Realtà virtuale

8 Dicembre 2015

“Il vedere viene prima delle parole. Il bambino guarda e riconosce prima di essere in grado di parlare. […] È il vedere che determina il nostro posto all’interno del mondo che ci circonda; quel mondo può essere spiegato a parole, ma le parole non possono annullare il fatto che ne siamo circondati”. Inizia così John Berger in Questioni di sguardi, uno di quei libri fondamentali per capire meglio come si forma la nostra percezione del reale.

 

Se il vedere viene prima delle parole, lo sguardo poi però si costruisce storicamente, strato dopo strato, influenzato da ciò che sappiamo, che crediamo e da quello che sentiamo, sia come individui sia come collettività. La vicenda delle arti visive, della rappresentazione in immagini della realtà, non può che riflettere la successione di questi sguardi impregnati di storia. Nel primo capitolo del libro, Berger prende in considerazione, ad esempio, il codice visivo della prospettiva, che nasce nel Rinascimento e che fa del singolo occhio, posizionato in un luogo ben preciso, il centro del mondo visibile. È una convenzione propria dell’arte occidentale, l’espressione di un’intera concezione del mondo, dell’uomo, del suo rapporto con il divino. Che cosa succede quando nasce la fotografia? L’invenzione della macchina fotografica rovescia il tavolo e cambia nettamente il modo di vedere le cose. “La macchina fotografica rivelò che la nozione di scorrimento temporale è inseparabile dall’esperienza visiva. Ciò che vedevi dipendeva da dove eri e in quale momento. Ciò che vedevi aveva a che fare con la posizione che occupavi nel tempo e nello spazio. Non era più possibile pensare che tutto convergesse nell’occhio umano come nel punto di fuga all’infinito. […] La macchina fotografica – e più specificamente la macchina da presa – dimostrarono che il centro non esiste”.

L’occhio meccanico, il cine-occhio di Dziga Vertov, poteva mostrare il mondo in un continuo movimento e da prospettive del tutto insolite. Iniziava così un modo completamente nuovo di percezione e di rappresentazione. A che punto siamo ora nell’evoluzione della storia dello sguardo? La fotografia ci mette di fronte a delle tracce, tracce di realtà tradotte in apparenze. Con il video ogni fotogramma, ogni rettangolo messo in sequenza è una finestra attraverso la quale possiamo vedere altri mondi. In entrambi i casi il meccanismo della fruizione presuppone che io sia qui a guardare, dall’esterno, ciò che qualcun altro ha prodotto attraverso la scelta di una determinata angolazione e di un determinato punto di vista. L’ipermedialità, la tensione sempre crescente verso l’interattività, spinge però ormai da anni per l’allargamento dei limiti di quelle finestre.

 

Il 5 novembre scorso il New York Times Magazine pubblica un articolo dal titolo “Virtual Reality: a new way to tell stories”. Il numero della settimana è dedicato alla crisi globale dei rifugiati e si concentra, in particolare, sulle storie di tre bambini in 3 diversi luoghi di crisi nel mondo: un campo profughi siriano in Libano, un accampamento nel Sudan del Sud e un villaggio distrutto dalla guerra nell’Ucraina dell’Est. Le loro storie sono raccontate in un progetto di documentario multimediale che comprende articoli, interviste, reportage fotografici e, soprattutto, per la prima volta nella storia della rivista, un film in realtà virtuale dal titolo The Displaced. Il magazine lancia anche un’app in cui sono raccolti i progetti di realtà virtuale finora realizzati e ai suoi abbonati fa recapitare a casa, oltre alla rivista, un bel visore Google cardboard per poter fruire a pieno di un giornalismo “immersivo” a 360 gradi. Il New York Times non è il primo ad aver realizzato un documentario di questo tipo. A metà settembre l’agenzia siriana di news SMART ha lanciato The Battle of Northerh Syria un video, realizzato ricreando la prospettiva a 360 gradi, che porta lo spettatore in giro per le strade di una Damasco distrutta dalla guerra. Nello stesso periodo l’ABC ha lanciato l’ABC News VR, la sua piattaforma di realtà virtuale, con un video che racconta la lotta dei siriani per la difesa del loro straordinario patrimonio artistico.

 

Dal film in realtà virtuale Displaced, prodotto dal The New York Times

 

È chiaro che si è in un momento di grande sperimentazione alla ricerca di novi modi per raccontare storie attraverso le immagini. E sembra che l’evoluzione delle tecnologie stia per aggiungere uno di quegli strati fondamentali per la storia dello sguardo. Per la piena fruizione di questi video è necessario munirsi di un apposito visore. È possibile dare una sbirciata anche solo con lo smartphone, muovendolo nello spazio, giusto per farsi un’idea, ma si perde il punto centrale del meccanismo visivo, ossia l’esperienza di una totale immersione fisica in uno spazio altro: la possibilità di muoversi nello stesso ambiente in cui si muovono i protagonisti della storia che si sta guardando, di girare la testa e vedere quello che loro stessi vedono. L’azienda Oculus – il cui slogan è un controverso “Vedere è credere”– ha annunciato che per il 2016 lancerà sul mercato i suoi tecnologicamente avanzatissimi occhiali Oculus Rift a un prezzo inferiore ai 300 dollari. Oculus aveva cominciato a sperimentare con l’idea di costruire una grandiosa periferica per video-giochi, per poi capire di trovarsi di fronte a qualcosa di molto più grande: la possibilità di contribuire alla costruzione di un nuovo linguaggio visivo, la sensazione di trovarsi di fronte a una nuova era della comunicazione. E non è un caso che Zuckerberg abbia fiutato l’aria e comprato l’azienda – anche questa – per 2 miliardi di dollari, scommettendo, come ha dichiarato lui stesso, sulla vera promessa della realtà virtuale: andare al di là dell’idea dell’immersione per raggiungere la vera presenza, la sensazione, cioè, di poter esistere ed agire in uno spazio virtuale.

 

Il tema è chiaramente enorme e non ci si può non chiedere se e cosa cambierà nei meccanismi dello sguardo. Come tutto questo influenzerà il linguaggio fotografico e l’intero universo del racconto per immagini? Come cambierà, ad esempio, la fotografia di viaggio, o quella di sport? Cosa cambierà per il fotogiornalismo? Tutto si basa sul concetto di esperienza. Lo sviluppo di queste tecnologie mira a creare una nuova esperienza visiva che permetta allo spettatore di entrare in un’immagine ed esplorarla dall’interno, di sentirsene circondato. A cambiare rispetto ai media “tradizionali” è la prospettiva. Come scrive Howard Rheingold: “Nella Realtà Virtuale la libertà di prospettiva si oppone alla prospettiva fissa imposta dal cinema e dalla televisione” e anche dalla multi-ipermedialità in quanto “l’osservatore non è più seduto a contemplare passivamente ciò che qualcun altro ha prodotto, per essere guardato da una sola, specifica angolazione, ma può […] esplorare il mondo virtuale e partecipare”. All’interno di un ambiente, creato e progettato da un autore secondo un modello, l’utente si muove potenzialmente senza nessun tipo di limitazione prestabilita. Alla base sembra esserci, quindi, un nuovo modo di intendere il rapporto tra il soggetto, che è nello stesso tempo spettatore/attore e la realtà raccontata, allo stesso tempo un’immagine e uno spazio da abitare.

 

La scommessa della realtà virtuale, la sua utopia, è quella di usare la tecnologia per forzare i limiti delle capacità emotive e intellettuali di chi guarda. È quella di permettere la conoscenza attraverso la percezione. Se ho la possibilità di entrare in un campo profughi e vedere quello che chi ci vive vede, forse la mia capacità di provare empatia aumenta. E con l’empatia aumenterà l’interesse, che potrà stimolare la comprensione della realtà, non virtuale, in cui viviamo. D’altra parte “è il vedere che determina il nostro posto all’interno del mondo che ci circonda”, ci diceva Berger. Si aprono così scenari nuovi non solo per il giornalismo, ma anche per l’arte, la didattica, la curatela delle mostre, la fruizione degli spazi museali. La realtà virtuale, l’ipermedialità, si fondono con i nuovi interessi dell’educazione, della costruzione della conoscenza e della creatività. Ovviamente la domanda davvero fondamentale sarà sempre la stessa, come per ogni nuova tecnologia bisognerà chiedersi chi possiederà la realtà virtuale, chi la controllerà, chi potrà accedervi. Il suo lato oscuro è inquietante tanto quanto stimolanti sono le sue possibilità. E si fa sempre più necessaria la moltiplicazione di sguardi critici che sappiano leggere e interpretare le immagini senza continuare a commettere l’errore di attribuire loro un assoluto statuto di verità. Come scriveva già nel 1999 Giuseppe Cassieri, in Il muro di Gutemberg, “ciò che veramente inquieta non è che il mondo si trasformi in un ‘completo dominio’ della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non sia preparato al radicale mutamento del mondo”.

 

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