René Girard: il solletico della filosofia
Esiste una filosofia del solletico? Sì, certo, c’è qualche pensatore che ne ha parlato (Bacon, un po’ Hobbes, Darwin, per non citare che i grandissimi), ma a detta di René Girard, il celebre teorico francese del desiderio triangolare e del capro espiatorio, non ci ha preso. Per il semplice fatto che, a suo dire, il fenomeno stesso del solletico è, come tale, quanto di più lontano possa darsi dal pensiero astratto della filosofia – sia pure la grande fenomenologia novecentesca di Husserl e Merleau-Ponty, che agli intrecci profondi fra corpo e mente s’è, lo sappiamo, costitutivamente dedicata. Lo stuzzico (sinonimo parziale) è faccenda interamente fisiologica, carnale? Oppure coinvolge anche la coscienza? E in che misura si gioca la relazione fra (il corpo del) solleticato e (quello del) solleticante? Ancora: perché si soffre il solletico in certe parti del corpo – e quali ? – piuttosto che in altre?
“Le ascelle, la vita, la pianta dei piedi, la parte interna delle braccia e delle cosce sono le parti del corpo più sensibili al solletico. Non si tratta necessariamente delle parti più delicate o più fragili; non sono parti vitali o indispensabili per la riproduzione […] Si tratta invece delle parti del corpo meno esposte: quelle ‘all’indentro’ […] o protette da altre parti del corpo o da oggetti esterni”. Le ascelle sono nascoste dalle braccia, la vita dai vestiti, la pianta dei piedi dalle scarpe. Non sono parti del corpo che servono a toccare né, quotidianamente, vengono toccate. Stanno là, come un gatto appisolato su un cuscino, mostrando superbamente la loro inutilità. “Sono, quindi, quelle che è più facile sorprendere”. Senza sorpresa, che non è mancanza di attenzione ma sobbalzo irragionevole, niente risolino più o meno sopportabile che prende la pelle. “Il solletico è sempre sorprendente. Non si ride quando si è consapevoli d’esser stati sorpresi, quando cioè si cessa di esserlo, si ride quando non si è in grado di determinare i movimenti presenti e futuri della mano che solletica”. In tal modo, non essendo in grado di controllare la totalità del corpo, dinnanzi a un’alterità esterna che sollecita e solletica, è come se il corpo svanisse, essendo insieme iperpresente e inverificabile.
Già, e il solleticante? Se ci sa fare, “moltiplica gli assalti in punti diversi, fa delle finte e non si sofferma su nessun punto. Si limita a sfiorare”, perché un gesto troppo deciso spazzerebbe la sorpresa facendo riemergere qualcosa come una coscienza ritardataria, la consapevolezza intellettualistica del corpo proprio. “Quanto più questa mano sarà leggera e rapida, tanto più intensa sarà la reazione del soggetto che subisce il solletico. La causa del solletico è inversamente proporzionale all’effetto prodotto”. Ed è per questo che non solo nel solletico non c’è nulla di erotico ma proprio il contrario. “L’umiliazione dell’amante che si accorge che la sua partner prova solletico quando lui la tocca conferma questa scoperta”. Si tratta di tocchi differenti, diametralmente opposti, eppure in qualche modo collegati in un solo, ambiguo processo intercorporeo: dal solletico si può passare all’amore, raramente il contrario.
Leggiamo queste righe nel bel libretto di René Girard intitolato Il miracolo del ridere, appena pubblicato da Raffaello Cortina per la cura e con una (alquanto verbosa) prefazione di Benoît Chantre (traduzione di Elena Muceni, pp. 202, € 15). Si tratta di un testo inedito del 1955, redatto da Girard nel corso di un soggiorno accademico americano, marcato nella prima pagina con la dicitura “very important paper” ma mai pubblicato in vita. Uscito da Grasset nel febbraio scorso col titolo La naïveté du rire, questo scritto era stato come dimenticato nel fondo di un cassetto. E ci si chiede come mai. A meno di non accettarne, più che l’idea, la posa intellettuale di fondo, secondo la quale il riso (la sua ingenuità, il suo miracolo) può essere pensato soltanto con abbondante ironia e, soprattutto, con ariosa autoironia. Un testo assai importante, secondo il suo stesso autore, eppure tralasciato perché, verosimilmente, non considerato degno d’esser dato alle stampe. Ironia, appunto, della sorte editoriale. Solletico filosofico alla filosofia. Triste destino inscritto nel suo oggetto tematico, che contro ogni tristezza s’impone di rado, ma inesorabilmente.

Il fenomeno del ridere, per Girard, ha meno del genere comico standard e assai di più, invece, del tragico, del sacrificio, della triangolazione – temi, si sa, assai cari a Girard. Innanzitutto, come sarà già chiaro, perché non è interamente classificabile né nella dimensione corporea né in quella cognitiva, né in una prospettiva soggettiva né in una oggettiva, quanto piuttosto in un tipo molto preciso di relazione intersoggettiva. Fra soggetto che ride e oggetto risibile, quando il riso è costitutivamente naif, c’è sempre una qualche forma di reversibilità: chi ride, come si dice, di cuore sa che potrà sempre accadere che si rida di lui. È l’idea del fou rire, della ridanciana che contagia chiunque si trova ad assistervi. C’è come una leggerezza di fondo che si fa timore, un timore gestito alla meglio che funziona da sfondo costante a ogni risata. È questa la ragione per cui, sostiene Girard, non è affatto vero che ride bene chi ride ultimo: ci potrà sempre essere un momento in cui qualcun altro riderà ancora e ancora. La relazione fra ridente e risibile è complessa, sfumata e insieme decisiva, dove i due interlocutori della comicità non solo si scambiano di posto ma non sono, in quel momento, nemmeno veri e propri soggetti, veri e propri oggetti, ma come ostaggi di una situazione che, checché se ne dica, li trascende. Il tragico, appunto.
Si impone allora nel nucleo profondo del ridere – ed ecco il grande Girard – una basilare triangolazione. A determinare, a priori e a posteriori, il riso è difatti un terzo attore, in sé serissimo, che giustifica dall’esterno l’ilarità reciproca dei due ridenti in gioco. Questo terzo attore si sforza di comprendere il riso, e in questa tensione essenziale fra il suo ancestrale bisogno di capire, di ricondurre la situazione a una giustificazione razionale, e l’insensatezza profonda della risata che il comico e il tragico si rafforzano a vicenda fino a diventare un’unica cosa. “Comprendere il riso significa scoprire l’incomprensione del risibile da parte di chi ride. E ciò che appare allora non è un ostacolo o una mancanza, ma l’essere stesso di chi ride. […] Rifiutiamo la visione che ci si offre, perché non possiamo tollerare le conseguenze fugacemente intraviste di questa prima scoperta. Il riso solitario ha sempre qualcosa di vagamente osceno; mette a nudo chi ride e lo espone allo sguardo di tutti”. Il testimone è dunque parte integrante di un ridere che non gli appartiene. “Ogni risata compresa è una risata ingenua”.
Torniamo così al solletico, vero enigma d’ogni concezione filosofica del riso poiché si tratta di un fenomeno allo stesso tempo sensato e insensato, spiegabile fino a un certo punto, comprensibile e no. Pensare il solletico risulta essere, proprio per questa ragione, la porta stretta oltre cui si cela il mistero dell’ingenuità perduta, che è sempre e comunque condivisione intersoggettiva di un corpo insieme intimo e plurale. Perché si può ridere di se stessi ma non farsi il solletico da soli? Se fosse tutto un problema sensoriale, fisico, se mi sfiorassi delicatamente sotto le ascelle o la pianta dei piedi dovrei crepare dalle risate. Ma non accade. Occorre che ci sia un’alterità costitutiva, un mistero, una relativa predisposizione alla sorpresa: passaggio necessario per arrivare ad autoseppellirsi sganasciandosi con una risata.
In un appunto privato Girard racconta d’aver mandato il dattiloscritto del Miracolo del ridere a Maurice Merleau-Ponty per un parere. S’aspettava un plauso. A suo avviso, stava riprendendo e portando avanti le tesi rivoluzionarie di quest’ultimo. Ma l’autore della Fenomenologia della percezione non gli rispose. Girard attese a lungo. Si rattristò del non venir capito. Protestò contro l’istituzione accademica. Poi la prese con (la sua) filosofia: e sfoderò un sorriso. Noi aspettiamo ancora.