Eco dopo Eco

20 Febbraio 2016

“Se avesse voluto sostenere una tesi, l’autore avrebbe scritto un saggio (come tanti altri che ha scritto). Se ha scritto un romanzo, è perché ha scoperto, in età matura, che di ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrare”. È il settembre del 1980, e quest’aforisma rovesciato chiude il risvolto di copertina della prima edizione del Nome della rosa, dove un Umberto Eco alla prima prova letteraria sembra quasi volersene giustificare agli occhi di un pubblico che lo conosce grazie a pietre miliari come Opera Aperta, Apocalittici e integrati o il Trattato di semiotica generale. Molti falsi amici la interpreteranno, con astuta superficialità, come una rinuncia alla dottrina semiotica, come la resa di una scienza nuova, fortemente vocata alla critica culturale, che nel giro di pochi decenni – riunendo Saussure e Peirce, Hjelmslev e Husserl, Morris e Jakobson – si stava imponendo con forza nel dibattito intellettuale del mondo intero, grazie anche a quelle opere lì.

 

Ma oggi che, attoniti, proviamo maldestramente a rimuovere una cupa mancanza tirando giù a casaccio i suoi libri dallo scaffale, troviamo conferma di tutt’altro. Si tratta di un’affermazione forte, che va intesa come la chiave di volta – storica e intellettuale – dell’intera opera di Umberto Eco: la scrittura semiotica e quella romanzesca non solo non s’oppongono, ma si fanno reciprocamente da sponda. Laddove un sodale come Roland Barthes, scomparso giusto pochi mesi prima, rifletteva sulle felici asperità della preparazione del romanzo, Eco risponde con un romanzo bell’e pronto. Un romanzo-romanzo, storico e poliziesco al contempo, con tanto di intreccio e di personaggi, ma con dentro una teoria narrata, un’ipotesi iperletteraria sulle forme del comico e le loro ricadute ideologiche e culturali.

 

Ma perché questa patente parodia dell’ultima celebre riga del Tractatus? “Ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”, scriveva Wittgenstein. Ma il ‘parlare’, in Eco, diviene ‘teorizzare’, e il ‘tacere’ si trasforma in ‘narrare’. Un evidente rovesciamento filosofico, ma ironicamente consegnato a un risvolto di copertina – sparito, fra l’altro, nelle edizioni successive del romanzo.

 

Colpisce innanzitutto il richiamo alla maturità, e oggi, a riuscirci, fa un po’ sorridere. Era l’inizio dell’inizio. Altro che abbandono. Resteranno, sappiamo adesso, altri trentacinque e passa anni di attività, e non so quanti ulteriori saggi e romanzi, quanta attività giornalistica ed editoriale, quante lezioni, quanti convegni, quanta vitalità, quante barzellette… Una maturità, dunque, più intellettuale che fisiologica porta Eco non tanto a scrivere un romanzo in sé, quanto ad accompagnare la riflessione teorica sui segni e sui linguaggi con una parallela pratica letteraria. Laddove il parallelismo, come certe astuzie da politici navigati, è comunque impreciso, sbilenco, convergente: far semiotica e raccontare storie, ricomporre forme del senso e inanellare strutture romanzesche sono operazioni non analoghe ma omologhe, non equivalenti ma rispondenti. La scrittura romanzesca non sostituisce eventuali deficit teorici ma problematizza – fa oscillare come un pendolo – le questioni rimaste in sospeso, le riscrive sub specie narrativa, trasfigurando concetti sotto forma di personaggi, reinterpretando dispute in termini di trame, consegnando all’euforica opacità del testo estetico (ambiguo e autoriflessivo, secondo il Trattato) i problemi aperti della riflessione semiotica e filosofica. Anche un testo more geometrico come il capolavoro di Spinoza, sapevamo dal Lector in fabula, ha una struttura narrativa.

 

Così, la complessa tipologia dei modi di produzione segnica enucleata nei testi teorici diverrà la serie di tracce che si presenta, enigmatica, agli occhi (e agli occhiali) di Guglielmo da Baskerville, il quale, fra l’altro, saprà far uso di quella ‘abduzione’ poliziesca che Charles S. Peirce, ignaro di tutto ciò, poneva al centro dell’invenzione scientifica. Analogamente, la resistenza nei confronti del decostruzionismo dispiegata nei Limiti dell’interpretazione verrà riscritta nel Pendolo di Foucault sotto forma di quel delirio interpretativo che dalla vicenda dei Templari porterà, via massoneria e nazismo, a una strage sanguinaria nel Conservatoire parigino. Ancora, l’interpretazione critica di quel testo delirante che è I protocolli dei savi di Sion, fonte privilegiata dell’antisemitismo novecentesco, sarà raffigurata creativamente nel Cimitero di Praga. Come dire che, a ben vedere, il narrare non sostituisce il teorizzare ma lo traduce tradendolo. La narrazione non è abbandono della teoria ma teoria con altri mezzi. Quella fatta bene ovviamente, come Eco voleva e sapeva fare.

 

Del resto, tutto questo Eco lo aveva sempre saputo, lo aveva teorizzato, scritto, dimostrato. Se c’è una prerogativa che caratterizza la semiotica non è tanto o soltanto quella di essere una teoria filosofica da discutere nel mercato delle idee; meno che mai un credo intellettuale; e nemmeno un metodo più o meno rigoroso per leggere i testi e i discorsi sociali. La semiotica, ha scritto Eco, è una teoria della menzogna, e dunque un modo per indicare e smontare le menzogne altrui ma soprattutto le menzogne del potere, che non sta nelle cose ma fra le cose, che non agisce reprimendo ma producendo, insinuandosi nelle pieghe del linguaggio, nelle partizioni del sapere, nei dettagli di una classificazione, nei presupposti taciti di una figura retorica. In altre parole, così come con Apocalittici e integrati abbiamo imparato ad abolire ogni separazione aprioristica fra alto e basso, cultura d’élite e cultura di massa, letteratura e paraletteratura, leggendo ciascun termine grazie all’altro e viceversa, analogamente, e più in generale, l’insegnamento di Eco porta a mettere in discussione, e forse ad abolire definitivamente, quelle separazioni fra sfere dello ‘spirito’ che un crocianesimo di risulta, nel nostro Paese (e sotto altre spoglie in altri luoghi), ha voluto imporci. L’arte e la filosofia, la politica e la morale, per Eco teorico e romanziere, critico e opinionista, non sono aree distinte della cultura, ma emergenze momentanee in un continuo flusso di trasformazioni semiotiche.

 

Oggi, in un’epoca in cui la cultura va sempre più indietro a passo di gambero, tutto questo suona non demodé ma futuribile. Di là da venire, forse addirittura da immaginare. Per questo come semiologi, in tanti e un po’ dappertutto, sentiamo il dovere e il peso di un’eredità da gestire. Adesso che Umberto non c’è più tocca a noi farci carico di quel suo geniale fiuto per i segni che, per definizione, non potremo e non sapremo raggiungere. Ma quanto meno dovremo approssimarci a esso. Nel frattempo, continuando a scartabellare nello scaffale, da un libretto dimenticato, Tra menzogna e ironia, emerge un passo importante: “se si ride, si sorride, si scherza, si architettano sublimi strategie del risibile – e siamo l’unica specie a farlo, poiché sono esclusi da questa sorte gli animali e gli angeli – è perché siamo l'unica specie che, non essendo immortale, sa di non esserlo. Il cane vede altri cani morire, ma non sa – almeno non sa per forza di sillogismo – che anche lui è mortale. Socrate lo sa. Ed è perché lo sa che è capace di ironia. Il comico e l’umorismo sono il modo in cui l’uomo cerca di rendere accettabile l’idea insopportabile della propria morte – o di architettare l’unica vendetta che gli è possibile contro il destino o gli dèi che lo vogliono mortale”. Jorge da Burgos, alla fine, ha perduto.

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