Speciale
La schiavitù canina
La cittadina attuale non ha niente da invidiare (si fa per dire) alle megalopoli del passato.
Quindi, anche se non sarà un flâneur in piena regola, il camminante-paria meranese è sottoposto pure lui alla sua brava serie di shock. Iniziamo dallo shock animale. Lo shock cani. I cani shock.
Tuttavia bisogna procedere per gradi. Chi ha un cane lo conosce essenzialmente come cane. Chi non lo ha, un cane, lo conosce essenzialmente come produttore: produttore di merda. Il ragionamento può proseguire: più cani ci sono, più c'è merda per terra. Ad Amsterdam, tanto per dire, città civilissima, non ci sono quasi cani, in giro per le strade, e la merda di cane è pressoché inesistente, per terra. Qualunque camminante meranese può invece asserire, senza tema di smentite, che: a) i cani meranesi sono tantissimi, b) che i cani meranesi non soffrono affatto di stitichezza. Al contrario.
Qualche volta, all'alba d'un mite mattino d'autunno, il camminante meranese sente avvicinarsi un frastuono spietato. Si ferma, in precario equilibrio sui risicati marciapiedi, e si chiede: ma cos'è questo fracasso, e a quest'ora poi? Poi capisce: sono gli spazzini tecnologici, detti anche tecno-spazzini. Hanno abbandonato da tempo le care, vecchie, fruscianti ramazze di saggina e sono dotati ora di certi infernali apparati risucchianti a motore, che vanno a benzina, che fumano e scaracchiano. Aspirano anche l'ultimo rimasuglio di foglia caduta, anche l'estrema parvenza di vegetale accartocciato. E sono supportati per giunta da camion enormi che, dopo l'aspirazione totale, percorrono strade e marciapiedi con spazzoloni rotanti spietati.
Il camminante si domanda: ma perché scatenare un Vietnam tale per un paio di foglie per terra? A quando il napalm? aggiunge fra sé. Poi capisce: le foglie sull'asfalto impedirebbero una perfetta aderenza alle merde di cane. Ma lamentarsi delle cacche di cani sui marciapiedi meranesi rappresenta una fase puerile, del camminante, ormai superata.
Una volta appurato che camminare sugli stretti marciapiedi meranesi è semplicemente fare lo slalom tra le merde, di cane; una volta assodato che gli stessi, marciapiedi meranesi, sono tutti o quasi istoriati dalle suddette merde, di cane, e arabescati di piscio, di cane, si può passare ad altro. Si può passare dall'effetto (la merda) alla causa (i cani).
Esistono cani di tutti i tipi. Ci sono i cani da valanga. Ci sono i cani da tartufo. Ci sono i cani da macerie, quelli che, frugando tra rovine riescono, con il loro fiuto miracoloso, a scovare almeno qualche vivo in mezzo a cumuli di morti. Ci sono i probi cani antidroga e i pazienti cani per ciechi (pudicamente definiti anche non-vedenti, come se la parola "cieco" fosse un insulto, e non lo è), ci sono i cani da caccia e i cani da slitta. A Merano no, il cane più diffuso è il cane da agguato.
La bestia si apposta silenziosa. Si acquatta. Si mimetizza. Si appiattisce. Dietro le staccionate. Dietro le siepi. Oltre i cancelli. Accanto alle colonne. Si mineralizza. Attende. Trattiene il fiato. Il suo fiato salino di cane. Non muove nemmeno un pelo della coda, mentre aspetta. Quando il camminante con il suo passo allegro e smemorato sfiora ignaro le siepi, le staccionate, cancelli e colonne, ed è tutto immerso in certi suoi beati pensieri che rasentano l'estasi, anche perché lì intorno non si vede anima viva – ecco che l'animale, la bestia, il cane da agguato meranese esplode, si scatena e abbaia furiosamente, ringhia, ulula, gnaula e sibila, peggio di un drago.
E perché? Ma per far prendere una sincope al povero camminante, reo solo di esser tale, cioè camminante e, in quanto tale, reo di camminare, sugli erosi marciapiedi meranesi. Se fosse un pericoloso criminale, a sfiorare con ben altre intenzioni le proprietà meranesi, i cani non farebbero nulla. Correrebbero a nascondersi. Perché il cane da agguato meranese è anche vile. Ma con il camminante no, si sbizzarrisce a spaventarlo a morte, e poi ride. Sì, sono sicuro, il cane da agguato meranese ride: mostra i denti, che lampeggiano tra le siepi, occhieggiano tra le staccionate, oltre i giardini, accanto alle colonne. E questi sono i cani chiusi nel loro territorio, che fingono di difendere. Altri shock per i camminanti essi li procurano quando escono dal confine dei loro abituri, giardini e parchetti, e si avventurano per le vie, al guinzaglio o meno dei loro padroni.

Il guinzaglio, ecco. Si può partire da qui. In un suo articolo, uscito su "la Repubblica" dell'undici luglio duemilatre, Umberto Eco ricordava che un gruppo di antropologi africani era venuto a visitare la Francia, tanto per capovolgere la situazione classica, perché di solito erano gli antropologi francesi a visitare l'Africa. Questi antropologi africani rimasero colpiti, raccontava Eco, come da una novità straordinaria, proprio dai cani al guinzaglio, dal fatto, per loro del tutto inedito, che i cani non scorrazzassero liberi, ma andassero in giro legati ai padroni.
Il camminante meranese, nel suo piccolo, rimane colpito dalla lunghezza attuale dei guinzagli. Ce ne sono di lunghissimi. Non se ne sono mai visti di così lunghi. Metri e metri di guinzaglio. Allungabili a piacere. A volte si aggrovigliano. Attorno a un albero. O attorno a un palo, un lampione, uno dei lampioni liberty meranesi. Oppure attorno a un altro guinzaglio, altrettanto lungo, di un altro cane, trainato da un altro proprietario. I due cani attorcigliati si scrutano, si fiutano, abbaiano l'uno contro l'altro. Scodinzolano se intuiscono una possibile avventura erotica. I due padroni si seccano, uno dell'altro, talora inveiscono, l'uno contro l'altro. Di rado accade che si scusino. Generalmente non dicono niente. Si ignorano imbarazzati, cercando di districare il groviglio che invece, come da copione, si intrica e intorcina sempre più. Sono scene spiacevoli.
Con guinzagli così ogni marciapiede si può trasformare in un canaio labirintico, in un ginepraio canino, in un soffocante intreccio di fili, grida sovrapposte, caos umano e animale indissolubilmente connessi. Ci vorrebbe un Alessandro, con la sua spada affilata, per troncare per sempre questi nodi gordiani.
Da un po' di tempo un cane solo non basta, ai padroni meranesi. Si vedono persone con due, anche tre, persino quattro cani. Cinque no, finora no. Due, tre, quattro cani legati a questi guinzagli esagerati. Come mai? Perché uno solo non basta?
Riflettiamo: chi è il cane? Che cosa rappresenta? Il cane, a ben guardare, rappresenta la fase impiegatizia dell’animalità. Anzi, la fase pensionistica dell’animalità. Il cane ha rinunciato alla sua libertà atavica. Alla libertà della corsa, del balzo improvviso, alla libertà di ululare alla luna nelle fredde notti d'inverno. Alla libertà dell'agguato (a Merano no, in effetti), della preda, della caccia, della ferocia, a tutto questo ha rinunciato. E in cambio di cosa? In cambio di un "posto sicuro", cuccia calda e pappa pronta. Quando vedo il discendente del lupo, dello sciacallo, trotterellare ansimando a ore fisse, accanto a un uomo, che non a caso si definisce suo padrone o, con suffisso ipocrita, padroncino, mi piange il cuore, realmente. E, da un po' di tempo, ai padroni uno schiavo solo evidentemente non basta. Ne vogliono due, tre, quattro. A cui impartire ordini. A cui parlare. A cui, essenzialmente, comandare. Il cane rappresenta quindi la fase schiavistica dell’animalità.
E, com'è naturale, dialettica hegeliana alla mano, succede spesso che il padrone diventi schiavo del suo schiavo. Esattamente come schiavo di una schiava, secondo Baudelaire, diventava l'uomo rispetto alla donna. In attesa di uno Spartaco dei cani, li si vede, i cani meranesi, trotterellare mestamente al seguito del padrone. Ansando, s'è detto, perché questi cani sono cani ben messi, grassi, si direbbe, anzi obesi. Sì sono davvero cani obesi. Portano intorno a fatica la loro trippa. Esondano ciccia. Trasudano lardo. Mangiano troppo, è chiaro. Del resto, cosa dovrebbero fare altrimenti? Stanno chiusi in casa tutto il giorno. Oppure si aggirano come pazzi nei loro microscopici giardini-gabbia, nei loro spelacchiati parchetti. Salvo uscire, al guinzaglio, la sera o la mattina, se il padrone concede. Sono cani tristi. Sono cani nervosi. E mangiano. Si avventano sui fetidi cibi che escono da immonde scatolette, da cui deriva quel loro fetido fiato salino.
Perché tenere un cane, se non si ha lo spazio adatto? Non so se il cane è il miglior amico dell'uomo, come si dice, ma certo l'uomo non è molto amico del cane. Del resto, tra padrone e schiavo che razza di amicizia può esserci? Comunque anche così, queste povere bestie con le loro trippe ballonzolanti, con le fauci spalancate nell'ansimo continuo, con il loro pelame opaco trascinato per gli stretti marciapiedi meranesi (o marcia-zampe, più correttamente), anche così sono rappresentative. Anche così comunicano. Non è possibile non comunicare. Cosa comunica il lardosissimo cagnetto meranese medio? La fine dell'Occidente. La morte per indigestione dell'Occidente. La grande abbuffata dell’Occidente, sì, proprio come nel film del 1973, La Grande Bouffe, con quei quattro indimenticabili interpreti, Mastroianni, Tognazzi, Noiret e Piccoli, a impersonare quattro figure simboliche del nostro mondo che si chiudono in casa, isolati da tutto il resto, a ingurgitare cibo, a ingozzarsi, a saturarsi di pietanze di tutti i tipi – fino a morirne, tutti e quattro, uno dopo l'altro, isolati dal resto.
Il cagnetto che procede a fatica, zavorrato dai vari TSCHAP, KANUB, DOGDELICE e consimili sbobbaglie, ci dice, con la sua mimica congestionata: creperete tutti, come quei quattro, come me, e non di fame, come i vostri antenati, o come i miei, antenati, ma di cibo, pessimo ed eccessivo. Quando il film di Ferreri uscì nelle sale, Pasolini ne sottolineò, come tratto saliente, "l'ontologicità allucinatoria dell'esistenza corporea". L'aspro tecnicismo filosofico "ontologicità" derivava a Pasolini da chissà quali pensatori, forse da Gustavo Bontadini, maestro di Emanuele Severino, o da qualche altro arduo teoreta esistenzialista. Il camminante meranese contempla attonito l'ontologicità allucinatoria dell'esistenza corporea canina. A ognuno il suo.
Leggi anche:
Alessandro Banda | Flâneur sotto shock
