Qui Odessa. Blackout

9 dicembre 2022

Dopo una lunga pausa Qui Odessa riprende le trasmissioni, e lo fa con una deviazione rispetto al formato a cui avevamo abituato i lettori di Doppiozero. Invece delle cinque fotografie analogiche in bianco e nero, ecco una galleria di immagini a colori catturate da Anna con un Iphone durante le sue passeggiate serali prima del coprifuoco. C’è bisogno del buio, che comincia a venire già alle quattro, per raccontare l’assenza dell’elettricità e far sentire a fondo il gelo che si avvita nelle ossa. E forse c’è bisogno del colore per raccontare meglio le tenebre, il gelo, la rarefazione, la stasi, il sentirsi inermi e senza possibilità di difesa. Ma anche gli sprazzi di fiducia, la capacità di reagire, il desiderio dell’incontro. I testi di Anna Golubovskaja sono in corsivo, in tondo i miei. Più fotografie, meno testo, poi si vedrà.

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Mi metto a ridere. Quando una felicità da lungo attesa si rovescia su di te all’improvviso, ti senti smarrito. Alle quattro di notte hanno ripristinato la luce. Il fatto è che in questo preciso momento non so assolutamente cosa farci. Mi metto a leggere? Faccio una doccia? Nell’appartamento accanto si è messa in moto la lavatrice. Dopo un quarto d’ora, lampeggiando come per dare un saluto, la luce se n’è andata di nuovo, e tutto è tornato tranquillo. Silenzio.

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Camminando si attraversa un tappeto sonoro diffuso: i generatori, un rumore inedito nella biblioteca dei suoni della città. Il 23 novembre è arrivato il primo blackout. Corto circuito: la potenza geopolitica che si pone in continuità con l’Unione Sovietica demolisce le infrastrutture elettriche dell’Ucraina con la furia di un angelo sterminatore, dimenticando che fra i primi provvedimenti dei bolscevichi ci fu l’elettrificazione del paese. Nel 1921 il IX Congresso Panrusso dei Soviet approva il piano della Commissione Statale per l’Elettrificazione della Russia e stila l’elenco delle centrali elettriche da costruire. Negli anni successivi si stampano i poster con l’effigie di Lenin, testimonial bonario che porta la luce fisica alle masse, e lo slogan Comunismo = potere dei Soviet + elettrificazione. Lenin è più di un re taumaturgo che dona l’elettricità alla Russia, Lenin è l’elettricità. Ma un secolo più tardi la storia è andata in corto.

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La luce se n’è andata di nuovo. Non è grave. Ogni giorno porto fuori il cane, mi fermo a bere un caffè, entro in un negozio, parlo con decine di persone, di molte di loro non so nemmeno il nome. Ognuna di loro, ognuno di noi cerca di essere d’aiuto agli altri come può. Con un alimentatore, con una sigaretta, con prodotti in prestito perché molti sono rimasti senza contante e non si può più prelevare. Due ragazzi che lavorano in un bar si sono messi a discutere su chi fosse più bravo ad allestire a casa mia una qualche forma di luce provvisoria. Nessuno dei due è un elettricista, e non vogliono guadagnarci ma solo aiutare. Gente, io vi amo.

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I blackout arrivano all’improvviso, come le grandi crisi finanziarie del capitale mondo. Si assomigliano. Arrivano, mettono la vita in pausa per interminabili minuti ore giorni, poi passano, ma sai che torneranno ancora. Era il novembre 1965 quando il primo blackout famoso lasciò al buio New York per 12 ore per un piccolo guasto alla centrale idroelettrica di Niagara Falls. La sensazione è che dopo l’anno duemila i grandi blackout accadano a cadenza ravvicinata. Anna ha la cucina a gas e riesce a scaldarsi dell’acqua calda per lavarsi a pezzettini come facevo io da piccolo nella cucina di via Belinskovo 6.

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Mi ricordo il catino al centro della cucina, la grande spugna inzuppata d’acqua calda che la nonna imponeva fra collo e spalle e spremeva, facendo colare piacere puro. Poi, accidenti alla fisica, via via che l’acqua si raffreddava il piacere si trasformava in tremore. Francamente non capivo perché il piacere non si potesse far durare per sempre. Ho negli occhi il racconto di Anna su di un intero complesso residenziale appena inaugurato in cui all’interno delle case tutti i sistemi, anche i fuochi della cucina e il riscaldamento, si alimentano con l’energia elettrica. In tutto il quartiere ci sono solo due locali pubblici che hanno a disposizione un generatore. Si formano code di neomamme che corrono su e giù dai piani per farsi scaldare il biberon con il latte artificiale. Doveva essere un traguardo entrare in una bella casa nuova tutta elettrica. Qualcuno ha invertito i poli della corrente del destino, e ora sono prigioni. La vita al buio continua a singhiozzo.

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Una sera, durante il blackout, sono andata alla Filarmonica. Nella sala faceva talmente freddo che prima del concerto tutto il pubblico, me compresa, siamo andati al bar interno e ci siamo calati dosi generose di cognac. Poi ci siamo accomodati avvolti nei cappotti. Il pianista e compositore italiano Maurizio Bignone suonava il piano a coda e leggeva poesia, illuminato da scarne lampadine. In tutta la mia vita non ho mai sentito un silenzio simile durante un concerto. Nessun colpo di tosse. Nessuna suoneria di cellulare.

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Ho prestato ascolto a questo silenzio grato e per la prima volta, pur essendo consapevole che ci troviamo in una situazione meno drammatica, ho capito perché continuassero a tenersi concerti durante l’assedio di Leningrado. Prima pensavo che alle persone disperate non dovesse importare più nulla della musica. Non è così. Per persone che si sono assuefatte al ritmo contemporaneo, ritrovarsi fra quattro mura al lume di candela, senza internet, senza connessione telefonica, in un blackout delle informazioni e senza poter più comunicare, è una cosa insostenibile. La musica dal vivo al buio mi ha calmato. Mi ha dato speranza e forza.

Basta una piccola pila per leggere un libro sotto le coperte. Resistenza.

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