Accampati a Porta Pia

25 Ottobre 2013

Se ne sono andati da Porta Pia gli acampados, gli antagonisti. Erano arrivati sabato sera, la sera del 19 ottobre, dopo la manifestazione che da San Giovanni, attraversando la città, li aveva portati fino al simbolo storico della presa di Roma. È in questa zona che si annidano importanti centri di potere: ci sono diversi ministeri (Lavori Pubblici, Trasporti e poco distante quello delle Finanze) e la sede centrale di Ferrovie dello Stato, simbolo di quella Alta Velocità Torino Lione divenuta metafora di un profondo scollamento Stato-cittadinanza.



Nei giorni precedenti il 19, i mezzi di informazione, in primis i grandi quotidiani, hanno creato un notevole allarmismo sull’arrivo a Roma di centinaia di migliaia di manifestanti, probabilmente violenti, probabilmente black block, probabilmente incappucciati e tirasassi. In realtà, a parte qualche scontro, il corteo è stato soprattutto allegro, colorato e multietnico. Ha racchiuso al suo interno diverse anime e istanze: i movimenti per la casa, quello dei precari, i migranti, i gruppi dei centri sociali e tanti fronti del no della nostra attualità (No Tav, No Muos, No Expo). Tutti accomunati dalla protesta contro le politiche di austerità e di precarietà. Ad aprire il corteo uno striscione che recitava Una sola grande opera: casa e reddito per tutti.

 



L’accoglienza della città al corteo di 70mila persone non è stata delle migliori.
Ore 14 di sabato. L’atmosfera a Porta Pia sembra post-atomica. Il mercato di Piazza Alessandria, là vicino, è già chiuso. Un cartello annuncia agli abitanti del quartiere la chiusura anticipata a causa della manifestazione. Peccato, il sabato è giornata di grandi affari per i pochi commercianti e le poche bancarelle rimaste in uno dei mercati storici della città. Anche il 90 per cento dei negozi del quartiere è chiuso. Un supermercato ha ricoperto le sue vetrine con una spessa lamiera antisfascio.

 

Le strade deserte, solo qualche passante gironzola ignaro con il cane. Sembra la mezz’ora prima di un coprifuoco. “Strano” mi dico “mancano diverse ore all’arrivo qui dei manifestanti e già si respira un’aria sinistra”. Il traffico è già deviato, le automobili non possono attraversare l’incrocio di Porta Pia e le strade limitrofe; le volanti della Municipale deviano già lungo percorsi alternativi. Agli angoli delle strade bizzarri personaggi, mai visti prima nel quartiere, e poco intuito ci vuole per capire dai loro volti seminascosti dietro occhialoni a specchio chi siano. Aleggia un clima da anni Settanta, da guardie e ladri che non preannuncia niente di buono. Davanti ai grandi ministeri, sono parcheggiati giganti mezzi della Polizia a protezione dei palazzi. Tutto tace nell’attesa.



Mi chiedo: che razza di Stato è quello che deve temere propri cittadini che manifestano per diritti primari, come la casa o come il reddito? Chi è sceso in piazza e chi si è accampato a Porta Pia per tre notti di fila fa parte di una fascia della popolazione che vive al margine di una società sempre più povera. C’è anche chi è arrivato in Italia con mezzi di fortuna in cerca di una speranza e appunto di fortuna: diciamo che non l’ha trovata. A Porta Pia ci sono quelli che non hanno un futuro davanti.

 

Siamo davanti a un apparato statale che ha smesso di difendere i propri cittadini e ha iniziato a difendersi dai propri cittadini. Un apparato statale che, inseguendo politiche di austerità e risparmio imposte dall’Europa, ha smesso di produrre servizi e soluzioni per i propri cittadini, politiche attive per l’occupazione e per il lavoro. Accade in un’Europa che si trova svestita anche dei grandi ideali iniziali che un tempo alimentavano l’europeismo stile anni ’90; oggi è un’Europa che produce solo numeri e conti, parametri e stime di debito. Un’Europa senza europei.



Perché mai dovremmo affezionarci a questo macro-stato e nutrire fiducia? Ma questa è una riflessione di chi una casa ce l’ha e può interrogarsi su questo dato. Ma gli acampados e l’umanità che vogliono rappresentare se ne fregano di tutto questo. Ci sono questioni che sono urgenti e che non vengono nemmeno considerate, scavalcate da altre priorità già fissate con accordi che passano sopra le nostre teste. E che non sono discutibili. E allora contro uno Stato che non si accorge di queste urla di dolore e di disagio occorre urlare ancora più forte, prendersi le piazze e combattere. Con sempre più rabbia e sempre più disperazione.

 



Sono sempre i più poveri a essere travolti dai tagli e a essere travolti dalla crisi come da un fiume in piena. Per loro non c’è scampo. Prima si perde un lavoro, questo comporta in tanti casi inceppare la propria economica domestica e mettere, così, a repentaglio l’affitto o il mutuo della propria casa, le spese per i figli, il denaro per curarsi. Si è andato tagliando ogni sorta di ammortizzatori sociali e quei pochi sprazzi di aiuti alla cittadinanza che c’erano, ora non bastano più. È un circolo vizioso di miseria in cui stanno cascando sempre più persone, qualche milione addirittura secondo gli ultimi sondaggi.

 

Il tutto mentre nelle stanze della politica si celebrano, da due anni oramai, le cosiddette larghe intese, la massima tra tutte le conciliazioni di contraddizione. Anche contro questo è rivolta la protesta di Occupy Porta Pia. Ma non contro la sinistra storica, quella che proviene dall’esperienza comunista, che si unisce alla destra di un (dal primo agosto) pregiudicato. Non contro questo che non interessa, bensì contro l’inutilità e la perdita di tempo della loro politica. Un fare/non fare che gioca sulla pelle della gente: si discute da mesi dell’incandidabilità di uno e da mesi si discute dell’annullamento di una tassa sulla proprietà come la prima casa. Ma questo non è un problema della piazza di Porta Pia: loro in molti casi una casa non ce l’hanno. Qualcuno di loro vive per strada, qualcuno di loro si è unito ai movimenti per la casa e alle loro occupazioni, qualcuno di loro non l’hai mai avuta e qualcuno di loro probabilmente la perderà fra non molto tempo.



Gli acampados se ne sono andati e noi continueremo, ogni sera, a guardarci alla tv un talk show che ci racconta di come se la passano male gli italiani. Mentre là fuori c’è davvero sempre più gente che dorme per strada e che razzola nei cassonetti in una Roma e in un’Italia sempre più desolata. Fanno a gara ad accaparrarsi i posti più caldi, vicino agli imbocchi della metro o nei sottopassi, caldi di smog. È un’emergenza abitativa sempre più grave a cui una metropoli come Roma non sa rispondere, se non affittando costosissimi residences per sistemare pochissime persone e risolvere l’emergenza di una percentuale irrisoria di persone.

 

Peccato perché la città pullula di appartamenti e case vuote, chiuse da anni o di costruzioni terminate e mai vendute. Ma queste soluzioni sono troppo complicate e rapide. I tempi della politica sono altri: per il momento il sindaco ha chiesto al governo di bloccare gli sfratti, ma è tutto da vedere. Quel che è certo è che gli acampados non molleranno perché non hanno niente da perdere. E quando non si ha niente da perdere non si molla.

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