Speciale
Mangiare con le mani
La forchetta, simbolo di civiltà, buone maniere, ricchezza. Un modo per mediare tra bocca e boccone, evitando i contagi che le dita potrebbero veicolare, ed esaltando, col valore ibrido di una pulizia che è purezza, una superiorità sociale tanto effimera quanto ostinata. Secondo un vecchio – ma non eterno – copione, usano le posate le classi agiate, tutte chiacchiere e distintivo. Mangiano con le mani quelle meno abbienti, interessate a nutrirsi più che a gustare manicaretti. Così almeno da quando la forchetta è arrivata sulle nostre tavole, grosso modo in tardo Seicento. Ancora il Re Sole guardava con sospetto chi, sembra proveniente dal nostro Paese, la adoperava con disinvoltura per connettere cibo e corpo, io e mondo.
Domanda: e quando la forchetta con c’era? tutti uguali appassionatamente? Macché. Come ha spiegato Massimo Montanari nel Sugo della storia (Laterza), i nobili usavano tre dita, mentre i contadini cinque, arraffando l’arraffabile. Come dire che un sistema di segni, per differenziarsi, per autoesaltarsi dileggiando l’altro, lo si rimedia sempre. E da queste tre dita, possiamo supporre, viene il diagramma visivo che la forchetta trasformerà in altrettanti rebbi.
Le cose cambiano di segno e di valore se pensiamo per esempio alle bacchette asiatiche, capaci di coccolare il singolo chicco di riso o pezzetto di sashimi disegnando, nello spazio impalpabile fra piatto ed esofago, fornelli e dentatura, preziose volute esteticamente efficaci. Laddove coltello e forchetta occidentali frantumano il cibo, lo lacerano con violenza per adattarlo alla cavità orale, le bacchette orientali – sostiene Roland Barthes nell’Impero dei segni (Einaudi) – lo indicano con rispetto prima ancora di ingoiarlo, come a ringraziare la materia alimentare che sta per costituirci. Ed ecco che, se inquadrata così, la forchetta diviene spietata, cattiva, riprovevole. “Grazie al bastoncino – scrive Barthes – , l’alimento non è una preda a cui si fa violenza (carni sulle quali ci si accanisce) ma una sostanza armoniosamente trasferita […], lasciando ai nostri costumi alimentari, armati di frecce e di coltelli, il gesto della predazione”. E ancora: “c’è nel gesto del bastoncino […] qualche cosa di materno, lo stesso ritegno, esattamente calcolato, che si mette nello spostare un bambino”. Lo strumento gastronomico giapponese, insomma, non squarcia, non fende, non ferisce, non taglia né afferra, come fa il combinato occidentale forchetta-coltello; semmai separa, divarica, sminuzza senza alcuna violenza né voglia di sopraffazione. E anche quando si adopera per portare il cibo alla bocca, quando i due bastoncini si incrociano, non formano una pinza ma una specie di paletta sopra cui il pezzettino si adagia con estrema delicatezza.
Punti di vista, grazie ai quali, si sa, i simboli, cambiando contesto mutano senso e valore. Di modo che quel che prima appariva come negativo adesso diviene positivo e viceversa. Le dinamiche culturali stanno nel gioco combinatorio di significanti e significati, granitiche convinzioni e loro ironici ribaltamenti. Può accadere che il mangiare con le mani, secolare segno d’incultura o grado zero dell’alimentazione, venga ripensato e rovesciato di significato, e con esso tutto il pacchetto di valori ideologici, estetici, perfino politici che porta con sé. È una tendenza oggi molto sentita, sia per la forte presenza di ristoranti asiatici e africani in tutto il mondo, sia, più in generale, per una specie di recupero semi-inventato della tradizione preforchettosa. Si moltiplicano proposte di ristorazione e relative compilazioni di menu che, inneggiando a una presunta immediatezza del corpo di contro alle mediazioni artificiose della posateria vecchia e nuova, fanno del mangiare con le mani un emblema di ritrovata libertà, di formalissima informalità. Così, entrando da Naks, un elegante ristorante filippino nell’East Village di Manhattan, siete gentilmente invitati a lavarvi le mani. Ci sono diversi lavabi in una parete molto larga sulla destra, di modo che tutti dalla sala possano assistere alle abluzioni, assicurandosi che le vostre dita sia davvero pulite. Dato che, raggiunto il tavolo, vi accorgerete che non ci sono posate. Occorre mangiare con le mani, ora con l’aiuto di manicaretti che svolgono il ruolo di agenti di comunicazione fra bocca e bocconi (gusci d’uovo spezzato che sostituiscono i cucchiai, piccoli cuscinetti di mais bianco macinato a mo’ di piccoli vassoietti…), ora con l’assistenza del pietoso personale di sala, che fornisce di contino asciugamani tiepidi per nettare le dita sporche di salsine iperpiccanti. Ma è un esempio fra tanti nel mondo, dove questo fantomatico ritorno alle radici si rivela essere l’ultima effimera tendenza modaiola appositamente condita da estetiche e ideologie naturiste.

Non manca chi, rivendicando gusti idiosincratici, fa dell’abbandono delle posate una vera e propria filosofia, battezzata conlemanismo per l’occasione. È la proposta, prevedibile a lunga gittata ma sorprendente nell’immediato, fatta da Allan Bay, noto gastronomo a tutto tondo (cuoco, critico, editore e divulgatore di tutto ciò che col cibo e con il gusto ha a che fare) in un libro dello scorso anno intitolato Elogio del mangiare con le mani (Il Saggiatore). Qui Bay dichiara di preferire le dita ai dentini della forchetta, e con esse tutto ciò che è acchiappabile, per così dire, nature. Rientra con tutti gli onori il tatto a corroborare il gusto (del resto, si mangia col cervello prima ancora che con la bocca), viene snobbata la smania di pulizia (c’è pur sempre il tovagliolo), torna la pratica del mordere senza mediazioni (con il piacere dell’intimità), si invoca una specie di ritorno alle origini (ontogenetiche e filogenetiche) che, mettendo al bando le posate, prende surrettiziamente in giro chi, invece, ostenta il loro uso.
Ne viene fuori una nuova, generale prospettiva sulle gastronomie nazionali e locali, i sistemi di piatti e di ricette, le loro classificazioni posticce. Un ‘conlemanista’, dice Bay, è uno che guarda al mondo della cucina sulla base dei sistemi di presa del cibo e delle tecnologie – cucchiai, coltelli, forchette, dita, bacchette, stecchini e quant’altro – che li supportano. Altro che crudo e cotto, dolce e salato, miele e ceneri: per lui c’è semmai il liquido e il solido, il (troppo) caldo e il (mediamente) freddo, il (già) porzionato e l’intero (da dividere), come dire il prendibile e il non prendibile con le mani. Una specie di nuova visione del mondo alimentare, o forse del mondo in generale.
La parte più interessante di tale divertente apologia del mangiare con le mani appare, inevitabilmente, quella legata a quest’originale tassonomia del commestibile, dove si individuano con scrupolosa pazienza i piatti – e le relative procedure d’esecuzione – che in pressoché tutte le cucine del mondo, scopriamo, sono consumabili con le mani. Altro che sussiegoso finger food. La parte del leone la fa neanche a dirlo la frittura, sia essa nel cibo da strada o nei manuali di Escoffier. E poi il pane, la pizza, le tartine, i toast, il panettone, via via fino ai chicarrones peruviani, le empanadas venezuelane, la fugazzeta argentina, i flautas messicani, i calamaretti filippini, le frattaglie vietnamite, le rane cinesi… Un giro del mondo in centinaia di pietanze succulente, per la gioia delle dita (e meno del tovagliolo).
Ancora una volta i linguaggi dell’enogastronomia si rivelano essere non cumuli informi di simboli isolati ma di complessi sistemi di corpi e di cose, soggetti e oggetti, ideologie e tecnologie. Decidere di mangiare con le mani è un gesto che convoca, volente o nolente, un intero mondo umano e sociale. Da un lato, le dita assurte a protagonista del pasto sono soltanto un attore entro un vasto progetto di redesign della tavola, dove non c’è cuciniere che si rispetti che non si faccia oggi progettare dall’architetto di turno piatti e bicchieri, tovaglie e posate, con tanto di iniziali come nelle camicie dei sedicenti vip. D’altro canto, quest’esigenza di personalizzazione dello spazio della ristorazione, foss’anche quello del tinello di casa, ha la necessità di appoggiarsi su una serie di meditazioni filosofiche che ripensano insieme il corpo come macchina mangiante attraverso i suoi canali sensoriali e la storia come luogo di compromessi e conflitti, corsi e ricorsi (tradizioni, innovazioni, recuperi, rivendicazioni…). La tecnica, fosse pure quella del non averne, non è il declino inesorabile della metafisica ma il suo rilancio incessante, con altre fattezze, altri mezzi, altri valori. Il tutto a condizione di allentare le accigliate disposizioni dei galatei, in modo da ripensare in toto la civiltà delle buone maniere: non percorso evolutivo che mira a distaccarci dallo stato ferino, come volevano Vico ed Elias, ma dispositivo eternamente rivedibile, pacchetto di valori da negoziare alla bisogna. Se ne ricava, alla fine, come appunto fa Bay, una riclassificazione complessiva del ricettario implicito d’ogni cultura, micro o macro. Non c’è più servizio alla russa o alla francese, modi ordinali o cardinali di servire le pietanze, ma conlemanisti e loro accaniti avversari. La vecchia zia, possiamo giurarlo, da Naks non entrerà mai, agitando la bandiera semiotica dell’argenteria ricevuta in eredità dell’antenato ammiraglio.
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