5 per mille

Tutti a vivere in montagna

8 Luglio 2025

In questo torrido giugno del 2025, hanno destato un certo scalpore i dati contenuti nel Rapporto montagna presentato dall’Unione nazionale comuni, comunità ed enti montani (Uncem), anche per il nesso con i preoccupanti effetti dei cambiamenti climatici. Il rapporto, pubblicato dalla casa editrice Rubbettino a distanza di otto anni dalla precedente edizione, evidenzia un saldo positivo di 100.000 unità tra partenze e arrivi nei territori montani nel quinquennio 2013-2023. Una crescita disomogenea, al Nord e al Centro (Abruzzo compreso) ma non in tutte le valli alpine e appenniniche, e con un perdurante saldo negativo al Sud, in montagna come in pianura.

Ma cosa c’è dietro questi numeri? Quali i motivi di questa migrazione verticale che cambia verso rispetto ai decenni precedenti? L’ambiente inquinato e le alte temperature delle pianure stanno davvero spingendo a spostarsi verso le terre alte?

Il surriscaldamento del clima dovuto alle emissioni di CO2, tra 2 e 5 °C in più a fine secolo, sta avendo conseguenze drammatiche su biodiversità ed equilibrio ambientale: solo pochi giorni fa, ai 4.554 metri di Capanna Margherita (Monte Rosa) è stata registrata una temperatura di ben 9,5 gradi; i ghiacciai alpini saranno pressoché estinti verso la metà di questo secolo e i fiumi europei avranno meno portata idrica in estate, con riflessi su agricoltura e produzione energetica; l’area del Mediterraneo è destinata a divenire sempre più torrida d’estate; gli eventi estremi, alluvioni e tempeste, stanno aumentando di intensità e frequenza con seri danni per le attività umane; il livello dei mari è in aumento e a fine secolo potrebbe essere di circa un metro più elevato, per luoghi come Venezia e il delta del Po sarà la fine; una inarrestabile cementificazione sta riducendo la disponibilità di suolo agrario fertile, rendendo tra l’altro più fragile il territorio in caso di calamità naturali o forti piogge; inquinamento, plastica e rifiuti non degradabili sono ovunque in aumento e minacciano la salute di tutti.

In Italia, se consideriamo montani i Comuni dislocati a un’altitudine superiore ai 600 metri, si scopre che la loro superficie complessiva occupa un terzo del territorio nazionale, ma la loro popolazione non arriva al 15%, conseguenza di decenni di lento ma costante spopolamento. A fronte di una pianura ipersfruttata e inquinata, ecco l’idea di salire in montagna, recuperando ove possibile le tante abitazioni “dai camini spenti”. Un desiderio sempre più diffuso, motivato da passioni e valutazioni personali, ma con una valenza più ampia, non solo per imparare ed esercitare i lavori tipici e tradizionali del mondo rurale, come la pastorizia, l’agricoltura di montagna, la lavorazione del legname, la coltivazione di erbe aromatiche e medicinali, l’accoglienza turistica, i servizi di guida e di guardia zoofila e faunistica. La possibilità di lavorare da remoto, accentuata dalla pandemia del 2020, ma in costante sviluppo da anni, permette di eseguire anche lavori da sempre svolti principalmente nelle città. Le montagne alte consentono l’avventura e il brivido di una bellezza infinita, ma un numero limitato di possibilità di vivere e lavorare, tutte focalizzate su alpinismo e turismo; le montagne di mezzo invece, quelle tra i seicento e i millecinquecento metri, hanno possibilità ben più diversificate, ma vanno studiate e comprese, finché siamo in tempo. Vanno lavorate con colture non estese e non intensive, realizzando e migliorando terrazzamenti, incentivando i piccoli allevamenti, favorendo uno sfruttamento intelligente delle risorse idriche e arboree. Uno sfruttamento che, come diceva Mario Rigoni Stern, “della natura colga l’interesse senza intaccare il capitale”.

j

In tempi di drammatici cambiamenti climatici, con ghiacciai e neve che svaniscono, andrebbero evitate iniziative di breve respiro come le infrastrutture sciistiche a bassa quota per turisti di bocca buona, mantenuti con fondi pubblici e neve finta, destinati prima o poi a divenire orrendi scheletri metallici disseminati in un paesaggio sconvolto. Pensiamo ai disastri di ferro e cemento, alle irreversibili distruzioni di boschi e pascoli, causati dalle Olimpiadi invernali del 2006. Sono lì, in Piemonte, sotto gli occhi di tutti. La pista da bob di Cesana, costata 140 milioni di euro, ha rovinato un versante della Val Susa coperto di pascoli e larici secolari. Una volta rovinati paesaggio e contesto agropastorale, cosa resta? Che futuro può avere un’area montana cementificata e piena di ferraglia arrugginita, senza più alberi, pascoli e colture?

Sarebbe utile mettere da parte alcuni stereotipi, ad esempio quello della montagna come luogo della tradizione e della naturalità, contrapposto alla barbarie della città. Molte campagne pubblicitarie puntano su questa illusione di salubrità montana: acque minerali dichiarate purissime ma distribuite in mostruose quantità di bottiglie di plastica, bresaole alpine realizzate con carne bovina che arriva dal Brasile, formaggi prodotti con latte giunto dall’Europa dell’Est, marmellate con etichette tradizionali ma provenienti dalla Bulgaria, mele coltivate nelle valli alpine ma cariche di pesticidi e fitofarmaci, romanzi di montagna infarciti di frasi banali mandate a capo per allungare il brodo e creare l’effetto aforisma. Una vera naturalità e un’alta qualità dei prodotti delle montagne sono in realtà obiettivi possibili e auspicabili, ma passano per la diversificazione dei prodotti, per la piccola produzione, per la cura dei boschi e del sottobosco e, come sempre, per la conoscenza. Nuove colture sono oggi possibili a quote prima impensabili, ma perché tutto ciò sia realizzabile occorre ripensarne l’urbanistica, l’agricoltura e i servizi. Molti “nuovi montanari” si stanno impegnando a seminare e a raccogliere, ad allevare animali e ad avviare piccole imprese, amalgamando competenze acquisite negli studi con esperienze e tradizioni locali. Va cercato un equilibrio di medio e lungo periodo tra la cura dell’ambiente naturale e le attività umane: no a disboscamenti selvaggi che impoveriscono e rendono fragile il territorio, magari per fare spazio a piste da discesa, sì a manutenzioni di strade e casere, alla pulizia del sottobosco, e al contrasto dell’avanzata incontrollata della vegetazione spontanea.

Attenzione anche alle illusioni, magari quella della montagna luogo di una sapienza del vivere che attende a braccia aperte il cittadino in fuga. Il turista occasionale gode del silenzio, del verde e dei panorami, di rado si domanda come viva e quali problemi debba risolvere chi abita le terre alte. Tra monti e valli invece, come in pianura, si possono trovare anche follia, disperazione e male di vivere. La rigenerazione interiore dipende da noi stessi non da immaginari luoghi rifugio, alpini o marittimi che siano; come diceva Hugo Pratt: “Viagiar descanta, ma chi parte mona torna mona”.

Va rilevato altresì che una parte dei migranti verso le terre alte proviene da Paesi stranieri dove la povertà e la fame, accentuate da cambiamenti climatici assai più feroci che da noi, spinge alla fuga per disperazione. Salire per loro non è una scelta di vita, è un modo per sopravvivere. Si tratta tra l’altro dei migranti più disponibili verso i lavori tradizionali delle nostre montagne, come la pastorizia e i lavori agricoli o boschivi.

j
Le montagne dell'Altipiano dei Sette Comuni. Foto di Roberto Costa.

Negli ultimi trent’anni lo Stato ha chiuso tante scuole nei piccoli paesi montani, ma è arrivato di recente un segnale positivo: con sentenza n. 2202 del 2025 il Consiglio di Stato ha sancito che le scuole montane possono essere chiuse solo in casi eccezionali. Una decisione che mira a garantire il diritto allo studio anche nei piccoli borghi di montagna, per salvaguardarne il contesto sociale e culturale. I giudici si sono espressamente richiamati all'articolo 44 della Costituzione italiana, che prevede "provvedimenti a favore delle zone montane": imporre a bambini e famiglie di affrontare viaggi lunghi e difficili – specie d’inverno e in caso di maltempo –, per raggiungere una scuola lontana non è compatibile con lo spirito della norma costituzionale.

Di segno ben diverso purtroppo i contenuti del Piano Strategico Nazionale per le Aree Interne 2021 – 2027, che riguarda quasi 4.000 Comuni, 13 milioni di abitanti e un territorio pari al 60% del nostro Paese. Nel documento ministeriale, a pagina 45, troviamo un obiettivo 4 denominato “Accompagnamento in un percorso di spopolamento irreversibile” e un passaggio inquietante: “Un numero non trascurabile di Aree interne si trova con una struttura demografica compromessa (popolazione di piccole dimensioni, in forte declino, con accentuato squilibrio nel rapporto tra vecchie e nuove generazioni) oltre che con basse prospettive di sviluppo economico e deboli condizioni di attrattività. Queste aree non possono porsi alcun obiettivo di inversione di tendenza ma nemmeno essere abbandonate a se stesse. Hanno bisogno di un piano mirato che le accompagni in un percorso di cronicizzato declino e invecchiamento”. Un mix di parole banali e abusate (il solito “percorso”, disseminato 18 volte nel documento) e di garbata ipocrisia (un “accompagnamento” che evoca una sorta di eutanasia). Una direzione di marcia opposta rispetto alle istanze di recupero dei borghi, incentivazione di colture sostenibili, cura dei boschi e tenuta idro-geologica, sviluppo di un turismo diffuso e intelligente. E anche rispetto al tema dell’identità e delle radici, tante volte richiamato in modo retorico nella comunicazione politica.

La mobilità verso le terre alte è una grande opzione, di vita e di lavoro, ma solo se vengono garantiti i servizi essenziali e se utilizziamo le possibilità fornite dal progresso tecnico e scientifico per salvaguardarne l’ambiente naturale. Scriveva Giacomo Leopardi nello Zibaldone di pensieri: se l’uomo “distrugge la natura recide le radici del futuro”. Le montagne – come le colline e le pianure ancora verdi –, saranno salvifiche per gli esseri umani solo se preservate da un consumo avido e distruttivo, dall’eccesso di impianti sciistici, dal cemento e dai capannoni, da quel “progresso scorsoio” – per usare le parole del poeta Andrea Zanzotto – che sembra attanagliarle senza rimedio; ma anche dal lento abbandono pianificato in un documento governativo.

Per saperne di più

Per chi voglia approfondire il tema ambientale e sociale accennato in questo articolo, oltre al Rapporto montagna dell’Uncem consiglio di leggere almeno questi tre libri:

Luca Mercalli, Salire in montagna. Prendere quota per sfuggire al riscaldamento globale, Einaudi, 2020;

Mauro Varotto, Montagne di mezzo. Una nuova geografia, Einaudi, 2020;

Migrazioni verticali. La montagna ci salverà? A cura di Andrea Membretti, Filippo Barbera e Gianni Tartari, Donzelli, 2024.

Per chi vuole imparare come si vive e si lavora in montagna, e avere quindi maggiori possibilità di adattamento, consiglio di frequentare i corsi della Scuola di montagna curati dall’Università degli studi di Torino con il supporto della Città metropolitana.

In copertina, Salire le montagne, acquerello di Nicola Magrin.

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO