Identità bastarde al Teatro Garibaldi Aperto

24 Ottobre 2012

Era stato uno dei simboli della “primavera palermitana”, della voglia della città di risorgere dopo gli assassini di Falcone e Borsellino. Il teatro Garibaldi di Palermo, una storica sala all’italiana aperta al pubblico nel 1861, dopo casi che lo avevano ridotto a una specie di affascinante rudere, era tornato a vivere negli anni ‘90 del nostro secolo con la trilogia shakespeariana di Carlo Cecchi. Dopo varie produzioni e vicende, cinque anni fa era stato chiuso per un restauri. “Inaugurato” in un’occasione pubblica nel 2010, senza arredi, con i palchetti ancora inagibili perché senza balaustre, era stato subito richiuso. Intanto erano stati spesi quattro-cinque milioni di euro in lavori incompleti. La scorsa primavera, un gruppo di artisti visivi, teatranti, musicisti, danzatori, video-maker, poco prima delle elezioni comunali, lo hanno occupato, proclamandolo Teatro Garibaldi Aperto. Aperto alla città, alla creatività, restituito a una funzione civile, importante per un centro come Palermo avaro di spazi per l’innovazione e la ricerca, votato per anni a una sciagurata politica dell’evento.

 

 

Gli occupanti erano artisti spesso di lunga navigazione ma sotto i quarant’anni, che lavoravano in luoghi improbabili o in produzioni esterne, lontano da Palermo, come quella con il Crt di Milano di Educazione fisica di Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco, staccatisi qualche anno fa dal gruppo di Emma Dante per intraprendere un proprio percorso. La stessa Emma Dante aveva subito fatto atto di presenza al Garibaldi con un laboratorio (e altri artisti avevano dato la loro adesione, da Claudio Gioè a Claudio Collovà a Donatella Finocchiaro). Al momento dell’occupazione, molte erano state le promesse dei candidati sindaco, che non si sono però concretizzate, finora, in un rapporto con il potere politico-amministrativo. Il Garibaldi è andato avanti grazie all’impegno degli occupanti, che hanno sviluppato e precisato un’attività varia, mettendo a punto linee di azione elaborate spesso faticosamente in lunghe assemblee.

 

Ormai sono diversi, in ogni angolo d’Italia, i teatri occupati da gruppi di artisti e operatori e riaperti per le città. Spazi come il teatro Valle, apripista di questa stagione figlia della crisi e dei mancati investimenti pubblici nella cultura, hanno ormai una programmazione abbastanza regolare e un’identità organizzativa e statuaria precisa (il Valle ha uno statuto di Fondazione Bene Comune: vedi il libretto Teatro Valle Occupato. La rivolta culturale dei beni comuni, DeriveApprodi 2012). Altri stanno trovando una strada, esplorata, contrattata ogni giorno dalle diverse realtà che li animano (l’Angelo Mai, sempre a Roma, ha dovuto occupare lo spazio ottenuto dopo l’occupazione per poter gestire liberamente il bar che finanziava l’attività culturale). Un mese fa anche il settecentesco teatro Rossi di Pisa, ridotto negli ultimi anni a deposito, è stato restituito all’attività da un gruppo di studenti e di operatori dello spettacolo. La posta in gioco è sempre la stessa: in un momento in cui le amministrazioni pubbliche tagliano i fondi alla cultura e quindi non investono neppure sugli spazi, come si può, utilizzando il patrimonio esistente, sale storiche e meno storiche, creare nuove “imprese”, che restituiscano alla parola il suo senso complesso, non solo di attività economiche ma anche di avventure della cultura, dell’ingegno, della socialità?

 

Teatro Garibaldi aperto, assemblea. Fotografia di René Purpura

 

La scorsa primavera vari luoghi occupati si sono incontrati tra loro, creando una “Rete dei teatri ri-belli” che comprende, oltre al Valle, il teatro Coppola di Catania, il Macao di Milano, l’ex asilo Filangeri di Napoli, l’ex cinema Palazzo di Roma, S.a.L.E Docks di Venezia, il teatro Garibaldi Aperto di Palermo.

 

Il Garibaldi in questi giorni ha lanciato i programmi delle attività fino a dicembre, aprendole con una rassegna dal titolo programmatico, Identità bastarde, e con un incontro sulla critica teatrale, intitolato Il pensiero muto. Collegare la produzione con la riflessione e con l’informazione era l’intento, con la consapevolezza che “fondamentale è l’esistenza di uno spazio che ammetta cortocircuiti, valvole di riflessione. Aperture mutevoli e punti di fuga”, come si legge nella presentazione. La critica, specie quella teatrale, deve reinventarsi gli strumenti del comunicare, per il disimpegno di giornali e riviste. Si rivolge al web in ambienti 2.0, cercando un’interazione con il lettore e con la creazione artistica, riformulando i propri strumenti di osservazione, di analisi, di espressione. Parimenti nei teatri occupati il metodo (almeno negli intenti) è quello dell’orizzontalità, della relazione continua tra i creatori, con il pubblico, con l’ambiente circostante e con il mondo della cultura.

 

Al lavoro al Garibaldi. Fotografia di René Purpura

 

Le identità sono davvero “bastarde”, come rivendicano gli occupanti, che ricordano: “Siamo il duomo di Siracusa, la cattedrale di Palermo, le poesie di Ibn Ham ‘Dis. Siamo bastardi, sangue misto. Non abbiamo un padre, non lo vogliamo, non abbiamo bisogno di ucciderlo… Cerchiamo coordinate multiple, nate per incrocio di unioni illegittime… In una realtà frantumata, sfuggente, dissociata, ci lanciamo nel vuoto per riacciuffare il presente”.

 

Questa rassegna, dal 19 al 27 ottobre, presenta lavori in corso di alcune delle compagnie protagoniste della riapertura del teatro. Si è iniziato con un’installazione, Scatolame, che sembra una poetica ricostruzione di quello che si vede fuori dalle mura del teatro, nel bellissimo, devastato, in via di ricostruzione e degradato quartiere della Kalsa, il vecchio centro arabo, bombardato durante l’ultima guerra, abbandonato, con chiese a cielo aperto come Santa Maria dello Spasimo, con vicoli cadenti e pieni di immondizie e angoli, palazzi, gruppi di case riportati a splendore dai restauri. Si vedono scatole di cartone aperte su tanti interni diversi, nell’installazione, squarci su vite quotidiane, di oggi. Così anche uno degli spettacoli di apertura, Porcomondo di Compagnia Quartiratri, inizia per le strade del quartiere, tra clacson urlanti, graffiti su muri abbandonati e cani randagi, e poi ricostruisce, tra i palchetti incompleti del Garibaldi, interni di case popolari animate da panni stesi, da vite trascinate, seguendo con qualche ingenuità testuale la storia di varie madri che riflettono sulla paura di far precipitare una nuova vita in questo mondo.

 

Porcomondo. Fotografia di Ramona Fernandez

 

Ma il rapporto con l’ambiente, con l’Isola, lo abbiamo respirato anche in Butitta Dreaming di Sutta Scupa, con la regia di Giuseppe Massa, un viaggio nei versi accesi del poeta Ignazio Buttitta e nella sua lingua siciliana carnale e infuocata, tra desiderio d’amore, indignazione politica, racconto della miseria, con due attrici, Simona Malato e Margherita Ortolani, di eccezionale forza e presenza, come Luigi Di Gangi, impegnati in una lotta all’ultimo fiato con la scatenata banda rock delle Formiche. E la musica aveva inaugurato il ciclo con i suoni meticci dell’Orchestra Libera Garibaldi Aperto, formatasi in questi mesi dall’incontro tra musicisti di diversa estrazione.

 

La rassegna comprende reading come quello a cura di Ugo Giacomazzi di Teatri Alchemici, serate con video, uno spettacolo della Compagnia Odemà e attraversamenti urbani di LightBlack. Dal 2 novembre, poi, fino alle soglie di Natale, partirà un’altra rassegna di teatro danza e musica con tre rappresentazioni a settimana di spettacoli scelti tramite un bando o invitati. Il Garibaldi, nel cui collettivo ricordiamo, tra gli altri, l’attore e regista Giuseppe Provinzano, il musicista Roberto Cammarata, Mirko Giralucci, la coreografa Alessandra Luberti, diventa luogo di ospitalità, di creazione in residenza, di laboratori, di produzione, uno spazio che a Palermo mancava.

 

Butitta Dreaming. Fotografie di Ramona Fernandez

 

Ancora non ha identificato, oltre a quella assembleare, quale forma darsi per organizzare i lavori e per (eventualmente) rapportarsi con le istituzioni. Queste latitano, o aspettano. Gli occupanti dichiarano che sicuramente a loro non interessa la strada troppe volte scelta finora, a Palermo, della trattativa privata, individuale. Contano sui “contributi di complicità” degli spettatori (un biglietto volontario); mirano a cercare e creare un nuovo pubblico, che possa vivere il teatro come spazio di crescita del quartiere, della città. Rifiutano la logica dell’evento. Vogliono provare forme di azionariato diffuso e esplorare il fund raising. Credono nel fare rete, con altri spazi occupati, con altre realtà. Vogliono trovare i modi per fare il loro lavoro, per uscire dalla precarietà. Ma soprattutto pensano che la cultura sia un bene della collettività, da difendere, da accrescere attraverso gli incontri e gli incroci. Perché l’identità, oggi, non può che essere fluida. O, come dicono loro, “bastarda”.

 

 

Massimo Marino - @minimoterrestre

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