Speciale
Essere e digiunare
Tendente alla pinguedine, uno dei ritornelli della mia vita – transitivo o riflessivo – è l’invito a mettermi a dieta. E con l’età le ragioni estetiche si sono mescolate a quelle relative alla salute. Al punto che ogni visita medica si configura, crudele destino, come il perfido presupposto di un accertamento ulteriore: quello del dietologo o, se va bene, del nutrizionista. Lungi da me ogni dileggio di queste beneamate figure professionali, evidenti salvatori delle patrie individuali e collettive. Non foss’altro perché fanno parte integrante di una narrazione sociale più ampia, in cui il dimagrimento è funzione di un’efficienza del corpo che coniuga estetica ed etica, abilità corporea ed esistenza in vita. Ogni dieta non è una dieta, per certi versi, o almeno non è soltanto un aspro regime di rinunce a cibi e bevande, con successivi borborigmi dello stomaco vuoto e conseguenti lampi di malumore.
Qualche anno fa un bel libro di Ilaria Ventura Bordenca, Essere a dieta (Meltemi, 2020), aveva fatto il punto della questione, ricostruendo l’immaginario antropologico, rilanciato dai media, del dimagrimento, fra marketing e televisione, studi medici e afflati mistici e misteriosi. Veniva fuori molto chiaramente come il regime dietetico sia regime in tutti i sensi, regime di senso, strategico sistema di segni. Da sempre ogni tentativo di organizzare modi e rituali dell’alimentazione trascende il dominio specifico del cibo, da cui pure è partito, per ripensare i nessi fra ventre e valori, calorie e ideologie, corpo e società. Così, stando a dieta, patemi e ipocrisie a parte, è l’intera esistenza a essere rimessa in gioco, con tutto quell’apparato di credenze e aspirazioni, desideri e frustrazioni, significati e filosofie che puntellano surrettiziamente le nostre vite. In fondo, perché vogliamo cambiare il nostro corpo, irretirlo e irreggimentarlo, modellarlo secondo esigenze che esso, cocciutamente disinteressato ai canoni condivisi di bellezza e funzionalità, non sembra per nulla possedere? e per quale ragione, con questo, sentiamo il bisogno di zittire i succhi gastrici, stabilizzare i sommovimenti dello stomaco, prosciugando a ripetizione quell’acquolina in bocca che reclama, per antica professione, manicaretti e prelibatezze d’ogni forma e natura? a che vale frustrare le nostre passioni alimentari, decapitare i nostri gusti, ammazzare i nostri desideri gastronomici? Le motivazioni, è ovvio, devono essere forti, e non basta la nostra pur ottima coscienza per produrle e difenderle. È così, appunto, che si tende un filo diretto fra le più intime viscere interne e i più astratti ideali metafisici, in qualche modo bypassando gli strali e gli strati della soggettività individuale. È come se emergesse, per ristipularlo, un contratto segreto fra stomaco e valori, fisiologia e ideologia, corporeità e socialità.
È recentemente tornato sulla questione Steven Shapin, noto storico della scienza e docente a Harvard, in un librone intitolato Eating and Being. A History of our Ideas about Food and Ourselves (Chicago University Press, 2024), di cui s’è discusso qualche settimana fa, per iniziativa del Rettore Nicola Perullo, all’Università delle scienze gastronomiche di Pollenzo. Volume cui fa eco, adesso, l’Histoire de la dietetique. D’Hippocrate au nutri-score di Bruno Laurioux (CNRS éditions, 2025), che rilancia ulteriormente la tematica, ricostruendo la lunghissima storia che dalla dietetica antica (su cui aveva già attirato l’attenzione, si sa, il Foucault dell’Uso dei piaceri, 1984), passando per le morali sei e settecentesche, arriva alla dietologia medicalizzata della contemporaneità.

La dietetica, per i greci, stava al centro di una serie ben più ampia di riflessioni filosofiche, etiche ed estetiche, ma anche di comportamenti individuali e sociali legati all’esercizio della medicina, della ginnastica o dell’arte amatoria. Riflessioni e comportamenti in vario modo intrecciati fra loro che ruotano intorno al problema dell’equilibrio generale dell’uomo nel mondo e nella società. Ippocrate, fondatore della medicina, intendeva quest’ultima come una specie di dietologia dell’uomo ammalato. Così come la dietetica si prende cura, in generale, dell’individuo sano, la medicina si occupa di quello sofferente, dove, in un caso come nell’altro, si tratta di mantenere o di ritrovare la misura, il giusto mezzo, l’equilibro appunto. La dieta dell’uomo – in quanto animale sociale che ha perduto la sua natura ferina, e che deve fare di tutto per non ricadervi – comprende così l’alimentazione, ma anche molti altri esercizi come passeggiare, correre, lottare, prendere il bagno caldo, dormire, fare ginnastica, praticare la sessualità. Il dietologo segue l’uomo passo passo in tutto l’arco della sua giornata, regolando il suo regime di vita, dal quale vanno banditi sia gli eccessi sia le privazioni, in funzione delle situazioni in cui ci si trova, delle circostanze favorevoli o avverse che occorre assecondare o fronteggiare.
Tutto questo a partire da una precisa posizione teorica. Shapin mostra come la dietetica, nella sua lunghissima durata, sia stata prima di ogni altra cosa il regno ideale per la diffusione di segnali, indizi, inferenze, analogie, metafore e così via. Da cui scaturiscono parallelismi e inversioni che si instaurano fra corpo, cibo, società, cosmo e natura. A partire da due semplici coppie di qualità sensibili – caldo/freddo e secco/umido –, medici e filosofi dell’antichità hanno istituito una filosofia della natura che funzionava come una stupefacente macchina combinatoria. Si comincia con i celebri quattro elementi – aria (caldo-umido), acqua (umido-freddo), terra (secco-freddo) e fuoco (secco-caldo) – da cui vengono generati quattro umori – bile gialla (legata al fuoco), bile nera (terra), flegma (acqua) e sangue (aria) –, cui corrispondono quattro temperamenti umani: il collerico, il sanguigno, il melanconico e il flemmatico. Ognuno di noi sta in una di queste quattro categorie. La dietetica è l’arte del rispetto di queste corrispondenze e della gestione del loro equilibrio. Da cui la scelta dei cibi (più o meno secchi, più o meno umidi, più o meno caldi, più o meno freddi) che devono riequilibrare, se del caso, questa serie di analogie. Seguire una dieta diviene così un imperativo morale e civile, di modo che mangiare ed essere si costituiscono reciprocamente.
Nella tarda modernità saranno la filosofia e la scienza sperimentale, istituzionalizzandosi nell’intreccio fra saperi e poteri, a rimuovere questa complessa sapienza dietetica, consegnando al medico la cura del corpo e al prete quella dell’anima. E facendo conseguentemente svanire ciò che, stando a metà fra di essi, ne faceva un’unica realtà: le pratiche alimentari, appunto, come parte di una più generale gestione dell’esistenza. Da quel momento etica, estetica, igiene, ginnastica e sessualità non hanno più nulla a che vedere con le pratiche e le regole alimentari, le quali divengono di lì a poco appannaggio esclusivo di una ragione dietetica che di quella greca manterrà soltanto il nome. L’invenzione della caloria, croce e delizia d’ogni cura dimagrante, è dietro l’angolo. Ne sa qualcosa il povero Snoopy, impietosa vittima di questa furia aritmetica legata al cibo – sua suprema ragione d’esistere (il cibo, non l’aritmetica).
Resta da capire la ragione di quest’ossessione numerica che, pervadendo l’attuale dietetica, forgia le esistenze quotidiane con una sorta di griglia aritmetica tanto astratta quanto potente. Sorge il dubbio che, per quanto palese nemica delle tradizioni gastronomiche e dei piaceri legati al cibo, essa conservi comunque una funzione di un qualche rilievo che va oltre il semplice desiderio di dimagrire, e perfino la ricerca del benessere fisico. Se ogni dieta – pur nelle varie forme e formule che ha assunto nella storia – è una registrazione minuziosa dell’esistenza umana e sociale, un desiderio di ordine e di disciplina, anche l’invenzione della caloria, la quantificazione forzata dell’alimentazione, è a suo modo un’iniezione di significato. Come gli antichi ci hanno insegnato, il vero antagonista delle diete, ciò contro cui esse, sotto sotto, combattono non è l’inestetismo dell’adipe, il peso di troppo, la rotondità delle forme, ma un malessere ben più profondo perennemente in agguato, che ha pervaso da tempo la nostra società e la nostra cultura: è l’emergere incontrollato del disordine, la mancanza di regole cui fare fiducioso riferimento, la sparizione di valori forti ai quali appigliarsi, l’evaporazione generalizzata del senso. Sta qui, forse, la spiegazione di questo accanimento dietetico che, al di là delle assurdità, contraddizioni, privazioni, dispiaceri e inutilità, i clinici e i media giornalmente ci propongono: una specie di consolazione posticcia, un’identità rabberciata, un qualunque principio d’ordine che possa scacciare i fantasmi del caos esistenziale prossimo venturo. Come dire, mettiamoci a dieta: snelli e infelici, daremo un senso alla nostra vita.
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