Parole e immagini (2) / Qui Odessa. Il pane delle donne

14 aprile 2022

 

Ljudochka ha ventiquattro anni. Nel tempo libero fotografa, e lo fa con molta passione. L’ho vista immersa dentro un raggio di luce e mi sono ricordata dell’eroina di Vermeer. Mi piace quando la fotografia rimanda alle opere d’arte, non quando le copia ma quando assorbe dentro di sé l’esperienza della cultura. A differenza della pittura, la fotografia è la cattura di un istante. Non c’è possibilità di ripetere, o di ridipingere. Luce, condizioni e un lampo: è tutto quello che hai per trasmettere allo spettatore ciò che ti ha spinto a premere il pulsante dell’otturatore.

 

La guerra induce spostamenti più o meno percettibili sul piano del linguaggio. In questi giorni, espressioni che prima utilizzavo senza problemi, di colpo diventano non più agibili. “Un’esplosione di felicità.” “Un boato di gioia.” E poi quella pletora di espressioni mutuate dal codice militare che si usano nelle discipline economiche e del commercio come “penetrare”, “target”, “presidiare”, “arruolare”, “prima linea”, “fronte”… Erano metafore efficaci, ora si parano davanti agli occhi come immagini crude tout court. Di colpo, l’immaginario si è ripresentato come realtà. La guerra cambia il significato delle parole, rimescola le carte, scioglie antichi fantasmi. Prendiamo la parola “invasione”. Fino a poco tempo fa era relegata all’ambito clinico, quello dei bollettini della pandemia, dei referti medici, degli agenti virali che assaltano organismi umani per colonizzarli e azzerarli. Ora, affiorano antiche paure legate a un nemico sconvolgente e primitivo, ossia non controllabile secondo le nostre leggi: i barbari. Le invasioni sono sempre barbariche. La guerra è anche questo: modificazione del linguaggio. Anna mi parla di Invasions, un progetto di un maestro della fotografia di moda del Novecento, Peter Lindbergh: foto di coppie glamour nel deserto attorniate da invasori alieni un po’ buffi, esplosioni all’orizzonte, persone che guardano all’insù in attesa della guerra dei mondi. C’è anche Milla Jovovich, la Giovanna d’Arco ucraina in versione sci-fi, molto brava a sgranare gli occhi. Don’t look up. I mostri verdi sono i barbari di ieri, con l’aggravante di una differenza biologica: assommano i fattori di rischio dei barbari e quelli dei virus. La tempesta perfetta. 

 

29° giorno dell’invasione, Le nostre ragazze, Ljudochka.

 

Ho aiutato le ragazze a fare il pane. Il lavoro più femminile, più pacifico al mondo. Luce. Pane. Calore. Marina è il fornaio inviato dagli dei. Mi piace fotografarla, sia da sola che con la sorella Irina, il suo viso illuminato mi ricorda le madonne del primo Rinascimento. Ci siamo conosciute durante una mia lezione aperta al pubblico, poi Marina e Irina hanno iniziato a frequentare il mio corso di storia dell’arte. Ora sono io a imparare da Marina come si dà forma alle pagnotte partendo dall’impasto. Quanto amore riesce a infondere nel pane seguendo le ricette di sua nonna, originaria di Priozjornoe, un villaggio della Bessarabia! Lì si cuoceva il pane in un vero forno a legna, secondo le tradizioni della cucina moldava, bulgara e ucraina. Per fare un po’ di ordine in questo heritage così variegato, da oltre un anno Marina sta scrivendo un libro di ricette e memorie familiari, facendo anche i disegni. Sognavamo che il libro potesse uscire prima della guerra, e che il mondo avrebbe conosciuto la storia di Marina, e che lei avrebbe potuto aprire la sua panetteria con caffè in cui avremmo organizzato mostre e piccoli concerti. Voglio credere che tutto ciò possa accadere ugualmente, dopo la Vittoria.

 

 

Io non avrei usato questa parola, Vittoria, e per di più con la maiuscola. Mi pare contenga un remoto germe autodistruttivo, l’hanno usata (e ne hanno abusato) condottieri che non si sono preoccupati della salute dei popoli da loro guidati, portandoli meticolosamente verso il baratro. La guerra è un’idea a somma zero: in guerra perdono tutti, come si fa a parlare di vittoria? L’unica a vincere senza contestazioni è la distruzione. Guardo le foto di Mariupol’ e penso al film Il pianista di Polanski, all’eroe che scruta una prospettiva urbana di rovine piranesiane, il magnetico spettacolo del male. Ma anche se le guerre si potessero vincere, prova a chiedere cosa pensano di questa o quella vittoria a quelli che l’hanno fatta e si sono beccati una bella sindrome post traumatica. In guerra perdono tutti, è una logica loose loose, altro che win-win. Soprattutto in questa, una guerra di popoli fratelli, impensabile prima del 24 febbraio. Eppure io sono qui, al calduccio, mentre Anna è lì sotto le bombe. Ieri il Cancelliere austriaco ha parlato di vittoria morale dell’Ucraina. La fotografia insegna che per ascoltare un luogo devi essere lì. Potrei non avere ragione. Anche in questo caso, il significato delle parole potrebbe dipendere da dove uno si trova, latitudine e longitudine, distanza dal fronte, numero di parenti o amici uccisi o lasciati morire come topi negli scantinati.

 

17° giorno dell’invasione, Giovane soldato accanto a una barricata.

 

La guerra non cambia solo l’usabilità delle parole, riapre ferite recenti sul piano sociale. La pandemia ha rappresentato in Italia un trauma sul piano della conversazione collettiva. Una linea di demarcazione ad alto voltaggio che ha attraversato amicizie, coppie, amori, matrimoni, gruppi su whatsapp e associazioni di hobbisti, scavando un fossato fra chi auspicava il vaccino e chi lo temeva. Una piccola guerra civile a cui non eravamo preparati, e che ora si ripropone con caratteristiche analoghe, opponendo chi si è schierato senza condizioni al fianco della causa ucraina e chi cerca di essere più freddo, attenendosi a una Realpolitik che bandisce i sentimenti dalla discussione.

 

 

Durante i mesi del Covid, una volta ricoverati e trovandosi a contatto con la tragedia, diversi antagonisti del sistema hanno poi cambiato posizione. Nessuno vuole intenzionalmente una guerra, ma è più facile sottrarsi al conflitto se si resta lontano dal teatro di guerra. Se non sei mai stato in un gulag, o non leggi i libri che li raccontano, sarà più facile adagiarsi in un’autoverità suadente e censoria. Se non sei un medico o un infermiere che lavora in corsia tutto il giorno, vedendo persone che muoiono a grappoli e strani pazienti che si strappano il tubo dell’ossigeno, sarà più facile dire che il Covid è poco più di un’influenza. Se non hai subito un attacco aereo, potesti non capire come mai chi invece lo ha subito, di solito tende a schierarsi velocemente contro chi gli sgancia le bombe in testa.

 

La guerra riduce la vita al registro binario del bianco e del nero, e il bianco siamo sempre noi, sono sempre io, dalla notte dei tempi. Ma la domanda vera è: pensiamo che sia possibile altrimenti? Chi oltrepassa il Rubicone, entra in un mondo in cui la morale si mette il giubbotto antiproiettile. Il ruolo della fotografia potrebbe essere – e dovrebbe esserlo più spesso – quello di avvicinare, di annullare la distanza e aiutarci a prendere una posizione, come si dice, a ragion veduta, e proprio per questo suo compito di traghettatore, diventa un perfetto veicolo della propaganda. La fotografia è ambasciatrice di verità, il che non vuol dire che non sia manipolabile. Tutto è manipolabile, e i regimi totalitari hanno sviluppato expertise sconfinate, con le quali sovvertono la realtà a tal punto da farci dubitare della stessa esistenza della verità. La fotografia si riscatta quando fa suo uno sguardo di pena verso i perdenti, lo stesso sguardo che ha avuto Eschilo quando ha scritto I Persiani mettendosi dalla parte degli sconfitti. E in guerra, abbiamo detto, sono tutti sconfitti. (Peraltro, a Salamina, una piccola potenza occidentale sconfisse un grande impero dell’Asia.)

 

16° giorno dell’invasione, Il peso della guerra.

 

Nel mondo ci sono milioni di fotografie. Una persona si sofferma solo su quelle immagini in cui ciò che ha colpito il fotografo trova una qualche risonanza nella sua anima. Tutti noi siamo sostenuti dagli stessi valori: bontà, sincerità, calore, armonia. E questo è ancora più vero quando le cose vanno male. Per questo mi sono sentita attratta da questo forno, e mi piace venire qui a fare il pane. Il forno emette calore. Le donne fanno il mestiere più antico della civiltà. Come l’arte, senza la quale non esisterebbe nemmeno la civiltà. Il mondo poggia su questa congruenza, sulla semplicità e sull’armonia, mi pare.

 

 

Come si guardano le foto che non hanno solo un fine informativo o di propaganda? Bisogna allentare la presa, lasciare lasco il guinzaglio della logica. Le fotografie poetiche hanno una vita autonoma che sfugge al nostro controllo, e anche al controllo di chi le ha realizzate. Vivono di vita propria e amano incontrarsi a nostra insaputa. Come i giocattoli della fiaba di Andersen Il soldatino di stagno, in nostra assenza le fotografie si parlano, si svelano, si influenzano. Creano dei sovramondi in cui la rigidità del mondo primario lascia il posto a un dormiveglia dagli esiti imprevedibili. Mondi paralleli. Si danno le condizioni della meccanica quantistica, quelle che rendono possibile una meraviglia della tecnologia come il computer quantistico in cui il ragionamento procede per sovrapposizione, non per esclusione, e oggetti che manco si dovevano incontrare, si incontrano, si legano e si influenzano. È un mondo di ampie vedute che fa proliferare le possibilità. Provo a spiegarmi meglio.

 

In un mondo quantico, il giovane soldato pensoso (di cui non sappiamo nome, età, luogo, missione, nulla, e solo per miracolo l’addetto stampa del suo reparto ha consentito ad Anna di scattare la foto), dopo una notte di guardia alla Fortezza Bastiani in attesa di un nemico che arriva dall’altopiano iranico con le sembianze di orchi, si infila in un caffè e incontra Ljudochka. Fantastica sui suoi seni da cerbiatto, sul profumo di violetta che probabilmente alberga alle loro radici e sul loro eventuale colore lattiginoso associato al calore evanescente del pane appena sfornato, e decide seduta stante di innamorarsene. La sera stessa la chiede in sposa. Dopo la guerra vanno a vivere in una casa un po’ fatiscente e piena di scricchiolii in cui le voci altissime che arrivano dal cortile ti fanno sentire sul set di un film del Neorealismo.

 

39° giorno dell’invasione, Il cielo di oggi.

 

Dentro la casa vive la nonna Sofia che cucina per tutti come uno chef stellato, a qualsiasi ora del giorno e della notte, e quando non cucina racconta dei suoi travolgenti fidanzamenti giovanili, di cui il quaranta per cento veri e il restante sessanta per cento inventati, esattamente in questa proporzione. Dal loro amore nascerà Sofia, bella, alta, ironica e con la erre francese, che imparerà la vita dal microcosmo del cortile, così eterogeneo e irrorato di intelligenza. E da grande studierà antropologia alla Sorbona o ad Amsterdam, e poi farà una tesi sull’evoluzione del didgeriddoo, e un giorno inviterà i genitori a un concerto di nativi australiani dentro una galleria d’arte tutta bianca a Londra o Parigi. Bianche le pareti, neri i suonatori seduti per terra. Bianco e nero, come queste foto. Andrà così, o comunque non possiamo escluderlo a priori. Nessuno ha le carte in mano per dimostrare che si tratti di un’opzione non praticabile. Nessuno è dio, siamo solo nel regno del possibile: la poesia, quel luogo reale in cui tutti i cambiamenti di una cosa hanno impatto sui cambiamenti delle cose con cui entra in relazione. Tutto il resto è prosaico.

 

 

Odessa è stata progetta secondo tradizioni antiche, non soltanto come un grande porto per esportare il grano senza più intermediari ma come una città per condurre una vita libera ed esteticamente appagante. Hanno tenuto conto del fattore di insolazione e della rosa dei venti; hanno tracciato vie ampie e lastricate di pietra, non di legno; hanno iniziato a piantare alberi quando ancora non c’era l’acquedotto, e si trattava di un lusso mai visto. È così che è nata la fama di una città felice, solare e adatta a una vita confortevole. Anche se in verità di giorni di sole e di bel tempo ce ne sono meno che nelle città del Mediterraneo; abbiamo spesso la nebbia e venti sferzanti e inverni freddi, ma la struttura stessa della città ci aiuta a non patirne eccessivamente. La città mantiene il calore dentro, come quel forno per fare il pane che a lungo rimane caldo. Ho sempre pensato che è facile fotografare quando c’è molta luce. Ma quando la luce non c’è? Allora devi cercare la luce dentro le persone che inquadri. E se non riesci a trovarla, allora devi cercarla dentro di te. Solo così non saranno delle stupide copie del vero, ma vita vera, la vita stessa.

 

Dovremmo diventare più consapevoli del ruolo determinante che ha l’osservatore nel processo della visione. Se miglioreremo i porti di attracco delle immagini, là dove le accogliamo, le assorbiamo e le stocchiamo, se sapremo espandere l’area dell’interpretazione e dell’empatia tenendoci lontano dalle semplificazioni e dalle mode, la cultura delle immagini prospererà e si manterrà versatile e non dozzinale. Guardare la fotografia con occhio poetico, quello che allarga le maglie del possibile, vuol dire per esempio figurarsi che una donna che fa il pane con amore e batte le mani come se fossero nacchere per far spiovere la farina dopo averla lanciata in aria, possa da sola – con un gesto antico e magnificamente preciso – cancellare le nuvole di petrolio nero che si sversano nel cielo per colpa di un missile ipersonico che ha colpito un impianto petrolchimico alle porte di Odessa. Il nero del petrolio, il bianco della farina. Il racconto si srotola in mezzo a questi due principi, poiché senza dolore le fotografie non verrebbero contrastate e senza amore la vita non avrebbe senso.

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