Unificazione e politeismo dei teatri. Con Claudio Meldolesi

20 Marzo 2013

Docente e studioso di teatro, primo nella sua disciplina a far parte dell’Accademia dei Lincei, Claudio Meldolesi è stato frequentatore instancabile, sulla pagina e nelle sale, del Nuovo Teatro, nei termini di una operatività e di un coinvolgimento a tutto tondo. La prossimità culturale al lavoro della nuova storia francese (dalle “Annales” in poi) e la militanza teatrale gli hanno permesso di tracciare il profilo di un neo-umanesimo ancora non del tutto sondato, ridisegnando ogni volta gli orizzonti della storia del teatro, in un dialogo sempre rigenerato con altre scienze e discipline. Due differenti esperienze originarie – da un lato la militanza politica, dall’altro il diploma d’attore all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica – ne hanno segnato il lavoro e il pensiero: storico della lunga durata, è stato, ad esempio, capace di inserire la marginalità di una figura sempre tradizionalmente sottovalutata come quella dell’attore nell’alveo di più ampie trasformazioni socio-culturali e di incastonare le pressioni del presente in processi di più grande movimento e senso, dunque di muoversi con delicatezza e urgenza fra storia e realtà, fra arte e vita.

 

Claudio Meldolesi e Leo De Berardinis.

 

Qualsiasi definizione – fra quelle, coinvolgenti, emerse nella giornata curata in suo onore da Laura Mariani al Dams di Bologna il 18 marzo e altre che si potrebbero individuare – può sembrare riduttiva: è nell’esperienza del caleidoscopio di testimonianze e opere, immagini e racconti che si sono succeduti sul palco dell’Auditorium dei Laboratori delle Arti che si può forse rintracciare, seppure non afferrare del tutto, il senso di una presenza che, assieme ad altre, ha cambiato radicalmente l’approccio al teatro, quando non addirittura il teatro stesso. Meldolesi non era solo un assiduo della ricerca teatrale o l’autore di opere storiche di insuperato valore, non si può ricordare soltanto per il mai abbandonato impegno civile e il continuo rilancio della militanza: è stato, ed è, tutte queste cose assieme, la cui somma non è sufficiente a ricomporre il ritratto di un uomo che ha contribuito sostanzialmente a dare al teatro e al suo studio il profilo che oggi conosciamo. La possibilità, per tentare di dare forma a un profilo e a un progetto che rilancia tuttora i propri confini, è forse quella di raccogliere qualche spunto ancora inesausto e attuale, per continuare – come ha insegnato lo studioso stesso – a interrogare la scena e la società in cui viviamo; per rintracciarne il passato e provare a immaginarne il futuro.

 

Claudio Meldolesi nel film "Chi mi pettina" di L. M. Patella, 1967.

 

Teoria e pratiche

 

Basta dare un’occhiata al lungo e composito elenco degli invitati a intervenire nella recente giornata bolognese; è sufficiente passare in rassegna quel caleidoscopio di voci – letture, lettere, canti, scene – che si sono avvicendati sul palco dell’Auditorium; si può dare un’occhiata alla quantità e alla varietà di artisti-allievi che hanno incontrato Claudio Meldolesi e ne hanno fatto il loro maestro: Ermanna Montanari e Marco Martinelli del Teatro delle Albe, Elena Bucci delle Belle Bandiere, Laminarie, Francesca Mazza, Alessandro Berti, il Teatro Dehon, il Ridotto e molti altri ancora; sembra non esserci compagnia o spazio, in zona, che Meldolesi non abbia incontrato, frequentato e stimolato.

 

 

Sembrerebbe scontato, soprattutto al giorno d’oggi, visto che dopo decenni di movimenti, cicli, avanguardie, lo studio e la critica si sono guadagnati una collocazione ravvicinata rispetto alle pratiche, quando non addirittura da fiancheggiatori e compagni; all’epoca – i primi anni Sessanta che hanno visto la rifondazione, in Italia, degli studi teatrali – non lo era di certo: la storia del teatro si trovava in posizione ancillare rispetto alle cattedre di Letteratura e veniva affrontata – tanto nei libri che sulle pagine dei giornali – esclusivamente in quanto letteratura drammatica; quello che è solida consuetudine in altri settori di studio, ad esempio nei laboratori scientifici, in ambito umanistico invece si presentava – e in parte si presenta ancora oggi – come una irriducibile frammentazione, che affonda le radici in quel dualismo cartesiano che ha tenuto separati per secoli corpo e mente, testo e scena. Ci sono voluti, appunto, decenni di entusiasmanti e faticose avanguardie – il ‘68 e il Nuovo Teatro, la riesplosione scenica e sociale degli anni Settanta, il rappel a l’ordre successivo e il suo rinnovato superamento – di cui Claudio Meldolesi, assieme agli altri studiosi che hanno fondato accademicamente questo campo di studi, ha rivendicato centralità e importanza.

 

Claudio Meldolesi. Foto Rossella Vitti da TeatroEstoria.

 

Alla fine dell’avanguardia

 

La costruzione di una nuova storia e scienza dei teatri matura in Italia nel secondo Novecento, forte di una duplice sintonia che vede i nuovi studiosi – fra cui Meldolesi – coltivare rapporti fecondi da un lato con la nuova storia francese (responsabile di una profonda ridefinizione del mestiere dello storico) e dall’altro con le punte dell’avanguardia artistica coeva. La frequentazione inesausta del lavoro degli artisti, a partire dalla metà degli anni Settanta, al tempo stesso intercetta e rilancia alcuni dati costitutivi della nuova teatrologia – dall’approccio interdisciplinare che si rivolge spesso alle scienze umane e sociali a una prospettiva che privilegia l’esperienza dei processi più che l’analisi dei prodotti –, facendone i tratti distintivi e innovativi che ne imporranno le opere all’attenzione nazionale e non solo. Era un teatro – e una storia – che fuoriusciva dai limiti stessi del proprio campo d’azione, per riversarsi nella cultura, nella politica, nella società.

 

 

Ma l’avanguardia e le sue spinte rivoluzionarie durano qualche stagione o poco più, così come l’utopica possibilità, carezzata davvero da vicino, della reinvenzione di un teatro (e di una società) differenti: all’orizzonte delle conquiste e dei fallimenti stretti fra i movimenti del ‘68 e del ‘77 ci sono i “famigerati” anni Ottanta – gli yuppies e Craxi, la televisione privata e il reaganismo –, che sembrano destinati a inghiottire qualsiasi slancio innovativo e rivoluzionario. Il clima, a scorrere soltanto le opere editoriali di afferenza teatrologica di quegli anni, è a dir poco preoccupato: i gruppi del Nuovo Teatro si frantumano e si riorganizzano secondo il profilo di nuove esperienze e necessità, mentre la scena ufficiale e tradizionale sembra riacquistare terreno; dopo anni di concentrazione sul lavoro attoriale, di performatività radicale e di superamento dei limiti convenzionali della scena, sulle pagine delle principali riviste e sui palcoscenici della ricerca si assiste ai primi passi di quello che all’epoca sembrò un ritorno del testo.

 

Meldolesi, Santarcangelo, 1987.

 

In quegli anni Claudio Meldolesi, che già aveva intrapreso l’originale strada di riaccorpare studi d’attore, di drammaturgia e di regia in un unicum inedito, scrive di Unificazione e politeismo: “il politeismo non significa solo: esistono vari tipi di teatri; significa: il teatro è la compresenza di vari tipi di teatri, ognuno dei quali poggia su una mentalità diversa”. Oltre la dimensione conflittuale e problematica del riavvicinamento fra tradizione e ricerca, fra teatro “normale” e teatro di gruppo, lo studioso ribalta il processo della restaurazione in “una possibilità che è stata per secoli la realtà del teatro italiano”, “un nodo culturale” da sciogliere e un “filo da riannodare”, perché “l’unificazione dei teatri è più che un teatro solo” e anche perché, a guardarla da vicino, la condizione dell’attore non è poi così dissimile nel sistema della tradizione e della ricerca.

 

Claudio Meldolesi con Antonio Neiwiller. Foto Marco Caselli Nirmal.

 

Non è possibile stabilire se quest’intuizione derivi da una delle impostazioni storiografiche di lunga durata che ha segnato l’approccio dello studioso – mettendo in questo caso a confronto rotture e continuità di trecento anni di teatro italiano – o, di nuovo, dalla grande prossimità personale e professionale rispetto alla cultura teatrale: quello che è certo, in fondo, è che Meldolesi, più che indovinare il punto di non ritorno di un irrisolvibile ripiegamento culturale e sociale che ha sconvolto la cultura d’avanguardia di fine Novecento, sembrava piuttosto coglierne un’opportunità ulteriore, quella di una preziosa ricomposizione che avrebbe potuto lenire, quando non rimarginare, la profonda spaccatura che aveva sempre più allontanato ricerca e tradizione, innovazione e canone (nel teatro e non solo). Un’intuizione che, reinterpretandone le dinamiche oppositive, scava in profondità nelle contraddizioni mai del tutto risolte della società e della cultura italiane di ieri e di oggi; e che, se si osservano i palcoscenici contemporanei, si dimostra fortemente illuminante e in anticipo sui tempi: capace, con la sua prospettiva di lunga durata, non solo di recuperare gli ampi movimenti temporali del passato, ma, proprio per questo, di immaginare anche quelli del futuro.

 

Roberta Ferraresi

Il Tamburo di Kattrin

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