Apocalissi dietro di noi

29 Luglio 2012

Un umorismo etico: ecco, molto in sintesi, lo stile di pensiero che Roberto Alajmo mette in gioco nella sua opera letteraria e saggistica, giornalistica e umana. A ripercorrere i molti libri che ha pubblicato – dal Repertorio dei pazzi di Palermo a Cuore di madre, da Notizia del disastro a L’arte di annacarsi –, ma anche a seguire la sua densa attività di cronista ed editorialista, ci si accorge facilmente come il suo sguardo costitutivamente irrisorio nei confronti del mondo si mescoli sempre, non senza ricercati stridori, con una coscienza morale trasbordante nei riguardi di uomini e cose, fatti e situazioni.

Si ride parecchio, con gli scritti di Alajmo, e ci si incazza altrettanto. Cosa non nuova, anzi per certi versi classica, nella storia letteraria, ma ogni volta rafforzata da una serie d’altre evidenti ricorrenze nello stile intellettuale e linguistico di questo cittadino palermitano tipicamente fuori posto: l’ossessione dell’elenco (che tende verso un’esausitività palesemente maniacale), quella della trasmigrazione dei generi (che gli permette di zompare dal racconto al romanzo, dal teatro all’elzeviro), quella della retorica del territorio (che fa, per intenderci, della Sicilia una cattiva figura del sociale e del politico). Tra i suoi autori di riferimento, frequentemente ricordato, c’è non a caso Leonardo Sciascia, e si vede.

 

Così, trovando adesso in libreria questi suoi due ultimi lavori – Un lenzuolo contro la mafia. Sono vent’anni e sembra domani (Navarra editore, pp. 174, € 14) e Arriva la fine del mondo (e ancora non sai cosa mettere) (Laterza, pp. 116, € 14) – l’umorismo etico di Roberto Alajmo risalta ancora di più. Il primo è la ripubblicazione aggiornata del suo primissimo testo, a vent’anni dalle stragi di mafia che hanno ucciso Falcone, Borsellino e le rispettive scorte: libro d’esordio tutt’altro che facile, scritto a caldo in un momento di grande angoscia e generale confusione, ma anche di forte mobilitazione pubblica, nel quale Alajmo dà testimonianza del sommovimento quasi spontaneo della coscienza civile che portò migliaia di cittadini comuni – semplicemente esponendo un lenzuolo nel balcone di casa – a esprimere il proprio sdegno contro la criminalità organizzata e i suoi ricatti quotidiani a tutti i livelli.

 

 

Il secondo è uno scritto apparentemente più filosofico che, a partire dai rumors mediatici intorno all’apocalisse annunciata per il 2012 dalla famigerata profezia Maya, imbastisce una riflessione semiseria sui millenarismi di tutte le salse, i loro meccanismi retorici comuni, i loro esiti pratici differenziati. Due testi molto diversi che, nella casualità del loro arrivo contemporaneo sugli scaffali, acquistano un curioso rilievo se si prova a considerarli l’uno specchio dell’altro (non importa quale l’uno e quale l’altro).

 

Voglio dire che, vent’anni fa, se non dopo il primo sicuramente dopo il secondo boom che frastornò la città, in molti s’è pensato all’apocalisse realizzata. Palermo come metafora produttrice di tragedia, allucinazione collettiva come retroazione e quasi causa. E forse era proprio così. S’era come invertita la relazione fra realtà e immaginazione, azione e passione. In tanti abbiamo provato nei visceri più profondi del nostro corpo sociale il comune sentimento dell’impossibile che arriva, inaspettato, e dà il peggio di sé. E in tanti abbiamo anche, e nello stesso momento, chiaramente compreso che – dati i presupposti – non poteva succedere che quello. Da qui l’incrocio dei due testi: nel libro sulla fine del mondo risulta molto chiaramente come l’apocalisse stia sempre e soltanto nei discorsi che se ne fanno, nelle narrazioni che la sua attesa inevitabilmente genera, e dunque, in fin dei conti, nelle sue micro o macro autorealizzazioni; nel libro sui lenzuoli è la rabbia successiva all’evento allucinante che produce forme di comportamento dal basso tanto spontaneo quanto efficace, voglia di reazione, entusiasmo diffuso da cui si trova la voglia per ripartire. Capiamo così che la fine del mondo sta all’inizio d’ogni percorso di vita e d’ogni storia, individuale o pubblica: basta saperla aspettare.

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