Speciale

Trieste - Dakar

6 Maggio 2011

Un semplice marciapiede, una passeggiata tra il mare e la montagna, divise fra loro da una strada trafficata in mezzo alla città. Barcola, quartiere di Trieste, è, per i locali, un sogno mitteleuropeo dove tra ragazzini in skate e vecchie signore bruciate dai raggi del sole si incontra tutta la popolazione che cerca di accaparrarsi la luce e distrarsi dal lungo inverno. Da aprile a ottobre i triestini, armati di asciugamani, creme solari, materassini colorati si accoccolano, stretti come sardine, uno accanto all’altro in quel tratto di marciapiede che ai loro occhi pare Saint Tropez. Nella pineta antistante, famiglie intere si accampano, organizzatissime, con tanto di tavoli per mangiare, amache per riposare, carte per giocare partite di tresette o scopone scientifico, sdraio ultimo modello per rimirare il tramonto. Agli occhi dei forestieri tutto questo può apparire follia. Portai un amico siciliano in questa spiaggia dell’immaginario. La vide e con delusione mi disse: “Ma siete praticamente in strada! Ed il mare è nero”. “Sì”, gli risposi “ma per noi è magia e riusciamo a scorgere persino acque pulite e fresche”. Non mi capì ed io non riuscii a spiegare il sentimento “barcolano”. Un pezzetto di Trieste brulicante di vita. Una vita speciale, diversa, dove i pensieri quotidiani si annullano e finiscono mentre ti tuffi o ti arrampichi sugli scogli per risalire a scaldarti disteso sul cemento. Nei tre chilometri di “spiaggia” c’è solo qualche bar e un paio di stabilimenti conosciuti come “Topolini” per la loro forma semicircolare simile alle orecchie dei roditori. A distanza regolare si trovano alcune fontanelle dove la gente si abbevera, si sciacqua o riempie secchielli per i bimbi più piccoli che cercano sassolini in mancanza della sabbia.

 

Le fontane parlano con il loro gorgoglio e richiamano l’attenzione di tutti. A volte c’è la fila e nell’attesa del proprio desiderio ci si incontra. Sconosciuti che si specchiano in una strana e comune radice, un senso di appartenenza allo stesso gruppo. Noi siamo barcolani, non c’è alcun posto al mondo più bello di questo. Si parla, come se la conoscenza fosse antica. L’impiegato che è appena uscito dal lavoro stressato e gessato se la ride con la vecchia che gli racconta di sua nipote, emigrata in USA dopo essersi presa la laurea in fisica. Il sole è poco qui al nord ed il bikini anni cinquanta è di rigore per la signora ottantenne che tiene banco sciorinando una conferenza sulle meduse. Nessuno vede la cellulite, le pelli cadenti, le depilazioni artigianali. No, non importa a nessuno. Il ragazzotto abbronzatissimo, con occhiali a specchio in cerca di ragazze gioiose beve direttamente dalla moderna spina che sostituisce la testa di leone originaria. Poi se ne va in compagnia di Imad il senegalese che tutti conoscono. Vende da anni accendini e cavigliere mediorientali e parla in stretto dialetto triestino. Nascosti dai radi alberelli della pineta, Imad ed i suoi amici, dopo il lavoro di ambulanti, si riposano tra le fronde e tra sapori e profumi esotici si preparano il tè con un fornello da campeggio.

 

Conosco Imad da quando mi sono trasferita in questa città senza desiderio, irragionevole e decadente. So dei suoi quattro figli e della moglie bambina che vive ancora vicino a Dakar. L’appuntamento, tacito e discreto, è vicino alla fontanella. Nelle serate estive ci facciamo lunghe chiacchierate e mi racconta straordinari aneddoti sul suo paese ed i suoi colori. Sorride sempre Imad. Mentre mi parla, mette a posto la mercanzia invenduta con cura certosina, con l’attenzione metodica di chi ha terminato la giornata di lavoro. Piega gli asciugamani ed i vestiti floreali, ripone la bigiotteria in una scatola variopinta, dove all’interno un labirinto di legnetti separa gli anelli dai bracciali. Poi si toglie le scarpe. Si siede sul ramo di un pino marittimo. Da quello sgabello offerto dalla natura ci si può rinfrescare con facilità. Si toglie le calze. Non ha pudori nei miei confronti ed io mi sento partecipe alle sue storie, quasi ne facessi parte. Lentamente si sciacqua i piedi, li tiene quasi a mollo in quell’acqua gelida che fluisce potente. C’è un tastino moderno al lato della fontana e per dare potenza al flusso bisogna premerlo circa ogni dieci secondi. Quello è il mio compito. La gente si ritira e all’improvviso sparisce. Rimaniamo soli, Imad ed io. Nel silenzio del crepuscolo si sente una voce calma, suadente che più che raccontare ricorda. Un colpo ogni dieci secondi e il fruscio dell’acqua regalano ritmo alle parole. È tardi, saluto il mio amico, respiro quel po’ di iodio misto allo smog delle automobili, bevo un ultimo sorso raccogliendo l’acqua a piene mani e mi incammino verso casa.

 

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