing, però, è il diluvio. La rappresentazione muta completamente: la politica finisce per essere raccontata quasi solo come cinismo, lotta violenta, manipolazione, brama, egotismo, interesse personale, o manifestazione ridicola della propria vanità. 

 

"The West Wing” (1999-2006).


Una carrellata che non può che iniziare con House of Cards (2013-2018), remake a stelle e strisce firmato da David Fincher dell’omonima miniserie britannica del 1990. La primissima scena del primo episodio chiarisce che razza di uomo politico sia Frank Underwood, autorevole membro del Congresso le cui ambizioni sono seconde solo alla propria spietatezza (gli dà il volto un luciferino Kevin Spacey). Si sente un’auto inchiodare. Il nostro protagonista entra in scena, trova il cane dei vicini, investito, che rantola. Rivolgendosi allo spettatore, spiega: “Ci sono due tipi di dolore. Il dolore che rende più forti. E il dolore che produce solo sofferenza, un dolore inutile. Io non ho pazienza per le cose inutili”. Per poi procedere a strangolare la bestia. Novello Riccardo III, Underwood darà la scalata al potere, fino alla conquista della Presidenza degli Stati Uniti. Con un percorso costellato di cadaveri. Sporcandosi egli stesso le mani di sangue, piuttosto letteralmente. Aiutato da una Lady Macbeth (Robin Wright) di rara e algida inumanità. 

 

Una rappresentazione violenta e feroce della lotta per il potere la troviamo anche in Scandal, enorme successo firmato Shonda Rhimes andato in onda dal 2012. La protagonista, Olivia Pope, è una potentissima fixer, una di quelle figure – a metà tra maestri della comunicazione, delle PR e dei magheggi – che risolvono situazioni politicamente imbarazzanti o devastanti. Levando le castagne dal fuoco al potente di turno finito nei pasticci. Nel suo lavoro, a stretto contatto e in relazione simbiotica con il Presidente americano, non esita a usare ricatto, estorsione, minacce per ottenere ciò che vuole: così è il mondo della politica che questo show racconta.

 

Le cose vanno solo apparentemente meglio con il Presidente buono della già citata Designated Survivor. Un po’ perché il complotto che ha decapitato il governo USA e catapultato il mite Kirkman alla Casa Bianca deriva tutto dalle trame intricate di una politica americana paludosa e miasmatica, e le sfide che giungeranno al povero protagonista nel corso delle tre stagioni saranno sempre dovute alla nequizia e al cinismo del Sistema. Un po’ perché dato l’interprete, Kiefer Sutherland, è inevitabile che in alcuni momenti il personaggio dell’occhialuto Presidente-per-caso finisca per essere quasi posseduto dallo spettro dell’agente dell’antiterrorismo Jack Bauer, cui la star aveva dato volto nelle nove stagioni della popolarissima 24 (2001-2010). E Jack Bauer si caratterizzava per i modi spicci e il ricorso alla tortura in nome della più brutale applicazione del principio per cui “il fine giustifica i mezzi”: principio del tutto legittimo in un mondo dominato da minacce che arrivano non meno dall’interno del Paese che dall’esterno. 

 

Claire Danes in “Homeland” (2011-20).


Uno sfondo sostanzialmente paranoico, che ha avuto la sua consacrazione nelle otto stagioni di Homeland (2011-2020), show di ambientazione spionistica e sempre immerso nelle angosce di una minaccia terroristica permanente in cui non c’è soluzione di continuità tra gli “enemies foreign and domestic”, i nemici interni o esterni, come recita la formula del Giuramento che lega militari e pubblici ufficiali al rispetto e alla difesa della Costituzione. Ma potremmo citare, sempre sul fronte cospirazionista, serie di minor successo ma di ancora più chiara matrice ideologica, fin dal titolo, come l’israeliana False Flag (2015) e la britannica Deep State (2018).

 

E la satira? Il pensiero corre subito a Veep, andata in onda dal 2012 al 2019. Julia Louis-Dreyfus veste i panni di Selina Meyer, vicepresidente degli Stati Uniti gaffeur e inetta. E abile a fare solo una cosa: sopravvivere in un ambiente mutevole e costantemente minaccioso, quello politico, fino a ritrovarsi, incredibilmente, Presidente della prima superpotenza mondiale. 

In Veep si umanizza la figura del politico, è vero, e questa è una delle ragioni del suo straordinario successo. Ma la si umanizza al ribasso: il politico non è migliore e non è neppure diverso; è esattamente come noi. E anzi: di tutti noi, ha i peggiori tratti. Miseria, meschinità, avidità, gelosia. 

 

Credo legittimo definire almeno in parte politica anche la serie distopica per eccellenza del nostro tempo: The Handmaid’s Tale (2017 -), il racconto dell’ancella, basata sull’omonimo romanzo di Margaret Atwood del 1985. Sulle ceneri dei collassati Stati Uniti è sorto il regime teocratico di Gilead (una scena memorabile mostra il Washington Monument “completato” con un secondo braccio, a trasformare l’obelisco in una gigantesca croce che domina il National Mall). Il crollo delle nascite ha prodotto una crisi esistenziale. In un mondo inaridito, le donne capaci di avere figli vengono trasformate in ancelle e schiavizzate. L’intera società viene ricostruita attorno a loro, ma non per servirle, bensì per sfruttarle, come animali da riproduzione. Preziose, certo, ma solo finché sono utili alla società. The Handmaid’s Tale ci pone un interrogativo profondamente inquietante: cosa succede se la politica produce la distopia, cioè l’anti-utopia? Cosa succede quando la politica, in nome di un supposto bene comune, annichilisce l’individuo e lo riduce a mera funzione sociale? 

“Volevamo costruire – dice uno dei protagonisti della serie, tra i leader di Gilead – un mondo migliore. Ma migliore non vuol dire migliore per tutti”.

 

“The Handmaid’s Tale” (2017-).


Facciamo sintesi. La politica viene mostrata ormai quasi sempre come predatoria, inscindibile dagli scandali, famelica, bulimica, nichilista, ossessionata dall’esercizio del potere. I leader politici o sono bugiardi, rapaci, cinici; o sono inetti, incompetenti, impotenti; o portatori di una volontà di controllo oppressiva e totalitaria. Nelle rare occasioni in cui sono “buoni” devono combattere contro un sottomondo politico intriso di marciume e corruzione, di cui dovranno in prima persona fare piazza pulita: con l’ausilio solo di pochissime coraggiose figure oneste, che sono sempre e comunque “cittadini medi” chiamati a prendere le armi contro la tirannide e la grande Menzogna. Il complottismo e la fascinazione per dietrologie sempre più complesse e pervasive non sono più sintomi potenzialmente patologici ma, all’opposto, l’unico modo rimasto per poter discernere la verità nelle tenebre imposte dai grandi burattinai. 

Attenzione: quel che ho appena scritto non rappresenta il credo estremo di qualche gruppo o setta fringe di una certa sottocultura americana sotto steroidi. È un distillato molto neutro del modo in cui la cultura pop del nostro tempo rappresenta la politica. Nel cinema di consumo. Nella tv di massa. Questo è il messaggio a cui centinaia di milioni di persone sono, da anni e anni, costantemente esposte. 

 

Questo è il terreno su cui è germinata la follia degli ultimi anni. Questo è il terreno da cui è emersa la pianta velenosa dell’insurrezione del 6 gennaio 2021 a Capitol Hill. Non siete convinti? Ricordiamoci che Trump ha iniziato la sua conquista del Partito Repubblicano alimentando e cavalcando la teoria cospirazionista su un Obama Presidente illegittimo perché nato fuori dagli Stati Uniti. Era una bufala, ma è diventata credo per decine di milioni di persone. Ricordiamoci che QAnon, l’ancora più folle teoria del complotto secondo cui il mondo e in particolare gli USA sarebbero dominati da una rete di pedofili Democratici e liberal, totalmente infiltrati nel Deep State, al cui vertice ci sono Soros, i Clinton, Biden, e contro cui combatte solitario Donald Trump, è oggi politicamente rilevante. Il primo post di “Q”, il sedicente funzionario governativo di alto rango che è anche il profeta della setta, è di ottobre 2017. In soli tre anni milioni di persone si sono convinte che la cosa abbia un senso; il movimento si è sposato alla campagna di Trump; aderenti al demenziale culto sono stati recentemente eletti alla Camera. 

 

 

E ancora: ricordiamoci che decine di milioni di americani sono oggi convinte che le elezioni presidenziali del 2020 siano state la più grande truffa della storia statunitense; che Biden sia un Presidente illegittimo; che Trump sia stato defraudato di una vittoria “a valanga”, e loro con lui. Il tutto ad opera dei politici corrotti e delle loro macchinazioni; malvagia rete in cui – per non aver accolto le surreali pretese trumpiane di ribaltare nel Congresso il verdetto delle urne – è entrato di recente anche il vicepresidente Mike Pence, fin qui considerato un fedelissimo. E ora diventato un nemico, tanto che durante l’insurrezione del 6 gennaio si sono sentiti gli agghiaccianti canti “Hang Mike Pence”, impicchiamo Pence. 

 

Distinguere il vero dal falso è più difficile nel mondo magmatico, disintermediato, tribalizzato, diffidente, rancoroso, paranoico di oggi. E la democrazia non è come la fisica newtoniana. Assomiglia più alla religione: funziona solo se ci crediamo. E parecchie persone, oggi, hanno iniziato a credere in un’altra cosa. Non perché un telefilm lo abbia detto loro: ma perché tutti coloro nei quali avevano fiducia - l’antisistema Trump, un predicatore online, l’amico del bar - hanno loro raccontato che la realtà era proprio come si aspettavano che fosse. Era chiara, solida, certa: facile da inquadrare e assimilare, proprio come uno show televisivo. 

Per fortuna che i rivoltosi trumpiani, una volta conquistato il Parlamento, e dopo essersi inebriati del gesto, se ne sono andati a casa. Non sapevano che altro fare - perché non era mai stato raccontato

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locatelli