Michela Marzano. Cosa fare delle nostre ferite?

31 Agosto 2012

In Cosa fare delle nostre ferite? (Erickson, Milano, 2012 pp. 80, € 8) Michela Marzano prosegue nel suo originale percorso di ricerca, in particolare in quella svolta iniziata con il récit autobiografico Volevo essere una farfalla (Mondadori, 2011), di cui è da poco uscita la traduzione francese Légère comme un papillon (Grasset, 2012). Simultaneamente speculativo ed esistenziale, il movimento caratteristico di tale svolta è rappresentato da una complicazione nello sguardo della filosofa sul proprio corpo, sguardo che, a partire dall’esperienza della propria anoressia, punta dritto nel gorgo delle lacerazioni interiori.

 

La sofferenza è un’esperienza irriducibilmente singolare: un altro non può soffrire al mio posto. Ma qui le ferite diventano le nostre ferite: il passaggio dall’io al noi definisce lo spazio logico di questo libro. Si pone il concetto di vulnerabilità al centro della soggettività individuale e, al contempo, si postula la sua centralità anche nelle soggettività che mi circondano. Con questa mossa si prefigura se non un’etica sistematica, almeno l’articolazione di un primo movimento morale, da anteporre a ogni concezione meramente teoretica dell’intersoggettività: le ferite sono mie, ma anche e sempre nostre. Occorre quindi pensare a che cosa farne.

Marzano mostra che i concetti di vulnerabilità, di fiducia e di accettazione dell’altro formano un denso reticolo di relazioni esistenziali, e che esiste una forma di reversibilità fra questi concetti. Nel suo complesso, la trama relazionale fra vulnerabilità, fiducia e accettazione dell’alterità, prospetta un campo di sconfinamento fra l’autos e l’eteros della soggettività. In effetti, quanto appare prima facie come interiore, si rivela sempre co-determinato da una pressione esterna: se, da un lato, l’anoressia è un grido silenzioso, dall’altro lato “in quanto ‘patologia del controllo’ è anche un ‘sintomo sociale’” (pp. 46-47). In questo senso, i modelli sociali dominanti riducibili alla figura della padronanza di sé, preformano la mia soggettività, la quale, tuttavia, deve ri-formarsi nel contro-movimento di accettazione dei propri fallimenti e delle proprie fragilità. In altri termini, occorre sapersi e viversi entro un incessante decostruzione e ricostruzione della propria soggettività (processo, questo, non certo privo di resistenze, e che, anzi, esige impegno soggettivo).

 

Ad esempio: la vulnerabilità è quanto di più caratteristico vi sia in me; tuttavia, essa è anche negli altri. Pertanto solo accettando le mie imperfezioni, potrò realmente accettare quelle altrui; e solo sposando sino in fondo tale logica chiasmatica, sarà possibile l’etica. Di ritorno, dare fiducia a un’altra persona, significa rendersi vulnerabile: esporsi. Esiste, cioè, un nesso profondamente umano fra fiducia, vulnerabilità e tradimento. “La fiducia è una scommessa umana” (p. 71): affinché vi sia fiducia, occorre che l’altro possa tradirmi. In generale, la relazione etica non può che debordare ogni calcolo etico, cioè ogni etica del calcolo. L’intero impianto discorsivo di Marzano si regge, difatti, su di una “logica asimmetrica” (p. 73), isomorfa a quella del dono (ivi), che si alimenta forse di tutti quei movimenti che tentano di innervare la filosofia all’esistenza, incorporando le contraddizioni nel soggetto. E le contraddizioni sono il collante paradossale della vita, come le cicatrici sono le linee di sutura che tengono assieme il corpo spezzato (p. 11).

 

Ognuno di noi dovrebbe accettare, in definitiva, una quota di rischio e di parziale esautorazione del proprio autos. Ciò permette di comprendere il senso e il valore dell’idea di accettazione dell’altro, dove l’altro sta a indicare l’evento imprevedibile, il fuori-programma inatteso e non calcolabile: il mio limite. Non va, però, dimenticato che l’alterità non è soltanto esterna: l’alterità dimora anche nei fondali silenziosi del sé. “Dal momento in cui si concede fiducia, si può accordarne agli altri: la relazione con gli altri, in effetti, non è che lo specchio del rapporto che intratteniamo con noi stessi” (pp. 63-64, corsivo mio). Il filosofare stesso si configura come un rifletter-si, un po’ come in uno specchio, in una relazione verso se stessi, che è eterogenea ma non del tutto esterna. Così come lo è l’organizzazione retorica di questi discorsi, necessariamente ossimorica, dettata dal ritmo dello scambio reversibile e delle negoziazioni fra sé e alterità, fra interno ed esterno, e dalle resistenze in questo stesso scambio: “la fiducia […] è sempre un insieme complesso di fiducia in sé, fiducia negli altri, accettazione dell’alterità in sé e accettazione dell’alterità altrui” (p. 56, corsivo mio). Lo specchio, appunto. Non è un dispositivo come un altro. Verrebbe da chiedersi: cosa, o chi, si nasconde nello spessore privo di spessore dello specchio, cioè nella fessura di nulla fra interno ed esterno, fra autonomia ed eteronomia?

 

Non ci si libera mai davvero delle proprie ferite. Marzano ha il merito di non inseguire false liberazioni: non cade nella retorica dell’intersoggettività emancipante e nel philosophically correct dell’altro. Le ferite di cui parla fungono, certamente, da ponte verso l’altro, ma resistono alla loro completa esportazione nella dimensione sociale. Dietro la superficie della sua scrittura bianca, Marzano palesa una forma specifica di coraggio, una non rinuncia alla sincerità vitale del singolare, all’espor-si tramite la propria vulnerabilità: “per poter veramente accettare l’altro, l’alterità che è all’esterno di sé, si deve cominciare con l’essere prima di tutto capaci di accettare l’alterità che è all’interno di noi” (p. 36), dai traumi dell’infanzia passando per la costruzione di un “falso sé” (p. 51). Sino ai tradimenti più dolorosi: quelli verso se stessi.

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