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Parole e immagini (6) / Qui Odessa. Le parate

12 maggio 2022

 

Mi trovo dentro un negozio per ricaricare la carta al terminale. Accanto a me c’è un uomo che sta facendo lo stesso. Gli suona il telefono. Dall’altra parte si sente una voce di donna che grida in modo isterico.

– Dove sei? Torna subito a casa!!! Dicono che nel giro di un’ora ci sarà un bombardamento a tappeto!!! Vieni subito!!!

Lo osservo. In pochi istanti l’uomo forte e giovane si scolla. Il portafoglio gli cade a terra. Cambia di posto alle chiavi, ma subito dopo comincia a tastarsi il corpo per ritrovarle. Diventa grigio. Gli manca il respiro. Sta male. Decido di intervenire. Gli dico di non dare retta, è solo un fake, e di non credere a nessuno se non ai nostri. E i nostri ci avvisano quando vedono arrivare i missili. Apro una bottiglia d’acqua. Poi vado su telegram e gli faccio vedere la pagina, non c’è nessun allarme. Beve, sembra calmarsi. Capisco che le persone sono diverse. Qualcuno tende a credere ai fake. Ma è ciò che vogliono – spezzare lo spirito, obbligarci ad avere paura. Per favore, non prestatevi al gioco.

 

La guerra invade lo spazio mentale, non riesci a pensare ad altro. È un’occupazione sorda, inesorabile. Succede a noi, figurarsi a chi è nel raggio d’azione del nemico. Ogni pensiero, ogni evasione, ogni distrazione che non riguardino il bollettino dei morti e l’umiliazione dell’essere violati a casa propria sono un atto di resistenza umana. Ma alla sera il bilancio è magro, bombe invisibili continuano a cadere dentro la mente. La guerra è naturalmente anche questo: toglie la libertà di decidere a cosa pensare. In tempo di pace si è bombardati da informazioni. In tempo di guerra si è bombardati. La mente si sfibra a pensare le stesse cose per settimane, mesi. L’agenda dei pensieri è monocorde. Il reinserimento nella normalità è lungo, lo raccontano gli educatori che hanno a che fare con i bambini ucraini riparati in Italia. Chissà a cosa sta pensando con gli occhi chiusi Dmitrij. La barba gli conferisce un volto da filosofo.

 

29° giorno dell’invasione, Al mercato.


Filosofia è la parola della settimana. Nel video diffuso dal governo ucraino il 9 maggio, il premier Zelensky cammina nel centro di una Kiev totalmente vuota. È dentro la parte, conforta, incita, plaude al valore militare dei suoi, scaglia anatemi contro il nemico. Capisco l’intenzione ma lo accolgo con più distacco di Anna. Per me è un manufatto di comunicazione. Per lei è il discorso di un capo autorevole che adempie al suo dovere. A me evoca la messa solitaria di Papa Francesco sotto la pioggia durante la recente pandemia, e mi pare essere influenzato dai codici del cinema. In entrambi i video potrebbe esserci stata la mano di un Sorrentino: lentezza, compiacimento, stile perfetto, precisione del dettaglio e anche dell’insieme. Il tappetino di musica per pianoforte appoggiato sotto le immagini mi innervosisce. Per lei è ininfluente. Fa riflettere il fatto che la percezione estetica di un avvenimento o un oggetto possano variare a seconda di quanto lontano ci si trovi dalla linea del fronte.

 

9 maggio. Zelensky cammina per la via centrale di Kiev, Khreschatyk. È solo. Espone la sua persona. Non indossa il giubbotto antiproiettile. Sa che non si può escludere un attentato alla sua vita. È un uomo che mostra il volto, in antitesi a una macchina senza volto e una visione disumana. Si rivolge a ciascuno di noi senza pathos. Parlando del filosofo del 700 Skovoroda, del bene, dell’importanza di ogni singola vita e della libertà, Zelensky passo passo arriva a dire la cosa più importante. Abbiamo vinto allora, 77 anni fa. Vinceremo anche oggi. Non abbiamo scelta.


Zelensky ha adoperato con enfasi la parola “filosofia”.  Ha inteso dire che l’aggressione militare è un attacco contro un sistema di vita scelto liberamente dagli Ucraini. Almeno per una volta non è stato utilizzato il frusto ‘stile di vita’. Il tono ricorda quello di Pericle quando nell’Epitaffio in onore dei caduti della II Guerra del Peloponneso, secondo Tucidide avrebbe detto: “Noi Ateniesi o giudichiamo o, almeno, ponderiamo convenientemente le varie questioni, senza pensare che il discutere sia un danno per l’agire, ma che lo sia piuttosto il non essere informati dalle discussioni prima di entrare in azione.” Dovrebbe risultare intuitivo capire chi fra la Russia e l’Ucraina Zelensky consideri Sparta, e chi Atene. Parola – filosofia – che invece non si è vista sfilare nel corteo militare sulla Piazza Rossa del 9 maggio. Lì i tempi sono televisivi, trionfa il fascino della divisa in tutte le sue declinazioni, da quello cromatico e strutturalista a quello erotico. La parata è un atto di devozione, una liturgia. Non ha niente a che vedere con la guerra reale, che impasta sangue, morte, merda, grida disperate, armi chimiche, crudeltà oscene e oscene menzogne. La parata è un fake. Da sempre. E non è detto che siano gli eserciti più equipaggiati e pettinati ad avere la meglio in battaglia.

 

Il 9 maggio, a Odessa, c’è l’uso di andare a portare i fiori al Fuoco perpetuo, sotto il monumento al Marinaio ignoto. E poi al cimitero per rendere omaggio ai parenti che hanno sconfitto il fascismo nel 1945. Per dire che ricordiamo con gratitudine i nostri morti, vittime della guerra. I fuochi d’artificio alla sera erano gioiosi, carichi di vita, e pacifici. Per questo, i quadrati neri sulla piazza Rossa non riesco ad associarli ad altro che alle parate naziste. È una parata di assassini, un’esibizione di forze oscure che si preparano per venirci ad ammazzare. E non posso chiamare altrimenti che cinismo la deposizione di fiori sulla pietra con la scritta “Odessa città-eroe” da parte di Putin al mattino, seguita al pomeriggio da un tremendo bersagliamento di razzi su Odessa. Un vasto incendio si è portato via un’altra vita. Il fumo e le lingue di fiamme in cielo si sono visti in tutta la città. Fuochi d’artificio del Male.

 

Mentre guardavo distrattamente le immagini del revanscismo staliniano sulla piazza Rossa, non ho trattenuto i pensieri (senza bombe che cadono è più facile). Ho pensato che sul piano fenomenologico il corteo può ricordare quella tipologia di carcere chiamata panopticon: coloro che sfilano sono i prigionieri, ossia non hanno accesso alla vista d’insieme, il loro ruolo è solo quello di essere guardati e comandati. Le personalità in tribuna invece hanno esattamente questa facoltà: possono guardare tutto. Ho pensato poi che la parata è anche un inventario per addetti ai lavori ed esperti di faccende militari, un’elencazione di beni. Infine mi sono chiesto se oltre al video di Zelensky, che vuole scrivere la sua controstoria – la storia dell’Ucraina – che cosa avrebbe potuto contrapporsi idealmente alla parata che ogni anno rovina il manto stradale della capitale dei russi?

 

55° giorno dell’invasione, Dmitrij Gomberg.


La canzone di Nina Simone Ain’t Goo No, I Got Life è del 1968. Quando la canta a Londra per la prima volta, Nina Simone ha 35 anni e un incontenibile sentimento della giustizia. Tre giorni prima è stato assassinato Martin Luther King, perciò la canzone è dedicata a lui. La genesi di questo inno alla fierezza dei Neri americani è singolare. È la crasi di due diverse canzoni tratte dal musical Hair. Nella prima si fa un elenco di tutto ciò che i Neri d’America non hanno, incluso dio, acqua, scarpe, sigarette, lavoro eccetera. Chiamiamola parte destruens. Nella seconda, la parte construens, si canta di ciò che hanno: il naso, le dita, le gambe, il sangue, lo spirito… Saldare le due canzoni è un colpo di genio. Il ritmo è “ostinato e martellante.” La tecnica dell’elencazione genera l’effetto di “serie infinita” cui parla Umberto Eco in La vertigine della lista. Durante l’esecuzione della prima parte, Nina Simone sembra distaccata, come se leggesse un elenco. Mentre nella seconda, gli occhi della cantante si inumidiscono. Nelle tante esecuzioni successive, Nina Simone non ha mai smesso di fare variazioni sul testo. Dunque, un inno dalla parte degli ultimi contro un’ostentazione autarchica di tecnologie, pezzi di ferro e comparse. Una perfetta controparata filosofica. Anche qui c’è un inventario. Ma la filosofia è più forte delle bombe perché te la puoi portare via. È come un tappeto dei nomadi: lo arrotoli, lo metti nel bagagliaio o sul dorso di un animale, e poi vai a ricostruire altrove.

 

Ain’t got no home, ain’t got no shoes
Ain’t got no money, ain’t got no class
Ain’t got no friends, ain’t got no schooling
Ain’t got no wear, ain’t got no job
Ain’t got no money, no place to stay

Ain’t got no father, ain’t got no mother
Ain’t got no children, ain’t got no sisters above
Ain’t got no earth, ain’t got no faith
Ain’t got no touch, ain’t got no god
Ain’t got no love

Ain’t got no wine, no cigarettes
Ain’t got no clothes, no country
No class, no schooling
No friends, no nothing
Ain’t got no god
Ain’t got one more

Ain’t got no earth, no?
No food, no home
I said I ain’t got no clothes
No job, no nothing
Ain’t got long to live
And I ain’t got no love

But what have I got?
Let me tell ya what I've got
That nobody’s gonna take away

I got my hair on my head
I got my brains, I got my ears
I got my eyes, I got my nose
I got my mouth, I got my smile

I got my tongue, I got my chin
I got my neck, I got my boobies
I got my heart, I got my soul
I got my back, I got my sex

I got my arms, I got my hands
I got my fingers, got my legs
I got my feet, I got my toes
I got my liver, got my blood

Got life, I got my life.

 

76° giorno dell’invasione, Dimostrazione di Irina Balan della copertura mimetica per cecchini fatta in fibre ricavate dai sacchi di polietilene.


Tante volte da bambino a Odessa ho assistito al cambio della guardia presso il monumento del Marinaio ignoto. Il picchetto doveva percorrere col passo dell’oca la leggera discesa dell’Alleja Slavy (Viale della Gloria), e poi andava in scena un complesso ed estenuante passaggio di consegne. Nel drappello c’erano sia ragazzi che ragazze di età liceale. Credo venissero dagli Istituti nautici perché indossavano divise della Marina, col kalashnikov imbracciato bello stretto al petto, le ragazze con grandi fiocchetti azzurri nei capelli che le facevano sembrare delle gigantesche falene. Concentrati, sorridenti, forse avranno avuto qualche benefit di ritorno da questa attività di volontariato. Però l’atmosfera di sacralità era garantita.

 

Un giorno, ed ero poco più che un ragazzino, chiesi al padre di Anna, Evghenij Golubovskij: “Ma perché i sovietici sono così attaccati alla memoria della II Guerra mondiale?”. La risposta fu lunga e appassionata, la ricordo a distanza di tanti anni. Il succo è che le persone prima della guerra erano disperate. Lo stalinismo aveva messo gli uni contro gli altri, i padri non si fidavano dei figli, i mariti non si fidavano delle mogli, di notte arrivavano i funzionari dell’NKVD ad arrestare le persone. La fiducia era stata rasa al suolo, si assisteva a un completo sfibramento morale del Paese. Poi Stalin dovette chiedere aiuto alla Chiesa ortodossa per fronteggiare l’invasore. La mobilitazione collettiva delle coscienze fu registrata come allentamento del tallone di ferro politico e le operazioni di disinfestazione ideologica furono momentaneamente sospese. Tutti al fronte! La mobilitazione collettiva verso un nemico esterno generò solidarietà, fece tornare la fiducia nelle famiglie, sui posti di lavoro, attraverso le generazioni. Le persone riscoprirono la bontà. E poi quella guerra fu vinta, anche se a un costo spropositato, ed era tutt’altro che scontato. Quel ritrovarsi, quel recupero delle relazioni sociali rappresentò una forte discontinuità rispetto al baratro dello stalinismo degli anni bui. Pur fra mille difficoltà e distinguo, dai veterani e dalle loro storie arriva l’eco di un ritorno alla vita normale. Il paradosso è che oggi quei valori ideali sembrano essere traslocati nel campo avversario. Il liberatore di ieri è l’invasore di oggi. La macina gira.

 

54° giorno dell’invasione, Merce destinata al mercato.


Ho il cuore pesante prima del 9 maggio. Di giorno, per la prima volta ho visto come hanno abbattuto un missile. Non dirò dove, ma c’erano molte persone. Per il rumore dell’esplosione sono sobbalzate, e poi hanno guardato a lungo come la piccola nuvola bianca in cielo si stesse sciogliendo. Ci spaventano. Ma io non guardavo solo verso l’alto, ho guardato anche i volti. Tutti hanno tirato un respiro di sollievo per il fatto che fosse stato colpito. E poi ho visto un’espressione di odio, non di terrore.

 

Nella grandiosa parata per la Vittoria dell’Armata Rossa, che si tenne il 24 giugno del 1945, sfilarono oltre 2.800 ufficiali tedeschi fatti prigionieri. In una scena che è ossessivamente riproposta nei film documentari, file di soldati ammonticchiarono 200 vessilli dei reggimenti tedeschi ai piedi del Mausoleo di Lenin, e diedero loro fuoco. 

 

Tremano i vetri, da tanto forte è stata la botta.

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