Speciale

Leopardi e la compassione. Intervista con Antonio Prete

6 Novembre 2014

Ho appuntamento con Antonio Prete alle 16.30, in città studi.

Mi muovo con largo anticipo, con quel misto di desiderio e ansia che mi impegna, mi distrae, mi porta sempre a nuove questioni, e so che per la quantità di dubbi che mi sono appuntata non basterebbero giorni di conversazione.

 

Antonio Prete ha insegnato a Parigi e a Yale, al Collège de France e ad Harvard, e ancora a Montpellier, Salamanca e soprattutto, per molti anni, a Siena. Sono innumerevoli i suoi contributi a riviste letterarie e filosofiche: «aut aut», «Il piccolo Hans», «Il semplice», «l'immaginazione»; nel 1989 ha anche fondato e diretto una bellissima rivista semestrale di letteratura e poesia, «Il gallo silvestre», durata fino al 2004.

 

Il pensiero poetante. Saggio su Leopardi (Feltrinelli, Milano 1980) è il primo suo libro che ho incontrato, una riflessione attorno allo Zibaldone: la Natura, il desiderio, il rapporto tra filosofia e letteratura. Un libro importante, che ha cambiato il modo di leggere il poeta di Recanati, cui ha poi dedicato altri volumi, come Finitudine e Infinito. Su Leopardi (Feltrinelli, 1998), o Il deserto e il fiore. Leggendo Leopardi (Donzelli, 2004). Studioso, poi, di Charles Baudelaire e Edmond Jabès, di cui è anche traduttore (bellissimo, sulla traduzione, il suo All’ombra dell’altra lingua. Per una poetica della traduzione, Bollati Boringhieri, Torino 2011).

Dopo aver curato un’antologia sulla nostalgia (Nostalgia. Storia di un sentimento, Raffaello Cortina, 1992), ha pubblicato, per Bollati Boringhieri, il Trattato della lontananza (2008) e Compassione. Storia di un sentimento (2013).

 

È questo libro l’occasione – o la scusa – per cui sono venuta a incontrarlo, un libro ricchissimo, che attraversa le figure della compassione nella letteratura, nella filosofia e nella storia dell’arte, intrecciando autori, riflessioni, voci, immagini; Dante, il tema della pietà e quello della misericordia, Leopardi, Antigone, Baudelaire, le imago pietatis, le metamorfosi, Schopenhauer, Dostoevskij, Nietzsche, Kafka, Kant, Shakespeare.

 

Quando lo incontro, è dalle vie e delle case di Milano che iniziamo a parlare. Ascolto della sua Milano negli anni Settanta, dei suoi interlocutori e amici di allora, di Gianni Celati, che ha rivisto pochi giorni prima, attraversando a piedi alcuni dei luoghi di Verso la foce, dell’insegnamento nei Licei e poi all’Università, delle riviste. Ascolto, attraversata dalla nostalgia per luoghi di scambio, per momenti di condivisione e di confronto, ora che le università lo sono troppo poco. Forse, come allora, è alle riviste che bisogna affidare questa ostinata resistenza. Interrogarsi, ascoltare, mettere insieme i saperi.

È Leopardi il punto di avvio per le mie domande, perché è dalle dense pagine dedicate al poeta che sono nate molte delle questioni che mi sembra più urgente affrontare, e perché è di Leopardi che ho voglia di sentirlo parlare.

 

Chiharu Shiota. A long day, veduta di insieme. Foto Guido Mencari

 

Lei a un certo punto nelle pagine del suo volume sulla compassione dedicate a Leopardi scrive: “il debole è estraneo alla compassione”: solo chi è forte può compatire, conserva un legame con la felicità possibile. Bisogna aver fatto esperienza del dolore e tuttavia esserne risaliti. Forse allora non c’è compassione, oggi, perché è venuto a mancare questo doppio movimento? Perché viviamo nella società del lamento?

 

Leopardi fa una scheda, negli Indici, sulla compassione. Per lui era un tema importante, e nel tempo oscilla tra posizione diverse. Questo che lei dice è sostanzialmente l’asse portante di queste oscillazioni, che derivano dagli spostamenti di sguardo: più sul soggetto compassionevole, o più sull’altro, o più sul sentire il dolore dell’altro in rapporto al proprio, o ancora sulla condizione in cui uno si trova – giovane, vecchio – nel momento in cui deve provare compassione. Questa, del resto, è una costante dello Zibaldone, che ha una variabilità enorme di poli di osservazione: è un sistema, ma un sistema fatto di frammenti, che si modifica nel tempo; la mobilità del punto di vista diventa mobilità del pensiero e occasione di costruzione di un sapere costantemente esposto alla sua ripresa, alla sua autocritica, alla sua riformulazione, al suo ripensamento. Da questo punto di vista lo Zibaldone non è ottocentesco, ma moderno, è già nel Novecento, vicino ai Cahiers di Valéry, anche se all’origine di quel modo di interrogarsi c’è Montaigne, con gli Essais.

Tornando alla compassione, lo sguardo di Leopardi è legato a delle domande che lui si fa su questo sentimento, e in questo senso sarebbe possibile ricostruire una sorta di trattato sulla compassione, trattato che Leopardi non avrebbe mai composto ma che era certo nella sua mente quando ha costruito gli Indici, visto quel richiamare i frammenti sparsi attorno a campi tematici. Sono più di cento i luoghi diretti o indiretti sulla compassione, insomma un libro disseminato nello Zibaldone.

Si tratta di un campo di domande mobile, vivo, che ci interroga ancora oggi.

 

La questione riguarda la possibilità che il soggetto ha di comprendere l’altro. Che è poi quello che lei scrive in relazione al legame tra compassione e amor proprio. Insomma non si esce dall’egoismo o Leopardi ci dice qualcosa diverso?

 

Il punto diventa proprio come può il soggetto essere prossimo all’altro senza che questo provochi in lui un senso di compiacimento, di orgoglio, senza che si resti insomma nel tempo e nello spazio di un amor proprio inteso come recinzione del sé. Per Leopardi nell’amor proprio c’è anche il principio che spinge verso un ex-sistere, un essere fuori di sé. Fino a che si resta all’interno di un amor proprio che riconduce tutto a se stessi, non è possibile la compassione: per questo essa è considerata da Leopardi sentimento raro. Un sentimento, per esempio, che appartiene solo a certi gesti dell’eroe greco. Achille è compassionevole solo dopo esser stato spietato, solo quando vede nei capelli bianchi di Priamo, padre di Ettore, il proprio padre, e ritorna così alla propria condizione di figlio: cancella l’essere guerriero e sopravviene una dimensione altra, dimensione nella quale si iscrive il gesto di compassione.

Per Leopardi dunque la compassione ha a che fare con l’amor proprio, come tutti i sentimenti, ma è capace di forzare l’amor proprio verso una condizione in cui la rappresentazione dell’altro prende campo, presenza, si fa domanda e prossimità. È un passaggio sottile, questo per il quale l’amor proprio può trasformarsi e generare il sentimento profondo dell’altro, della condivisione, della sofferenza con l’altro, insomma del patire insieme. Allo stesso modo è possibile che l’amor proprio generi l’amore: anche il sentimento dell’amore è fondato sull’amor proprio, ed è amore vero – se è possibile una verità dell’amore – quando questo non torna su se stesso, provocando compiacimento, piacere di sé, uso dell’altro, ma quando, uscendo fuori di sé, tocca l’estremo della propria condizione. Quando diciamo amor proprio per Leopardi diciamo desiderio. L’amor proprio ha in sé il movimento del desiderio, che è espansivo, aperto, incolmato, e tocca per questo l’estremo, l’impossibile.

 

Infatti, sempre nel testo sulla compassione, scrive: “ma si vedrà che dire della compassione per Leopardi è quasi sempre muoversi nella terra smossa e inesplorata del desiderio”. Cioè questo ha a che fare con l’espansione, intesa come spazio vitale?

 

Sì, anche se consuetamente l’amor proprio, da un punto di vista delle relazioni umane, è spesso osservato come movimento verso l’egoismo, fonte, dunque dell’interesse verso di sé, ritorno a se stesso, rappresentazione di sé. Ma al tempo stesso questo amor proprio ha in sé la possibilità di evitare questo ritorno su di sé, e di muoversi sull’onda espansiva del desiderio. E il desiderio è movimento verso l’altro. Desiderio di una condizione in cui il sé e l’altro siano in una relazione di equilibrio. Per fare questo l’amor proprio deve spingersi fino al limite del sé, in una sorta di punto estremo, sulla cui soglia la presenza dell’altro, del suo volto, e anche della sua pena, si affaccia come figura della stessa appartenenza creaturale, vivente tra viventi. Questo movimento che disloca non solo l’amor proprio ma il pensiero stesso verso un punto estremo, verso un punto di lontananza, è un principio di teoresi e di conoscenza in Leopardi. Ricerca di un punto di lontananza da cui guardare il mondo e anche se stessi, il teatro della propria interiorità.

Leopardi lo fa visivamente: ecco l’operetta Elogio degli uccelli, la quale, descrivendo la leggerezza e il canto degli uccelli, la loro vista dall’alto, ci parla della liberazione dei sensi intorpiditi, resi atrofizzati dall’incivilimento. Ma Leopardi compie questo movimento di dislocazione del punto di vista anche nel senso di uno spostamento verso la soglia della anteriorità, un’anteriorità declinata nel fanciullo, nell’antico, nell’animale. Ecco lo sguardo frequente sulla fanciullezza come condizione nella quale è possibile cogliere il vivente, il fatto che tutto è vivente, tutto ci parla e noi parliamo con ogni cosa, sentiamo la vita delle cose, un cosmo animato. Per questo si tratta di restare “fanciulli” fino alla morte, cioè portare uno stato di incantamento, e un senso del vivente, nella conoscenza, in tutte le forme della conoscenza.

Questa anteriorità è anche declinata, dicevo, come antico, sia come comparazione (tutta vichiana) dell’antico con il fanciullo, sia come ascolto di quell’antico affidato alla prima poesia, poesia prossima alla natura, alla sua vita, sia ancora come dislocazione dello sguardo verso il pensiero proprio di un filosofo antico. Sono le note pagine dello Zibaldone, datate 22 aprile 1826, da Bologna, nelle quali Leopardi descrive per dir così la universalità del male (“Tutto è male”). In quelle pagine egli descrive anche la bellezza di un giardino (“Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori…”) come esplosione di luce e colori, un giardino “ridente”, e tuttavia, insieme, attraversato dal patimento: la donzelletta che calpesta i fiori non sa che essi stanno soffrendo, che sono vivi. Questo passo, indicato come il luogo dove Leopardi mostra come il male prenda il cosmo intero, ha come centro una frase spesso omessa nelle citazioni: “Si potrebbe esporre e sviluppare questo sistema in qualche frammento che si supponesse di un filosofo antico, indiano ecc.”. Questo sguardo sul tutto vivente, sul tutto sofferente perché vivente, è per Leopardi uno sguardo dislocato verso l’antico o verso l’oriente. Tutto il pensiero leopardiano cerca costantemente questo punto di lontananza estremo; così è nella Ginestra: è osservando le stelle fiammeggianti in lontananza che la terra appare come un granello di sabbia, e le magnifiche sorti e progressive si mostrano nella loro vuota presunzione; così la fiducia nella civiltà, nella sua promessa di felicità, è scossa dalla considerazione della finitudine in cui è il vivente, esposto alla minaccia della distruzione. Da qui il sapere della morte, il sapere della fragilità come respiro del vivente: E questo, nella sparente leggerezza, nel profumo della ginestra, nel “sorriso” della poesia.

Inoltre, l’amor proprio che si spinge fino al punto estremo, fino al punto in cui sta sulla soglia e quasi fuori se stesso, come se dovesse compiere una sorta di ascesi, di meditazione fino alla perdita del senso di sé, potrebbe aprire una linea di riflessione su quel “sedendo e mirando” dell’Infinito, una sorta di movimento di espansione della coscienza che arriva sino al margine del rappresentabile. Si tratta in quel caso di portare il pensiero fino alla soglia estrema in cui possa rappresentare l’irrappresentabile, dove la lingua e i sensi sperimentano l’impossibilità di sentire l’infinito, e c’è il naufragio: che è naufragio della lingua, dei sensi, della poesia stessa. L’infinito non entra nella parola, nella lingua, o, se entra, è soltanto parola, è soltanto lingua, e non è più infinito.

Anche per la compassione vi è questo movimento: è un sentimento estremo, possibile come è possibile avere percezione che l’infinito è irrappresentabile, fare esperienza di questa irrappresentabilità. Si tratta del massimo movimento che la poesia possa compiere. È per questa ragione che quello di Leopardi è un pensiero poetante: il poeta porta il pensiero sino al limite dove anche la poesia, con la sua lingua, si spinge. Poesia e pensiero si incontrano in queste domande estreme, nelle domande che più importano.

Tornando alla compassione, essa è punto estremo dell’amor proprio e quindi del desiderio, che è un bisogno di vita, vita che si espande incontrando il mondo, gli altri.

Il desiderio non è solo nell’amore, è desiderio come θυμός, thumos, vicino alla trieb freudiana (che poi, in Freud, si rovescia nella morte, si piega nell’inorganico). La compassione è il desiderio che portandosi all’estremo del campo di orizzonte del sé, dimentica di tornare a sé e incontra l’altro nella sua sofferenza, nella sua gettatezza, lo incontra dove si mostra nella forma più fragile, disarmata, esposta. Incontrando l’altro nel dolore, il soggetto può tornare a sé, riconoscendosi la stessa fragilità. Torna a scoprire un sé di cui, Leopardi dice, può avere compassione.

 

Chiharu Shiota, Unconscious Anxiety

 

E tuttavia il desiderio nasce solo se vi è una mancanza, quindi è questa ciò che si ritrova ma anche ciò che ha reso possibile tale movimento.

 

Sì, questo desiderio è in qualche modo desiderio di conoscenza e nasce anche da una radice che è quella di chi sa che la propria armatura non è qualcosa che protegge, sa che non ci sono difese davanti all’essere nel mondo, ha il senso dell’essere esposti, della privazione. Leopardi chiama questo stato “esperienza della contraddizione”: avvertire, cioè, in sé una tensione verso la felicità e insieme sapere di non poter essere felici. Si tratta di una condizione propria dell’esistenza: avere in sé la possibilità di immaginare un mondo altro – di armonia, di perfezione, di alterità assoluta –, ma allo stesso tempo saperlo impossibile.

Leopardi, per vie diverse, da diversi punti di osservazione, ci porta sempre all’interno del suo sistema, che non è un sistema di pensiero analogo a quello dei filosofi, perché non ha fondamenti, metodi, deduzioni e premesse, non procede per sistemazioni dottrinali ma per libere e coinvolgenti considerazioni attorno all’esistenza, all’esistenza individuale e universale.

 

Chi riconosciamo come oggetto e soggetto di compassione? Soprattutto se abbiamo legato la compassione al desiderio ma anche all’amor proprio? Penso proprio ai vecchi, ai bambini, agli animali, che riconosciamo con maggior facilità come oggetto e soggetto di compassione.

 

Leopardi dice in effetti che i giovani potrebbero essere i più adatti ad aver compassione, proprio perché hanno più amor proprio, più desiderio, più impeto. Sono maggiormente legati allo slancio vitale. E tuttavia i giovani non hanno avuto l’esperienza del dolore e quindi non possono riconoscere nell’altro una condizione da loro sperimentata, sono come distratti, spostati altrove. Sarebbero idonei, se il loro sguardo si posasse sull’altro, ma questo spesso non accade perché non hanno la possibilità di considerare se stessi come soggetti del dolore, e dunque non hanno percezione della prossimità, c’è sempre uno scarto.

Questa è una considerazione di Leopardi, e non si trova di frequente questo insistere sull’aver avuto o meno esperienza del dolore in rapporto alla compassione. Ed è interessante perché dice che la compassione nasce dall’esperienza, ma anche dalla prossimità effettiva, dal nostro essere davanti all’altro, in presenza dell’altro, come Dante davanti a Francesca da Rimini (“sì che di pietade / io venni men così com’io morisse”). Si tratta di vedere, sentire, ascoltare: la compassione riguarda i sensi, nasce da questo sguardo e da questo ascolto.

 

Vi è poi, sempre in relazione alla giovinezza, anche il discorso della bellezza innocente della giovane donna, che porta alla compassione per la condizione di finitudine umana, quel “pensiero dei patimenti che l’aspettano” che turba il rapporto con quella bellezza

 

Sì in quella bellezza – quella della giovane donna, quella di cui ci si innamora – c’è la fragilità, c’è la bellezza di cui parlava Keats, quella bellezza che declina, “che deve morire”. E allora la percezione di questo porta ad aver compassione per lei, ma anche per sé e per il mondo intero. In questo caso Leopardi parte dalla contemplazione del fulgore, della bellezza, e poi vede la malinconia del declino e iscrive se stesso in questa malinconia. Vi è in queste pagine dello Zibaldone un senso della caducità che diventa costitutivo dell’essere. La compassione si mescola al sentimento del rimpianto, perché questa bellezza non resiste, non è sospesa nell’atemporale. C’è il senso forte del tempo irreversibile che comporta la compassione per gli altri e per sé.

Questo è interessante perché Leopardi lega a un certo punto la compassione all’amore, e questo al sentimento della caducità, e dunque la compassione è come un punto da cui a raggiera si aprono gli altri sentimenti.

 

Ma Leopardi costruisce un sapere attorno alla compassione?

 

Leopardi non si mette dal punto di vista del filosofo, non si mette dalla parte di Schopenhauer, per cui la compassione è fondamento della morale, e neppure dal punto di vista nietzschiano, che considera la compassione come lesione della fierezza dell’altro ed espressione del debole. Queste prospettive partono da un progetto: la fondazione di una nuova etica da un lato – non basta il neminem ledere, bisogna avere compassione, esercitarsi alla compassione– e il Superuomo dall’altro, dal cui punto di osservazione la compassione appare come invasione dell’autonomia dell’altro, della sua forza e pienezza, come sguardo fondato su un’attitudine lacrimosa, pietosa, fragile, dunque debole, che non appartiene all’uomo nuovo che deve nascere. Si tratta di due poli dello stesso sguardo filosofico, uno sguardo che vuole fondare, aprire un tempo nuovo. Leopardi va oltre tutto questo, perché vede la compassione come un sentire all’interno della mappa degli altri sentimenti, entro l’orizzonte dell’amor proprio e del desiderio. È in scarto con le filosofie fondative, con le filosofie dell’avvenire.

 

In questo suo libro mette infatti in luce la separazione tra il ragionar da filosofo da un lato, scrittura e arte dall’altro. Scrive di una indagine filosofica che si delinea più come “interrogazione intorno al soggetto compassionevole” che come “sguardo sulla relazione con l’altro”. Può chiarire meglio questo punto?

 

Perché la filosofia ha mancato la rappresentazione della compassione? Non sarei così netto come Martha Nussbaum in questa critica alla filosofia, perché bisogna intendersi sulla parola ‘filosofia’: la filosofia novecentesca del volto, dell’altro, dell’ascolto (da Buber a Lévinas a Jabès), è dentro questo movimento di attenzione, e del resto anche la filosofia nella sua tradizione classica non dimentica del tutto questa attenzione all’altro.

Possiamo, credo, affermare che in generale la filosofia si ferma a osservare il soggetto della compassione, non la relazione con l’altro: e questo perché la filosofia si è dato il compito di tracciare una topica del soggetto, domandarsi sul fondamento del soggetto e della conoscenza, o sulla morale. Non mette dunque al centro il rapporto con l’altro. Per la letteratura invece, non avendo essa il compito di ricercare il fondamento del soggetto, il cuore è la rappresentazione: i linguaggi dell’arte si pongono il problema di come accogliere il visibile, di come accogliere in una forma l’esperienza del sensibile. E allora il punto di osservazione è diverso: da una parte c’è la ricerca di una teoresi e di un fondamento per questa teoresi, dall’altra c’è l’attraversamento dei linguaggi, la rappresentazione, o la negazione della sua possibilità, o se vogliamo, come in Georges Perec, la cancellazione, la disparition, come elemento costitutivo della rappresentazione. Ma anche qui restiamo sempre in un mettere in forma, in un tentativo di accogliere nella lingua il visibile. La filosofia si pone altre domande. Quando si porrà la domanda sull’altro, sulla presenza, sulla prossimità, sul visibile e sensibile, cercherà di dialogare con la letteratura: lo fa con Heidegger, per esempio, ma anche poi con Foucault. Questo spiega perché arti e letteratura hanno messo a tema la compassione con un ventaglio di elaborazioni, di meditazioni, più forti di quello della filosofia.

 

C

 

Difficile forse per una certa filosofia partire da una mancanza che non si riconosceva.

 

La filosofia non parte dal desiderio né dalla mancanza, parte dalla ricerca della conoscenza, anche se certo c’è una filosofia che riconosce la mancanza: del resto nel Simposio Socrate ricorda che Eros è figlio di Penia, cioè della mancanza, della povertà, della privazione Questo è un punto di rottura, e non a caso Lacan quando commenta nel seminario sull’amore il Simposio, sottolinea che Penia è l’a-poria, cioè l’altro, l’altra, da Poros. Altro dalla pienezza, e dunque mancanza, aporia. Insomma quel che funziona aporeticamente nel discorso, che crea scarti, balzi, spostamenti: è quel che nel sapere fa mancare la costruzione di sapere. Il desiderio toglie fondamento e sicurezza e disciplina al sapere, toglie il mattone con cui il sapere si vuole costruire e introduce spaesamento, discordanza, inceppa il discorso, il suo ordine logico e costruttivo e lineare.

La letteratura dunque si è interrogata sul come dire la compassione, non sul che cosa la compassione sia. Sempre la letteratura si interroga sul come dare forma all’esistente, ed è dunque una questione sempre linguistica, mentre per la filosofia la questione dominante è quella della conoscenza. La filosofia arriverà a pensare che anche porsi le domande sulla conoscenza significa porsele linguisticamente, e dunque finirà con includere la necessità della narrazione: Derrida, per esempio, porta la filosofia verso un piano che era proprio della letteratura e delle arti. Si pone il problema di come dire la conoscenza e di come la conoscenza sia linguaggio, si faccia scrittura.

 

Chiharu Shiota, Firenze. Foto Martino Margheri

 

Lei ha parlato della prossimità dei sensi. Ma c’è anche il ruolo dell’immaginazione: provare compassione per quanto è distante, altro, completamente altro. Lontano, eppure prossimo.

 

È vero che la compassione appartiene ai sensi, è un sentire che addirittura può portare l’atto stesso del sentire stesso verso il naufragio, come accade a Dante, che perde la parola, la lingua, i sensi, davanti a Francesca e all’irrompere della compassione.

Tuttavia è anche vero che in questo sentire c’è l’immaginazione, la quale non è che una forma forte del sentire: l’immaginazione dell’altro, nella lontananza, nella non prossimità, è un elemento che può avere la stessa forza del vedere. È per questo, del resto, che la compassione ha spazio e tempo anche nella letteratura e nell’arte: è proprio dell’arte e della letteratura usare la lente dell’immaginazione – ‘regina del vero’, diceva Baudelaire – per attingere a un vero che non è il vero inerte. L’immaginazione fa vedere, come scrive Leopardi, dietro la torre un’altra torre, dietro la campagna un’altra campagna, ed è questo altro ciò che il poeta deve rappresentare. L’artista non può rappresentare il dato che già c’è, deve acquistare uno sguardo altro e lontano sul visibile, sguardo capace di generare conoscenza, di sottrarre il visibile alla ripetizione, all’opacità, alla polvere. Questo è il lavoro della forma.

La forza conoscitiva dell’arte è proprio in questo: l’immaginazione agisce, si può avere esperienza della compassione immaginando la condizione dolorosa dell’altro.

 

E questo ci porta anche al discorso sugli animali: provare compassione per l’animale, del cui dolore non possiamo avere alcuna esperienza.

 

Il dolore animale, che è molto presente nella letteratura, è stato un po’ il punto di partenza delle mie riflessioni sulla compassione. Fino a quando parliamo dell’animale domestico è facile pensare che assistere al declino di qualcuno che si è amato sia esperienza fortissima di vicinanza al dolore, dolore che si percepisce, che si vuole condividere cercando di assumerlo su di sé, soprattutto – come nel caso dell’animale – se l’altro di fronte al dolore è totalmente disarmato, senza protezione. L’animale è lì con il proprio dolore, e pone una domanda sull’essere nella totale gettatezza. Ma la compassione, grazie all’immaginazione, può riguardare un animale che non c’è, l’animalità, l’insieme delle specie animali separate dall’uomo, allontanate, recintate, oltraggiate, sottomesse in schiavitù, sterminate. Si tratta di andare oltre la vicinanza e di comprendere il dolore animale nel suo accadere e mostrarsi lontano da me. Questo porta con sé il sentimento di un’appartenenza alla condizione del vivente.

 

Che è poi quella condizione di cui parla Rosa Luxemburg [Un po’ di compassione, Adelphi 2007], in quella lettera in cui tiene insieme con rara delicatezza il dolore per il bufalo maltrattato e la propria ‘letizia’, il ‘manto di stelle con cui attraversa la vita’, seppur rinchiusa in carcere

 

Rosa Luxemburg infatti parla in quella lettera dei campi di guerra che lei non vede, e questi bufali presi dai grandi prati della Romania, come “trofei di guerra”, che vengono sottoposti a fatiche e deportati, rappresentano la perdita di libertà, la deportazione in quanto tale, e dunque i campi di guerra, dove accade questo costantemente: la prigionia, la sofferenza, la morte. L’occhio del bufalo è allora un passaggio per un pensiero sulla condizione umana, che con la guerra è diventata una condizione esposta, soggetta alla perdita di ogni pietà, alla spietatezza. È una lettera commovente per la sua delicatezza e profondità: l’amica a cui Rosa scrive, Sonja Liebknecht, è la moglie del suo compagno di lotta, in prigione anch’egli, e lei le scrive parlando delle passeggiate, invitando a pensarla così, in questo mondo che è quello su cui poi violentemente si abbatte la tragedia. Lo sguardo sul bufalo che soffre diventa lo sguardo sulla perdita di compassione che accade nella guerra.

 

Lei poi affronta anche il tema religioso.

 

La compassione entra nel pensiero cristiano come misericordia, e con altri termini, in altro modo, nella cultura indiana, soprattutto nel buddismo. Per il buddismo ho scelto poche cose, perché contiene moltissimo, mi sono fermato a uno sguardo sugli Editti della pietà, sulle Vite anteriori del Budda, e sulle Upaniṣad vediche. Ho avuto un bel colloquio su questo con un professore parigino amico, che è un grande studioso della tradizione vedica e orientalista, Charles Malamoud.

In area cristiana bisognerebbe comprendere bene il passaggio dall’hesed ebraico, lo sguardo pietoso di Dio verso gli uomini – e insieme la richiesta degli uomini che Dio avesse un sguardo pietoso verso di loro- di cui si parla nel Primo Testamento [mi racconta che un amico esperto di letture bibliche gli ha suggerito che bisogna dire Primo e Secondo Testamento, non più Vecchio e Nuovo], alla misericordia; l’hesed ebraico viene infatti tradotto con l’eleos greco nella Bibbia dei Settanta, diventando già uno sguardo compassionevole, e da parte dell’uomo una richiesta di soccorso – il kyrie eleison, l’“abbi pietà di noi” –, e infine viene tradotto con la parola latina misericordia nella Vulgata di san Girolamo. Sarebbe interessante studiare le diverse connotazioni, sono sentimenti diversi e bisognerebbe ricostruire la compassione sul piano religioso anche attraversando queste differenze. Di misericordia si parla anche in termini devozionali, come richiesta di pietà, ed è tema che ha a che fare con la commiserazione. È un campo dove c’è molto da dire, da un punto di vista laico e da un punto di vista religioso. Di questi aspetti a lungo ho parlato con un mio vecchio amico studioso di patristica, Domenico Pazzini.

 

Chiharu Shiota. Traces of Memory. The Mattress Factory, Pittsburg. Photo Mattress Factory and Tom Little Photography.

 

Tra l’altro leggendo il suo libro mi sono interrogata sul gesto di coprirsi il volto nel dolore della Maddalena: proprio il volto, che è in fondo occasione della prossimità all’altro.

 

Sì, probabilmente la Maddalena vuole cancellare il volto, non mostrare i segni del proprio dolore: il pianto, la sofferenza; come se volesse sprofondare, abolire se stessa nel dolore dell’altro; forse è una forma di abbassamento, di pudore: non sono più io, la sofferenza che ho va al di là del volto e non ha espressione.

Il pittore abolisce la bellezza della Maddalena, come Dante perde la lingua: perdere il proprio, perché il proprio implica uno scarto, mostra il vivente davanti alla morte e separato da essa, mostra la vita dinanzi alla cessazione della vita. Nascondere, forse, per trovare una soglia di vicinanza più forte. Ma c’è anche da ricordare l’aneddoto che racconta Montaigne sul pittore Timante, il quale copre il volto di Agammenone che assiste al sacrificio di Ifigenia, perché non c’è un’espressione che possa dire il dolore.

 

Vi è un’altra cosa che volevo chiederle, che riguarda Antigone e il rapporto tra giustizia e compassione. Nella compassione vi è forse un’eccedenza – dono e non scambio – e per questo introduce un atto di umanizzazione.

 

Questo è un grande tema, perché dal punto di vista dello sguardo politico subito la replica è questa: è la giustizia che risolve i problemi, non la compassione. La compassione è un gesto individuale che finisce lì, non riguarda i rapporti interindividuali. La compassione è nell’ordine del sentire e non toglie la sofferenza. È la giustizia che deve agire per costruire una società in cui non ci sia bisogno di compassione. La compassione, viene detto, è alibi che allontana dalla domanda di giustizia, un modo ipocrita per non affrontare la questione.

Di fatto credo che le due figure, compassione e giustizia, non si escludano, la giustizia non copre tutto il campo possibile : è certo necessaria, da invocare, ma vi è un altro ordine di discorso che va al di là del diritto e riguarda la condizione esistenziale. Ammettiamo che un individuo abbia accesso a ogni diritto – orizzonte per cui certo dobbiamo lottare –, eppure la condizione umana resta lo stesso una condizione di finitezza, di disagio, di sofferenza, e quindi rimane sempre lo spazio per la compassione. La quale ha a che fare con una sofferenza che non riguarda il piano giuridico. Quand’anche avessimo una carta dei diritti animali, la sofferenza dell’animale persisterebbe. Non per questo non dobbiamo pretendere i diritti, anche i diritti animali. Il loro esercizio, la loro ammissione e protezione potrà intanto ridurre la sofferenza, le occasioni della sofferenza.

La compassione non avrebbe senso solo davanti a mondo privo di sofferenza, ma non esiste una società del genere, dal momento che anche il massimo di organizzazione politica illuminata non cancella il limite, l’orizzonte della finitudine.

Il rischio, all’opposto, è che l’attesa della giustizia possa diventare un alibi per non guardare il dolore, la sua presenza. Giustizia e compassione devono coesistere.

 

CJapan Art Today. Kunsthaus Interlaken, Interlaken / Switzerland. photo Sunhi Ma Chiharu Shiota. Japan Art Today. Kunsthaus Interlaken, Interlaken / Switzerland. Photo Sunhi Mang

 

È interessante questa cosa dell’alibi, perché se è vero, come lei scrive, che nel tempo tragico non c’è l’attenzione all’altro perché l’altro è nemico, è vero anche che il nostro è un tempo di indifferenza radicale verso l’altro, senza nemmeno l’alibi che sia nemico.

 

Certamente l’estraneità dell’altro, la riduzione dell’altro a numero, avviene anche al di là della guerra. La guerra è il tempo in cui la cancellazione della singolarità vivente trova la sua massima espressione, ma questa negazione esiste in ogni rapporto sociale in cui l’altro viene allontanato dalla nostra sfera, sospinto nell’anonimia, nella differenza dell’essere straniero, in un’alterità opaca. Nella guerra, certo, l’esercizio di spoliazione è massimo: diventa metodo, strategia, vita quotidiana; nella guerra, inoltre, tutto questo viene giustificato e la spietatezza elevata a ragione, a necessità. Questa è la grande follia della civiltà: non vi è giustificazione per la guerra, mai, non c’è stata guerra che non si sia rivelata errata, e distruttiva, e irreparabile. E tuttavia pare che la storia non insegni, o non abbastanza, e ogni volta si trovano nuove giustificazioni per nuove guerre.

Ricordo che, al tempo della prima guerra del Golfo, scrivemmo – intellettuali, artisti, scrittori – un telegramma, che Volponi, allora senatore, portò in Senato, un telegramma con una frase unica per dire la nostra fortissima condanna di quella guerra (ricordo che avevamo formulato la frase con Fortini). Restò solo un gesto. Si trattava, dovettero pensare, di un punto di vista non-politico – letterario, umanistico – e proprio per questo da considerare debole, se non risibile. Eppure il discorso razionale, il risultato di analisi geopolitiche, si sgretola davanti alla distruzione e alla morte; la guerra porta alla cancellazione della singolarità, cancellazione che apre il tempo del tragico, da cui è difficile uscire.

In certi momenti la sola forza critica è essere impolitici.

Si tratta di spostare il punto di vista, che è quanto ci devono insegnare oggi le tragedie del Mediterraneo, per esempio: è in campo la singolarità della persona, il suo corpo, il suo nome, il suo sentire, e desiderare. Certo che c’è, e deve esserci, lo spazio politico, ma non si può rimuovere il punto di vista della singolarità vivente, la domanda che muove da questo punto di vista. È anzi questa domanda a dover essere portata dentro la politica. Si relega l’impolitico della compassione a una forma di soggettiva e benevola pietas, un atteggiamento di cui si crede di non aver bisogno.

Ed è proprio perché è impolitico e inattuale che il gesto della compassione è politico e attuale.

 

Del resto oggi non c’è più un riconoscersi simili, se si parla di riconoscimento si parla dell’esplosa esigenza di un riconoscimento anonimo, non certo di un incontro con il volto dell’altro.

 

Questo è un tema importante, questo della nuova anonimia. Non è più il non riconoscimento, ma il riconoscimento senza volto, un riconoscimento fondato su una presenza impalpabile, incorporea, astratta. I sensi erano in azione intorno al nome, al visibile, al corporeo, alla prossimità sensibile, e dove questo mancava e dove il nome sfuggiva o era assente, si creavano forme di riconoscibilità ad opera dell’immaginazione, della letteratura, dell’arte. La televisione ci ha dato e ci dà figure separate dallo spettatore, offerte alla sua percezione visiva, uditiva, al suo immaginario, spesso alla sua passività. Oggi, nel mondo virtuale, spesso siamo anche oltre, non c’è neppure la figura, né il momento tattile, visivo, uditivo. Domina l’astrazione, e con essa la minaccia della sparizione. Su questo forse oggi bisognerebbe riflettere.

 

Mi congedo, con nuove domande e la voglia di cercare nello Zibaldone i frammenti – quegli oltre cento frammenti sulla compassione –, forte del pensiero che l’impolitico e l’inattuale abbiano un posto e un ruolo; politico, anche.

Mi congedo e, pedalando nella Milano ormai buia, mi tornano in mente le parole con cui Mario Rigoni Stern ricorda Primo Levi, scrivendo della gratitudine per un tesoro che Primo gli ha lasciato – di parole, di letteratura, di dislocazioni dello sguardo – tesoro che lo aiuta, lo impegna, a essere meno stupido e meno cattivo.

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