Paolo Pellegrin, l’orizzonte degli eventi 

11 Ottobre 2023

La proiezione è in bianconero. Sullo schermo, una moltitudine di scarpe, di braccia. Persone, ovunque. Chi ce la farà? e chi resterà indietro? Corrono, spingono, sulla barca possono salire solo in pochi. Chi scegliere? Una donna tiene in mano un cartello: “We are not here by choice”. Aspettare un’altra barca. Restare aggrappati. Sopravvivere. Far sapere! È accaduto, queste persone sono esistite; vanno ricordati, tutti loro, un fotogramma dopo l’altro. Trattenere tutti, inquadrare e filmare, ancora e ancora. Salvare tutti. Cambio di scenario. Guerra. Soldati, camionette, fango, buchi, scantinati, processioni struggenti. E tra i pezzi di questa sofferenza appare un soldato, un ragazzo: tiene in mano la fotografia incorniciata di un commilitone. Una donna – la madre del soldato morto? – piange guardandola. L’uniforme del soldato è impeccabile, lui guarda un punto lontano. Svolge il suo compito: sostenere la fotografia, non farla cadere perché la donna possa baciarla. Ancora un cambio. Ora siamo su un’auto della polizia americana. L’inquadratura dal finestrino mostra rottami, sagome scure, bicipiti tatuati. Gli agenti pattugliano quartieri depressi, sono pronti a intervenire. All’opposto, visti dalla strada, i poliziotti sono minacciosi, si avvicinano: mani in alto, faccia schiacciata a terra, pistole puntate. 

Queste brevi sequenze sono sufficienti a far emergere i caratteri salienti dello sguardo e della poetica di Paolo Pellegrin, uno dei più noti fotoreporter italiani: partecipare da dentro, sostenere il peso della testimonianza, comprendere l’ambivalenza del mondo e la pluralità di punti di vista possibili. In altre parole, utilizzare il potere sintetico della fotografia per strappare alla realtà caotica una scintilla di significato, qualcosa che faccia affiorare le forze vive che percorrono i corpi degli uomini e delle donne, visualizzare le energie che deformano i loro volti e imbevono i loro gesti, violenti o disperati.

La videoproiezione è al centro della mostra L’orizzonte degli eventi, visitabile presso Le Stanze della Fotografia sull’isola di San Giorgio a Venezia (a cura di Denis Curti e Annalisa D’Angelo, visitabile fino al 7 gennaio 2024; nello stesso periodo è aperta al primo piano la mostra Tarocchi di Pino Settanni), che in circa trecento scatti ripercorre le fasi principali della carriera del fotografo.

Oltre ai lavori nei territori di conflitto (Iraq e Gaza, Libano, Ucraina), i reportage sugli Stati Uniti e Messico e sui rifugiati a Lesbo, la mostra dà spazio a due ulteriori momenti nella ricerca fotografica di Pellegrin. Il primo è una mise en question dei sistemi di videosorveglianza e riconoscimento facciale, tecnologie utilizzate a livello globale dalle forze di polizia. La riflessione si sviluppa attorno alla domanda: fino a che punto è lecito oltrepassare il diritto alla privacy? In collaborazione con un gruppo di ricerca che lavora sull’intelligenza artificiale, Pellegrin ritrova nell’archivio una serie di fotografie che ritraggono persone senza tetto e le manipola ottenendo delle eigenfaces vale a dire volti generati da computer (e utilizzati per sistemi di riconoscimento facciale) che non esistono nella realtà. Il secondo momento è rappresentato dai reportage sulle problematiche ambientali, come lo tsunami in Giappone e gli incendi in Australia, fino agli scatti che ritraggono l’Antartide, vedute aeree di fratture e scioglimenti che appaiono inevitabilmente ferite aperte.

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Persone in fuga dalla Libia durante gli scontri tra ribelli e forze pro-Gheddafi. Passaggio di frontiera a Ras Jdir, nei pressi di Ben Guerdane. Ras Jdir, Tunisia 2011.

L’orizzonte degli eventi evocato dal titolo, spiega la curatrice nel catalogo che accompagna la mostra, “è in fisica la zona teorica che circonda un buco nero, un confine oltre il quale anche la luce perde la sua capacità di fuga; attraversato questo confine, un corpo non può più andarsene e scompare del tutto”. E in effetti, il concetto si applica bene alla fotografia di Pellegrin, che spesso lavora intorno alle soglie, comprendendone l’insidia e gettando lo sguardo al di là. Soglie-muro, come il confine tra Messico e Stato Uniti, o il carcere di Guantanamo, o le porte chiuse a chiavistello ma perforate da buchi di proiettile degli scenari di guerra. Soglie-kairos, quando la fotografia ingloba il momento decisivo di una vita, la scommessa di sopravvivenza, il “nulla sarà più come prima”. È, ad esempio, il finestrino dell’autobus attraverso cui guarda la bambina palestinese in fuga a Tiro dopo che il suo villaggio è bombardato. O ancora, è il mare negli occhi di un migrante.

Concedendo all'immagine il tempo di penetrare nella coscienza, sconfiggendo l'istinto a passare immediatamente alla successiva – la coazione tattile dello scrolling, estesa nella fattispecie alle pareti della mostra –, lo spettatore può sentire il silenzio della soglia. È un trattenere il respiro prima dell’immersione, un lungo momento in cui vediamo il soggetto lanciarsi dentro il mondo, cosciente di sé, del pericolo, dell’orrore. Il fotografo sospende il giudizio, rimane un passo indietro, accetta il ruolo di testimone: percepiamo la carica empatica del suo sguardo e insieme, in qualche modo, il suo sentimento di impotenza.  

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Civili arrivano a Tiro dopo essere fuggiti dai loro villaggi nel sud del Libano durante i raid aerei israeliani. Tiro, Libano 2006.

Lo sguardo di Paolo Pellegrin ha dimestichezza con l’arte; le composizioni esemplari, i chiaroscuri potenti, l’uso dello sfocato e certi dettagli colti al volo o i ritratti tra la folla dispersa dichiarano una ricerca consapevole e matura, nutrita di echi e rimandi. Da questo approccio spesso si distacca un’immagine iconica, ovvero la fotografia, tra le tante di un reportage, capace di riassumere un contesto più ampio, un conflitto, l’intera sofferenza di un popolo.

Di fronte a queste immagini esemplari si deve però riflettere sul rischio di estetizzazione di cui ci ammonisce Susan Sontag in Davanti al dolore degli altri: “Le fotografie che raffigurano la sofferenza non dovrebbero essere belle, così come le didascalie non dovrebbero essere moraleggianti. In quest’ottica, infatti, una bella fotografia sposta l’attenzione della gravità del soggetto rappresentato al medium in sé, compromettendo così il carattere documentativo dell’immagine. Una fotografia del genere invia segnali contraddittori. “Fermate tutto ciò” ingiunge. Ma al tempo stesso esclama: “Che spettacolo!” Pellegrin si muove intorno a quest’obiezione e la risolve caricando le immagini di un potenziale narrativo; nell’osservarle ci chiediamo cosa ne è stato di quell’uomo, di quella donna nella fotografia? Cosa li ha portati fin lì? E fatichiamo a lasciarli andare perché ormai occupano uno spazio della nostra riflessione.

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Madre di un bambino ucciso durante l’incursione delle forze di difesa israeliane a Jenin. West Bank, Territori Palestinesi Occupati 2002.

Ci chiediamo ad esempio se quella madre palestinese sia sopravvissuta alla morte del figlio o se sia stata travolta dal dolore che la sfigura. La folla si accumula alle sue spalle, vibra, è il rumore cupo delle ombre; e rimane un volto scuro a sostenerla, in un gesto che rimanda all’iconografia religiosa. Pellegrin stesso ha del resto dichiarato: “Sono più interessato a una fotografia “incompiuta” – una fotografia suggestiva che possa innescare una conversazione o un dialogo. Ci sono immagini che sono chiuse, finite, nelle quali non c'è modo di entrare”, si legge sul sito dell’agenzia Magnum (vedi qui), a conferma della presenza intenzionale di uno spiraglio per empatia e immaginazione. 

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Angelina gioca a casa di sua nonna Sevia. Roma, Italia, 2015.

La mostra di Pellegrin offre senz’altro momenti di emozione intensa, ma genera anche interrogativi importanti. Esporre in una fotografia la sofferenza umana pone infatti una questione etica con la quale è necessario fare i conti. I fotoreporter più maturi (compreso Pellegrin) ne sono ben consapevoli e la affrontano a ogni clic, quando, pur nell’inevitabile non-obiettività dello scatto, cercano la loro personale poetica calibrando il “coefficiente artistico” e l’onestà della rappresentazione posta a servizio della testimonianza.

E dovrebbe confrontarsi con tale riflessione anche il dispositivo espositivo, proponendo al visitatore soluzioni per affrontare eticamente il dolore vissuto. In questa mostra invece si avverte una strana forma di incongruenza tra mezzi e finalità. Ne sono parte l’effetto spettacolare dello spazio di esposizione, con la sua atmosfera rarefatta e sin troppo cool, e soprattutto i 36€ di fatto necessari per la visita (considerati almeno il vaporetto, l’ingresso e una bottiglietta di acqua minerale). Una cornice istituzionale che si avverte contraddittoria rispetto alla dichiarata volontà di testimonianza e che rischia di oscurare il contenuto. E si potrebbe procedere ulteriormente con una domanda ancor più basilare e decisiva: cosa spinge a esporre crude fotografie di guerra al di fuori di un libro, di un editoriale, di un reportage giornalistico? Queste grandi stampe impeccabilmente incorniciate sono diventate opere d’arte? E se sì, come si concilia tutto questo con la loro dichiarata fedeltà all’ideale di una fotografia documentaristica?

Nell’era postmediale in cui ci troviamo, il fotogiornalismo classico è sfidato e spesso superato da immagini spontanee e anonime, riprese con droni, telefoni, sistemi di videosorveglianza; immagini senza anestetico che mostrano, talvolta in diretta, il massimo orrore possibile. Basta navigare qualche canale Telegram (NotizieRussiaUcraina, o GonzoWar, o UkraineNow per citarne solo alcuni) per rendersi conto a che punto il citizen journalism sia in grado di mostrare ciò che sta accadendo e non, come nel reportage fotografico, ciò che è già accaduto; l’atrocità non è più resa iconica dalla fotografia del fotoreporter-artista, ma direttamente, brutalmente esposta dalla fotografia sgranata o dal video tremolante girato dal testimone oculare. Tutto ciò impone di aggiornare il dibattito sul ruolo del fotografo nell’epoca presente e apre a ulteriori questioni: il rischio di mistificazioni e contraffazioni, il senso di una illusoria democrazia informativa, i pericoli della frammentazione della responsabilità, i risvolti problematici della fotografia traumatica. In questo scenario, come si inserisce una mostra di fotografia di guerra? Trovare risposta a questi interrogativi è oggi il compito di chiunque scatti o anche solo osservi fotografie di attualità.

Nonostante tutto, ritagliandosi uno spazio di contemplazione di fronte alle immagini di Paolo Pellegrin, si può ancora percepire il senso, una fotografia dopo l’altra, di una comunanza con la vicenda storica, di una tenerezza per l’umanità. Che soffre, ovunque. E verrebbe da andarsene per il mondo e bussare a ogni porta, abbracciare ciascuno e proseguire, casa per casa, per tutta la vastità della Terra. E per un po’ ci pare di comprendere il verso virgiliano sunt lacrimae rerum, di comprenderlo davvero.

In copertina, Peshmerga piangono la morte di un loro compagno, ucciso da un cecchino dell’ISIS. Mosul, Iraq 2016.

Tutte le immagini © Paolo Pellegrin / Magnum Photos.

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