Parole e immagini (3) / Qui Odessa. La città che ride

21 aprile 2022

 

Don’t Worry Be happy, una canzone di Bobby McFerrin nata giocando in sala di registrazione, è la versione newyorchese di Keep Calm and Carry On, lo slogan stampato dal governo britannico nel 1939 in un poster da due milioni e mezzo di copie. Sembrerebbe un motivetto da cantare sotto la doccia, non sotto le bombe, e fa venire un’espressione leggermente ebete sia a chi lo canta che a chi lo ascolta: il manifesto di una piccola felicità a priori da usare come un patetico scudo di cartone. Eppure a Odessa l’hanno usata sotto un cielo che promette morte. In un video che gira in rete, cinque soldati di una banda militare vestiti in mimetica e col berretto di lana nero soffiano tristemente negli ottoni davanti a un muro di sacchi di sabbia che sbarrano la strada, all’incrocio fra Lanzheronovskaja e Richelievskaya. Sullo sfondo c’è il teatro dell’Opera, ci sono le bandiere gialloblu che guizzano e un cielo praticamente nero. L’effetto è bizzarro, una cacofonia dell’anima.

 

L’immagine mi si è appicciata sotto la retina, ora non potrò più ascoltare l’attacco della canzone senza ricordare queste immagini. La musica è un materiale instabile, assorbe tutto, e a questo giro la canzone ha preso un sapore plumbeo – il contrario di quello che afferma. È un dito medio alzato contro il cielo senza troppa convinzione, ma poi – ho pensato – è anche l’affermazione orgogliosa di una città che dell’umorismo, della battuta di spirito sempre pronta, di un accento cantilenante ben riconoscibile nella babele di lingue e culture dell’impero russo prima e sovietico poi, di un sorridere della vita che si ferma subito prima del disincanto e vira verso una forma di intelligenza superiore in cui gli schematismi della realtà sfumano verso un’accettazione saggia e ironica, diventando vicinanza, e infine joie de vivre, ha fatto i suoi tratti distintivi.

 

17° giorno dell’invasione. Sole. Neve. La città amata.


È la cifra di una città di ristoranti e musei, di passeggiate e concerti nei gazebo, di villeggianti che vengono a scaldarsi le ossa in spiaggia, qualcuno anche a innamorarsi per il tempo di una vacanza. Di una città di artisti, poeti, scrittori e dell’intellighenzia nella sua accezione più tipica e compatta. Della città del grande pianista Richter, la cui mamma con diligenza percuoteva con un bastone le mani del futuro grande pianista, sarà poi vero? Della città di Pushkin, che qui soggiornò con gusto, si diede alla mondanità spensierata e scrisse lunghe parti dell’Oneghin (ci torneremo). Della città delle canzoni della mala e della Moldavanka, il regno di piccoli ladri e grandi avventurieri.

 

Della città di Babel’ e di Zhvanetzkij, lo scrittore satirico più grande e profondo dell’età sovietica, colui che seppe infilare una spina surreale nel fianco del racconto ufficiale dell’homo sovieticus, portando l’ironia ebraica a diventare koiné ben oltre i confini di Odessa. Di una capitale della cultura come Roma o Napoli, città in cui la filosofia dei portinai, dei camerieri, dei netturbini, dei guidatori di taxi e dei parcheggiatori alimenta un pensiero tagliente che si libra sui millenni di storia come se fossero rotocalchi ingialliti. O come Buenos Aires e Trieste, città marittime più metafisiche e misteriose, in cui la presenza del mare apre a un ventaglio di possibilità assai più ampio rispetto a chi ne è privo. La cifra di luoghi di transito in cui si ride di tutto, la battuta non si ferma nemmeno ai funerali, la vita è laica sempre.

 

Di città abituate a sprofondare ogni giorno nelle proprie contraddizioni e afasie, e a rinascere ogni giorno, in cui lo sguardo ironico diventa identitario rendendo il loro scafo inaffondabile. Le barzellette ebraiche di Odessa sono miniature filosofiche che fanno ridere anche prima di finire proprio per lo sguardo antitetico ai disastri della vita. Odessa è la città dove un signore con gli occhiali indossa la giacca e la cravatta e un bell’impermeabile per camminare accanto al muro di una fabbrica un po’ inutile.  Non saprei dirvi il perché, ma quel signore con la cravatta e gli occhiali spessi vagamente sovietici mi fa ridere. Così, se mai un ordigno dovesse colpirlo dall’alto, lui almeno ha la cravatta. La vita è già dura di suo, perché non riderci sopra? La guerra è anche questo: ridimensionare la portata degli assiomi dell’esistenza.

 

28° giorno dell’invasione. Lena Simbirskaja e le sue figlie.


– Moishe, come stai?

– Bene. E tu?

– Bene. Ho fatto un affare. Sono andato al mercato e ho comprato un uovo per 3 copechi. Sono andato a casa e l’ho bollito. Poi sono tornato al mercato e ho rivenduto l’uovo sodo per 3 copechi.

– Ma che cosa ci hai guadagnato?

– Il brodo.

 

Sembra che tutta la città si sia data al volontariato. Non ci sono solo i grandi fatti della guerra, ben coperti dai media, ma anche i piccoli fatti portati avanti da moltitudini di persone che si sono consorziate e si aiutano in silenzio, come possono, con tutto ciò che possono. Ieri sono rimasta colpita da una signora anziana, a cui avevo consegnato delle medicine a casa. Mi ha detto: “Trovate qualcosa da fare anche per me!... Non posso uscire di casa, ma posso tenere la contabilità, o anche solo fare delle telefonate. Voglio essere utile anch’io…” Anche Lena Simbirskaja fa volontariato. Tiene lezioni gratuite di psicologia e creatività sia a bambini che ad adulti. Ci siamo conosciuti per caso. In questo mese ho “conosciuto per caso” centinaia di persone straordinarie, vorrei raccontarvi di ciascuno di loro…

 

L’umorismo di Mikhail Zhvanetzkij è la perfetta espressione culturale della sua città d’origine, Odessa. Non potrebbe essere altrimenti. Scriveva testi di satira chiamati ‘miniature’, che poi leggeva in teatro tenendo i fogli in mano. Il format si chiama konzert, immaginate una stand up comedy sul palco di un teatro invece che in un locale fumoso. Il ping pong è questo: l’autore legge lasciando pause generose al dilagare della risata, il pubblico risponde ridendo fino alle lacrime. All’inizio Zhvanetzkij faceva leggere ad altri attori più bravi di lui, ma via via che è diventato famoso è arrivato a leggere anche lui la sua prosa corrosiva che rimesta con impietosa ma sempre garbata intelligenza nell’umiliazione della vita sovietica e dell’intraducibilissima parola byt (celebre il verso di Majakovskij La nave dell’amore si è infranta contro il byt). Anna lo conosceva di persona e mi racconta di due miniature che si sono rivelate più che attuali. In una si dice che è odioso leggere le notizie il giorno stesso, fanno prendere paura, meglio leggere le notizie di due giorni prima, così uno pensa: “Beh, dai, le cose si sono un po’ sistemate.” Nell’altra, si dice che gli stupidi si sentono sempre circondati dai nemici.

 

Quando penso all’arte drammatica, la prova dell’attore che suscita in me maggiore ammirazione è quando ridono fino alle lacrime, il cosiddetto fou rire, e poi ci sono quegli attimi di sospensione, di esitazione, come nel tango quando il piede brancola nel vuoto alla ricerca di appoggi invisibili o al mare si protende sul pelo dell’acqua per tastarne la temperatura, prima che la voce atterri in un pianto prima timido, incerto, appena abbozzato, e poi via via fragoroso come un fiume in piena. Arte suprema. Stai guardando il lato di una medaglia, e di colpo te ne fanno vedere un’altra.

 

52° giorno dell’invasione. Un signore elegante cammina lungo il muro di una fabbrica di conserve.


Ogni giorno queste donne di Odessa lavorano alla confezione di teli mimetici di diversi metri di lunghezza. Utilizzano tessuti che si trovano in commercio e che loro scelgono in base ai colori per garantire l’efficacia dal punto di vista militare, ma anche in base a criteri estetici. Uno potrebbe domandare che senso abbia preoccuparsi in guerra della bellezza. Invece ha senso, eccome se ha senso. Le nostre donne sono abituate a realizzare con le proprie mani cose solide e anche belle. Lavorano in una stanza con solo luce artificiale, e per di più scarsa. Ma i loro volti sono luminosi. Mi ricordano le Dee del destino con i loro telai, nelle varie mitologie hanno un nome differente: sono le Moire presso gli antichi Greci, sono le Norne presso gli Scandinavi e sono le Sudzhenidzy presso gli antichi Slavi. Nomi diversi ma stessa sostanza: rappresentano l’azione calma e infallibile del fato, il carattere irreversibile delle sue decisioni. Nella stanza aleggiano sorrisi, sconfinata dignità e naturalmente un gatto. A Odessa non manca mai un gatto al centro della scena. Queste donne rendono la pace più vicina.

 

L’accesso di fou rire più squassante che io ricordi l’ho avuto proprio guardando alla televisione uno dei pezzi più amati di Zhvanetzkij, il monologo Raki (“Gamberi”) letto da Roman Kartzev, diventato un fatto idiomatico per intere generazioni di fine secolo. È un capolavoro di realtà ridotta all’osso che conduce inesorabilmente alle lacrime in una manciata di secondi. Il piacere dell’iterazione infantile ossessiva. Un valzer delle tre corde. Un cervello flippato che parla con se stesso o un coro di voci che cozzano nell’aria? Per chi conosce la letteratura sovietica, potrei evocare il nume di Daniil Kharms con la sua stralunata versione della vita senza capo né coda, il gusto del paradosso, la frantumazione della logica e gli echi inconsapevoli di Rodari e Borges.

 

La cosa più vicina a Zhvanetzkij che abbiamo noi (e non poi così vicina) è la comicità di Cochi e Renato, forse: il comico che si stupisce delle sue stesse battute, come se fosse capitato lì per caso. Ma si sa, la comicità è una delle cose più difficili da esportare in altre culture, non esistono corsi universitari di comicità comparata. Nel video d’archivio il regista inquadra i volti degli spettatori che ridono disperati, una donna si mette le mani nei capelli tanto fa ridere, e piangere. Riso amaro. Scorro i commenti delle persone in rete. “Un monologo fatto di tre frasi, e il pubblico è steso. Geniale.” “Non ha un rublo in tasca, eppure continua a negoziare con se stesso.” “Leggendario.” “Il senso è che l’autore ci tiene costantemente nella convinzione che il suo eroe sia di fronte a una scelta, per quanto relativa. E solo alla fine capiamo che non ha alcuna scelta (‘non ho nemmeno un rublo’).” “Ho sentito tante volte citare queste battute da persone 2 o 3 volte più grandi di me, non li avevo mai capiti, ora invece sì.” “Riguardarlo a distanza di tempo fa male.” “Il segreto di questo pezzo è che ha catturato perfettamente l’intonazione di un uomo sovietico in coda.”

 

Ieri ho visto i gamberi a cinque rubli.

Però grandi, però a cinque rubli..

Davvero, erano grandi…

però a cinque rubli…
ma in compenso molto grandi...
sebbene a cinque rubli…

davvero, anche a cinque rubli…

ma almeno grandi…

almeno a cinque, ma grandi…

mentre invece oggi erano fuori a tre,

ma piccoli, ma a tre…

ma piccoli…

però a tre…

però molto piccoli…

per questo a tre…

però piccoli

ma almeno a tre…

invece che a cinque, ma grandi…

però a cinque…

ma molto grandi.

 

46° giorno dell’invasione. Un gruppo di donne si trova per realizzare teli mimetici da mandare al fronte.


Dicevo di Cochi e Renato, e a proposito di animali al mercato pensavo a quella canzone assurda scritta da Jannacci e uscita nel 1972 in cui si parla di galline non tanto intelligenti, La Gallina. Quella canzone era furba, usava le galline per dire che non siamo tutti intelligenti. Peraltro nessuno ha ancora capito cosa sia con esattezza l’intelligenza, ci basti classificarla come parola guizzante che mette di buon umore. La canzone è tanto crudele, le galline sono carne da mangiare. In controluce, vedo le galline nelle gabbie degli allevamenti intensivi come metafora del capitalismo occidentale starnazzante e vacuo, e i gamberi che sopportano pene indicibili in grandi calderoni di ghisa annerita in cui si ritrovano a bollire senza scampo come metafora del comunismo fallito e depressogeno. Se fossimo in una favola distopica ispirata a Esopo o a Aristofane, l’attuale conflitto sarebbe una guerra fra gamberi con tanto di placche corazzate e decorate con il segno zeta, e galline allegre e un po’ spensierate. Anche qui il materiale sembra instabile, forse dovremo rivedere il giudizio sull’intelligenza delle galline. Solo perché le mangiamo, non vuol dire che siano stupide. Anzi, parrebbe vero il contrario, anche loro hanno un cervello sinistro e uno destro e si tramandano informazioni di generazione in generazione. Tutto da riscrivere.

 

La gallina
Non è un animale
Intelligente
Lo si capisce
Lo si capisce
Da come guarda la gente.

 

Privoz, il mercato di Odessa. Bakho è un abkhazo di buon cuore, fa fatica a camminare ma da seduto sa badare bene al proprio banco della frutta. Da lui si comprano melograni, spezie e noci. Mentre parliamo, il sorriso lascia spazio alla tristezza. È già successo una volta nella vita di dover scappare. Sono arrivati a Odessa. Erano in sei e avevano una sola tazza: dovevano bere il tè a turno! Nell’arco di vent’anni si sono sistemati, hanno messo in piedi i figli, e ora dove mai potrebbero scappare? Da nessuna parte, e non c’è motivo. Odessa è la loro casa comune. È così, Odessa è una casa comune, e a noi tocca difenderla.

 

Ci sono cose che fanno ridere. Come dice Giorgio Arfaras, è la prima volta nella storia che una serie televisiva di finzione si è trasformata in realtà politica. Fa un po’ ridere che per gli strani intrecci geolinguistici di una partita di Risiko finita male un presidente debba imparare velocemente la lingua della sua nazione dopo essere stato eletto, senza menzionare il fatto che lo stesso Zelenskij avesse iniziato la sua scalata pubblica come comico. Il dramma della guerra, per quanto mi riguarda, lo ha reso un homo novus. Conta ciò che succede ora, il suo passato resta schiacciato sullo sfondo.  

 

E poi lo so, ci sono la guerra, l’angoscia, l’attesa, che non fanno ridere affatto. Ma la vita è già dura di suo, perché non riderci sopra? Don’t Worry and Carry On.

 

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