Napoli / Paesi e città

4 Ottobre 2011

Ci sono parole che inchiodano  i suoni a un mistero, che sempre si forma ad ogni nuova pronuncia.
- Vorrei che tu scrivessi qualcosa sull’Anticaglia.
Guido lo dice con pudore. Ha scattato delle foto che raffigurano la zona, e gli piacerebbe farne un piccolo libro. Sebbene abbia ottant’anni,  Guido ha un fisico asciutto e giovanile e non è difficile incontrarlo per strada che se ne va con passo sicuro verso direzioni che sono solo sue. Lui dice di essere un anarchico, e non vedo perché non debba credergli. So che lo è da sempre; e so che frequenta un altro mio amico, che per me è la figura dell’anarchico per eccellenza. Gli anarchici mi piacciono, sono persone serie, molto metodiche, a differenza di quel che vuole la vulgata. Hanno a cuore gli uomini e le donne come individui, come singolarità irriducibili. Sono spesso solitari, anche se aspirano alla costruzione di piccole comunità. E anche quando non sono più di due o tre sono capaci di svolgere un lavoro di connessione che sembra il risultato di numeri più vasti e cospicui. E poi non votano mai alle elezioni, e di questi tempi la loro scelta reiterata ha su di me un effetto  liberatorio.
L’Anticaglia  è un  luogo, ma per è innanzitutto una parola. Quando Guido la pronuncia, per associazione mi viene in mente un’altra parola: neglia. E’ una parola siciliana che ho sentito più volte pronunciare a mia madre. E soprattutto in un caso ha assunto un suono metafisico. E’ stato quando mia madre scoprì che aveva avuto in eredità da una lontanissima parente una serie di buste, che contenevano una collezione di capelli, sì, proprio di capelli, i quali assursero alla dimensione di alta e imprevedibile di neglie.
Anticaglia e neglia credo dunque che significhino qualcosa di simile: rimasuglio, oggetto di poco conto, scarto, destino incompiuto.

 

L’Anticaglia è il terzo decumano, quello che si estende in alto, e non ha un andamento lineare. E’ un eccezione allo scacchiere greco-romano, fatto di decumani che s’incrociano ad angolo retto con i cardines.

Qui in alto, invece, la strada tende a curvare; è come se si raggomitolasse in se stessa. Parola e  luogo evocano misteri ciclici.
Innanzitutto ci sono gli archi. Basta alzare gli occhi e li vedi che tengono lontane pareti che tenderebbero a unirsi in un solo, grande e impenetrabile muro. Sono gli archi di un teatro antico. Nerone, si dice, veniva ad esibirsi qui con grande successo.
Un parte della cavea  è stata portata alla luce. Ci sono stato una volta. Si apre tra i palazzi. C’è chi può goderne dal proprio terrazzo.  Sempre, anche quando gli spettacoli li fa solo il vento.
L’Anticaglia  confina con altre zone altrettanto misteriose. E’ come se marcasse un confine; è come se la città in questi paraggi andasse oltre se stessa. La salita che porta all’Istituto di medicina legale, ad esempio, dà la sensazione che lassù prevalga il nulla. Se dovessi avere la pazienza e il tempo di percorrerla tutta, potresti scoprire che lassù vive una popolazione diversa sia da me sia da Guido, una popolazione senza corpi, fatta di ombre e di sospiri.

Una volta un mio amico polacco mi raccontò che tra i medici che lavoravano in quell’Istituto, lassù, ce n’era uno che aveva fatto parte della commissione che s’era occupata delle vittime di Katyn. Non ricordo bene come lo avesse scoperto. Fatto sta che un giorno s’era inerpicato sin lì e non solo l’aveva trovato, ma ne era anche diventato amico.
Non  so se era stato lui a rivelargli che lassù portavano i corpi dei camorristi uccisi negli agguati. C’era come un accordo: di quei corpi sarebbero stati usati tutti gli organi vitali possibili. Le loro morti avrebbero prolungato le vite di altri. Non per questo si sarebbero riscattati delle loro nequizie. A quello non pensano i medici, e anche gli scrittori, e tale era il mio amico polacco, possono al massimo far risuonare le corde segrete di dolori altrimenti impronunciabili.
Lui lo faceva nella sua lunga solitudine napoletana. E’ per questo che mi sorpresi quando mi disse della rapida amicizia  con quel medico legale. Ma c’era di mezzo Katyn, c’era di mezzo il suo paese, che era stato costretto ad abbandonare da così tanto tempo che solo l’esercizio quotidiano della sua lingua d’origine poteva ancora tenere vivo nella sua mente.
E lassù un giorno sono andato anch’io. Ci sono andato per prenotare un esame alla mia ragazza, che stava per diventare anche lei un medico. C’erano tanto gatti, nei cortili e nei chiostri. E c’era silenzio. Di persone in giro non se ne vedeva nessuna. Avrò sbagliato posto, bisbigliavo tra me e me. Ma poi qualcuno si materializzò, l’esame lo prenotai, ma non ricordo come tornai in pianura.
In realtà, in questa città non si torna mai in pianura. C’è sempre un sotto e c’è sempre un sopra. Ma io all’epoca non lo sapevo.

Sono mesi che dovrei incontrarmi con Guido per andare all’Anticaglia. Ma il giorno giusto si fa aspettare. Forse perché non si va all’Anticaglia  se non hai fatto bene i conti con il Tempo.
E poi, devo confessare: pur essendoci andato più volte, nel corso degli anni, dove sia davvero l’Anticaglia non lo so mai con precisione. Se ci penso, mi  prende una strana incertezza  che mi fa vacillare.
Forse l’Anticaglia è solo un suono imprigionato nel dizionario, e non c’è nessun corrispettivo nella realtà fattuale  del mondo esterno.

Ma Guido ha pazienza, sembra che sappia aspettare. Solo qualche volta, al telefono, ha uno scatto nella voce, come se all’improvviso perdesse la pazienza. Ma poi tutto passa, e con lo scatto della sua voce passa anche il tempo: i giorni, le settimane, i mesi.
Finché c’incontriamo  per caso, e siamo proprio all’Anticaglia.  Ha inizio così la nostra peregrinazione.

Lui che al telefono sembrava voglioso di racconti, adesso è parco di parole. A volte indica qualcosa muovendo le mani, ma forse sta solo aggiustandosi il ciuffo candido che gli svolazza sulla fronte.
Capisco che dinanzi alla consistenza petrosa di un luogo, le parole è giusto che aspettino fuori dalla porta. C’è bisogno di riguardo e rispetto per i luoghi. Qui inoltre il tempo assume la forma del vortice. Guido ed io lo osserviamo scendere una scala a chiocciola che chissà a quali profondità arriva. Sospetto che laggiù ci sia l’acqua del mare; un’acqua nera, ribollente e schiumosa.

Ci fermiamo sulla soglia di una tipografia. Forse Guido vuole ricordarmi che siamo qui perché gli ho promesso di scrivere qualcosa. Ma cosa in particolare? Non ne ho la più pallida idea. Queste pietre mi ammutoliscono. E anche Guido non  mi sembra così ciarliero.
Però, salutando i tipografi, il nostro andare continua, gomito a gomito, scartando i sacchetti della spazzatura, evitando le motociclette, guardando di sottecchi attraverso le aperture dei muri.
C’è uno slargo, o meglio lo era prima di diventare un deposito di automobili. Ma qui le automobili dovrebbero essere vietate. Non è una città fatta per le automobili, questa.
Biciclette, pedoni e mezzi pubblici: non ci sarebbe bisogno d’altro. E tra i mezzi pubblici dovrebbero abbondare le funicolari. Nel loro andare su e giù e viceversa terrebbero vivo il ricordo più intimo e sostanzioso della città. Direbbero, mentre i loro cavi s’arrotolano e si srotolano, che la città è se stessa fino in fondo solo se va verso giù, se non ha paura di guardare nelle viscere più buie di se stessa.

Anche all’Anticaglia ci sarebbe bisogno di una funicolare che permettesse d’immergersi nel sottosuolo, là dove tutti gli scarti del tempo riacquistano la loro funzione prima. E’ laggiù che ci sono i destini perduti della città; è laggiù che è necessario andare per dare degna sepoltura a chi ha visto la propria vita interrompersi all’improvviso contro le pietre alte e scure di un vicolo cielo.
Guido tutte queste cose le sa benissimo,e quando è stato possibile più che dirle le ha fotografate, anche se io non l’ho mai visto con una macchina fotografica. E anche oggi ne è sprovvisto. Forse il tempo delle fotografie per lui è un tempo che non si condivide con altri.
Lui, questi luoghi, li ha già  fotografati. E adesso aspetta da me che me ne approprii con le parole. Ma sia io sia lui ce ne stiamo in silenzio, rispettosi dei suoni che vengono da queste pietre ombrose.

Mi viene in mente che mia madre, di tanto in tanto, quando eravamo bambini, ripuliva la casa dalle neglie. Noi figli la vedevamo andare in avanscoperta negli stanzini, sotto i letti, dietro gli armadi. Ma sapevamo bene che le neglie avrebbero prevalso. E così succedeva. Vincere quella battaglia, per fortuna, non era possibile, e mia madre in fondo lo sapeva anche lei, ma doveva provarci e ci provava. Anche per onorare quelle buste piene di capelli che mai erano davvero entrate in casa.
Adesso Guido ed io non abbiamo nessuna intenzione di ripulirci dalle anticaglie. Anzi, al contrario, è alla loro ricerca che andiamo, senza dircelo esplicitamente, facendo attenzione che non sfuggano di fronte a possibili invasori.
No, più che da invasori è da invasi che camminiamo questa mattina, lui senza fotografie, io senza parole. Gomito a gomito sbuchiamo in una grande via lunga lunga e ben diritta, ed è là che ci fermiamo a bagnare le arsure delle nostre gole. Dopo tutto questo silenzio c’è bisogno di rifocillare le corde vocali, che hanno tremato nel buio delle nostre gole senza emettere suoni. Perché è solo con il rispetto e la pazienza che  forse un giorno verranno le fotografie di Guido e le parole mie. Un giorno, o forse con maggiore approssimazione, almeno per me, una notte.

All’improvviso Guido mi fa capire di esser un po’ stanco. O forse sono io ad essere stanco e attribuisco a lui il pensiero. Camminiamo lungo la strada più diritta della città. Da lontano si profila la sagoma di un autobus. Lo prendiamo? Prendiamolo.
Una ragazza si alza per cedere il posto a Guido, lui la guarda senza cattiveria  ma con decisione. Lui il suo posto a sedere non lo vuole. Lui è abituato a stare in piedi. Anzi, lui è abituato a camminare, e prendere un autobus è già quasi una piccola sconfitta.
Sull’autobus ci sono molte persone. Ognuna è intenta alla sua sopravvivenza. Tra queste persone ce ne sono due che Guido m’indica con gli occhi. Non dice nulla, finché non scendono.
- Vedi, dice, quei due sono dei borseggiatori. Li conosco da anni. E loro conoscono me. Se ci capita di stare vicini basta uno sguardo per dirci tutto quel che abbiamo da dirci. Li ho denunciati più volte. Ma loro sono sempre lì. Il vero borseggiatore è il primo, il secondo lo copre.
Io li guardo scendere dall’autobus e incamminarsi nel tumulto esterno della città. Penso che Guido conosce molte più cose di me. E soprattutto capisco che gli occhi di Guido sanno cogliere dettagli che a me sfuggono.
Mi chiedo se quei tizi li abbia mai fotografati. E se non lo ha fatto, mi chiedo se la fotografia dei due borseggiatori c’entri qualcosa con l’Anticaglia.
Forse no, forse è solo un episodio che è avvenuto poco prima del nostro commiato. Però quella foro inesistente sì è adesso impigliata nelle mie parole. E dunque ci starà bene quando verrà il momento di celebrare la notte dell’Anticaglia. Quando fotografie e parole saranno finalmente un piccolo libro, intrecciato con il filo di Partenope, in una bottega che si apre in una strada che prima dell’Anticaglia celebra la Sapienza.
Quanta Sapienza ci nasconde nelle anticaglie, nelle neglie, negli scarti, nei destini che non si compiono, negli anfratti del Tempo.

Da quella passeggiata con Guido di giorni, di settimane e di mesi ne sono passati un certo numero. Quel che ho scritto qui magari non è del tutto veritiero, forse non è mai avvenuto. La memoria di quel giorno si è rintanata in un sottoscala e non sono più capace di stanarla. L’unica cosa che posso fare è affidarmi a qualche fotografia di Guido, se davvero lui ne ha mai fatte di reali. Ma se pure le avesse fatte, le fotografie non hanno nulla di reale, Sono solo delle anticaglie visive, superfici che si riempiono presto di polvere, lasciate a riposare nel buio di cassetti foderati di carta a scacchi.
Che ce ne siano ancora in giro, ne dubito. Ma non sta a me giudicare. Ne sta a me cercarle. Se appariranno in un libro vuol dire che ci sono. Altrimenti  amen

 

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