Sguardi / Congedo dal paese e dalla vita

5 Giugno 2016

Non importa che torno sempre qui dai miei giri, il mio rapporto con questo paese non c’è più. Il paese non aspetta il mio ritorno, non ha una casella per me, non sa dove mettermi e io non so dove mettermi. Sto in casa e quando esco parlo al telefono, non parlo col paese. Quando non parlo al telefono cammino alla larga, sul bordo. Il paese forse è ancora vivo in me, ma io non vivo più nel paese. Forse la mia paura di cadere a terra morto non è altro che la paura della mia casa sospesa sull’orlo della frana. Io ho pensato che la paura fosse di mia madre, invece è la casa che ha paura. I cani la notte quando abbaiano sembrano volerla tirare giù. La mia vita nel mondo prosegue attraverso le mie parole. Vado in giro a dire cose sul mondo e sui paesi, ma io non sono più una persona del mio paese. Forse non sono più nemmeno una persona e quando sono una persona sono un fastidio, la mia ansia non la sopporto più nemmeno io, non posso pensare che la sopportino gli altri. E forse cominciano ad essere insopportabili anche le mie parole. Ogni vita si squaglia a un certo punto o si aggroviglia, comunque prende una sua via fallimentare. Anche le vite attente, le vite buone, comunque non risolvono niente.

 

Non risolve niente il successo e neppure la sventura. Si consumano anche i nostri vizi, non ha più ragione di esistere la nostra malattia e neppure ha senso guarire. La vita al mio paese ormai può essere solo quella di un passeggiatore solitario. La poesia finisce sempre nel nulla, almeno per chi la scrive. A me poi succede che il dolore quasi mi ravviva, questo nulla in cui mi trovo non è che mi fa più paura delle cose che sembrano riuscite, un libro, un amore. Il paese sa che altri paesi un poco si occupano di me, spera che questo interesse non diventi troppo grande. Il paese ha ragione, sa che non andrò lontano, in fondo sono qui per ripetere il suo fallimento, non posso uscire dal suo cono d’ombra e in fondo non voglio farlo. Io questo paese non l’ho mai lasciato per più di quaranta giorni. Magari quando saprò andare via per un tempo più lungo mi accadrà di tornare e di provare un’indifferenza definitiva, oppure un soffio di dolce confidenza. E comunque ci sono dei gesti a un certo punto che squarciano il nostro rapporto con gli altri.

 

La corda non tiene. La corda mi serve a tenere unite le mie parti, non ce n’è abbastanza per unirmi agli altri e per unirmi al mio paese. Ecco, questi sono i giorni della disunione, i giorni in cui la vita vecchia finisce e non inizia una vita nuova, vanno in giro solo le mie parole e il mio corpo che serve a portare in giro le mie parole. La vita non c’è più, anzi non c’è mai stata, anzi c’è stata fino a quando era tutta chiusa, fino a quando le mie parole non le voleva nessuno. Allora c’era il paese, c’era una mia alleanza con chi mi prendeva in giro, con chi non credeva in me, erano comunque legami, ero il nodo di una rete. Adesso sono solo. Quando esco nel mio paese la mia solitudine è chiarissima. Solo come mia madre nella sua bara e come mio padre, pure lui nella sua bara. Io proseguo la loro sventura, loro non hanno mai creduto a nessuna felicità e io proseguo il loro sentimento. A giudicarla da fuori la loro poteva sembrare una vita riuscita e invece io che li ho sempre visti da vicino e da sotto lo sentivo chiaramente che c’era un guasto, che non potevano farla una vita felice, come se venissero da un guasto antico, un qualcosa che li rendeva diffidenti rispetto alle cose riuscite, sempre protesi a cercare i segni di ciò che si perde o si rompe. Forse la colpa è dei demoni che stanno sotto questa casa, mischiati all’argilla, forse alcune persone e alcune famiglie sono fatte per dare forza all’ombra, per tutelare le paure, le colpe, le insufficienze.

 

A un certo punto non ce la fai a tenere a bada i tuoi guasti, a un certo punto fai un errore e poi ne fai un altro ed esplode il fatto che non appartieni a nessuno e nessuno ti appartiene. Non sai se la vita prosegue, come prosegue. Prosegue il paese, prosegue la famiglia, la letteratura e le amicizie, ma tu non ci sei più, non sei dentro una vita più intensa, più pura, non sei neppure una formica, un albero, non sei un pezzo di natura e non appartieni più alla cultura, non sei con gli assenti e neppure col consorzio dei presenti. Vagherai, non si sa se per poco o per molto, vagherai fino a quando alla vita gli serve che tu sia vivo, luciderai il pezzo di sofferenza che ti è assegnato, proseguirai il lavoro dei tuoi genitori. Non è più nemmeno importante il luogo in cui si svolge la scena. La vita si rompe a un certo punto perché cresce o perché rimane ferma. Tra te e il mondo non ci può essere una calma condivisa, o saltano i nervi a te o saltano al mondo. Dunque, da questo punto in poi, forse attraverso le mie parole, anche queste parole, posso essere utile a qualche altra vita, non certo alla mia. Io già non parlo più dalla mia vita, sto parlando da un altro luogo. Vivo in un paese senza pietre e senza carne, sono esiliato dal sangue e dalla storia, posso solo passarci per questi luoghi, descriverli, ma non posso vivere dentro il mio sangue e dentro la storia degli uomini, mi fa paura il mio sangue e mi fa paura la storia degli uomini, mi fanno paura anche gli amori tra gli uomini e le donne, mi fanno paura le cose che durano, le cose che hanno la fermezza di esistere.

 

Io sono per le apparizioni, brevi passaggi, fughe, letizie provvisorie e un po’ casuali. Ora si è fatta ripidissima la mia vita, si è fatta un precipizio, in cui cado e cadono con me le cose vicine, cadono le cose che ho in me, mi cade il cuore, cadono le amicizie, cade ogni attimo, il tempo non è una pista, non sto su una strada, scendo scale fatte d’aria, mi arrampico al vento, è tutta nell’aria la mia vita, la mia vita è propria aria, aria della fine, aria infantile, le mie frasi le leggo bene solo io e i ragazzini, un adulto che si mette una mia frase in bocca un poco la rende falsa, le mie frasi hanno bisogno di quel respiro incerto dei ragazzi di tredici anni, di quella paura e di quella perversa convinzione di non arrendersi al mondo. Io sono rimasto dentro la poesia, senza che la poesia venisse mai veramente in me, senza che mai una donna venisse mai veramente in me e neppure un cane mi ha mai incontrato e un tramonto. Io non ho mai parlato con nessuno. La mia inesperienza della vita è radicale e irrimediabile a questo punto. Mio padre e mia madre non mi hanno dato il rocchetto intorno a cui avvolgere il filo. Non so domani che giorno mi aspetta. So che andrò in un paese che non è il mio paese. Andrò a Castelnuovo di Conza, voglio fare un film senza montaggio. Un film che si chiama un giorno in un paese ma potrebbe anche chiamarsi un paese in un giorno. Non andrò a fare interviste. Punterò l’obiettivo sui muri, sulle porte sfondate. Questo lavoro non posso farlo al mio paese e in nessun altro paese. La cosa che ho in mente può accadere solo a Castelnuovo. Sarà un giorno estremo, pieno di convinzione, da qui alla morte le mie giornate saranno ripidissime, estreme, irrimediabili. Giornate senza corde, senza colla, senza imbuto, giornate di angine ed ematomi. La mia vita sarà una crudelissima festa, coi fuochi d’artificio dello spavento.

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