L’apocalisse è quello che c’è già?

28 Maggio 2014

Come tutti sanno, e i commentatori hanno sempre sottolineato, anche all’interno dello speciale di doppiozero dedicato ad Apocalittici e Integrati, il libro di Eco ha “fatto epoca”. Per il titolo/slogan (come, del resto, per il primo libro, Opera aperta; ed Eco, riporta nella sua famosa e sempre ricordata prefazione, che il titolo fu, sintomaticamente, invenzione dello stesso editore, Valentino Bompiani). Slogan che è, al tempo stesso, sintesi di un vero e proprio programma di ricerca, dettando la linea per gli studi massmediologici a venire: seppure in una prospettiva del “giovedì prossimo”, vista la rapida trasformazione della materia, come metteva in guardia lo stesso Eco, e come ci ricorda Marrone.

 

E per aver dato la sveglia, o aver segnalato, ad una, a quanto pare, catatonica, prima che catodica, Italia degli anni ’60, in vista di eroici ed erotici risvegli. E quindi via da Claudio Villa, perlomeno verso un Bobby Solo per la prima volta in playback a San Remo; e poi vai con Modugno, e la nuova musica “leggera”, sotto l’influenza di chansonniers e di crooners, cool jazz e tempi terzinati; alla critica della traduzione di If I had a hammer del sovversivo Pete Seeger, nella versione “bambocciosa” per Rita Pavone; alle proposta di analisi, contro pubblico e critici moralisti e retrogradi, della “musica in scatola”, della ricerca elettronica e della musica concreta di quegli anni; e di qui le considerazioni sull’uso dei primi effetti speciali, eco magnetica, in musica. Fino alle prime analisi del “discorso” della diretta televisiva, e dell’articolarsi dei possibili generi televisivi.

 

O, ancora, le anticipazioni di quelle che saranno poi le due vere ossessioni teoriche di Eco, a partire da una critica delle teorie estetiche: lo studio dei tipi e delle tipizzazioni (dei personaggi, delle situazioni narrative, dei luoghi: dai romanzi, ai fumetti, ai gialli); così come la prefigurazione, a partire dagli studi sull’estetica della ricezione, di una teoria del lettore e dell’interprete. Infine, quelle che ancora oggi sembrano essere delle vere chicche: prefigurazione dell’idea di traduzione fra linguaggi, fra il filmico e il televisivo, fra la musica e la tv; allo smascheramento delle assiologie, nella fantascienza distopica, o delle ideologie nel fumetto, già esso stesso carico, non solo di citazioni, ma di traduzioni inter-semiotiche, con il linguaggio del cinema: fra sguardi, punti di vista, soggettive, ritmi.

 

Fino alla riarticolazione del concetto di “iconosfera”. E, di qui, fino ad una prefigurazione fantascientifica e visionaria dell’idea di “mutante”: figura del cyber e di tutte le reti a venire. Dunque: apertura, non di uno, ma di molti vasi di pandora dei consumi culturali – a partire soprattutto dagli studi sociologici statunitensi e sui mass media, incrociati, e sta anche nell’incrocio la forza innovativa del libro, con le teorie estetiche europee, e le nascenti semiologie strutturali – sotto gli incerti occhi delle scienze umane e delle, allora, nascenti discipline della comunicazione e degli studi culturali. Certo, tutto questo è fondamentale.

 

Tuttavia, oltre a fare epoca, e a proporre delle vere e proprie illuminazioni profetiche, che cosa ne abbiamo fatto, o meglio, che cosa ne avremmo potuto fare dell’arci-opposizione slogan? Fra abissi dell’apocalisse mediale e destino neg-entropico di una appiattita curva integrativa? Abruzzese è, negli interventi di questo dossier di doppiozero, fra i pochi che, quanto meno, accenna ad una messa in questione dell’opposizione fra le due categorie. E parla della necessità di negarla in una “congiunzione oppositiva”, sin da allora (con apocalittici “rivelatori”, e integrati “abitanti” del mondo). Ma forse, allora (e oggi?) le due categorie non sono che soglie: e quindi avrebbero dovuto e potuto essere attraversate molto di più, e più volte; ed in entrambi i sensi.

 

D’altra parte, lo stesso Eco sembra, a volte, schizzare possibili figure intermedie, ed altre ancora a venire. (Forse, un sano quadrato semiotico, con spruzzata di dinamismi processuali, sarebbe stato, con senno, e senso, del poi, perlomeno utile, ed auspicabile, per sfuggire a rigidi binarismi). Quella figura dell’“apocalittico fiammeggiante” è una delle possibili. Ma allora si potrebbe pensare anche all’“integrato debordante”, all’“apocalittico riottoso”, o a quello “in via di integrazione”?

 

Infine, le diverse edizioni del libro sono state segnate in modo alternativo, dai passaggio generazionali e passionali, anche rapidi, e a distanza di non tanti anni. Ancora una volta, Gianfranco Marrone sottolinea della “sua” edizione: del ’77, dice, del prossimo avvento di tristi figuri in P38. Anch’io come lui, mi permetto – ma come lui non volendo piegarmi su uno sguardo ombelical-generazionale – di ripensare, dalla “mia” propria copia di Apocalittici. Di un altro, di pochi anni dopo, ’77, anzi di una ristampa del ’78, mal letta, e a fatica, negli anni seguenti, mal digerita, e poco riletta; anche rispetto agli altri libri di Eco. Consigliata da prof. di inglese in odor di strutturalismo, in prima liceo, con cortocircuiti con i “fratelli” un po’ più grandi, già in vena di Alice e di Deleuze.

 

E dei riverberi di una rivolta appena avvenuta. Oggi, uno scrittore, leader e fiero avversario di allora, Franco Berardi Bifo, direbbe che, forse, in fondo, ha avuto ragione Eco. Tuttavia – e al di là, evidentemente, del lavoro di innesco culturale compiuto da questo libro – perché mai, allora come oggi, pensare che vi siano “apologeti” da un lato (con il loro “errore”, del “ritenere che la moltiplicazione dei prodotti dell’industria sia di per sé buona”)? E “apocalittico-aristocratici” dall’altro (con il loro errore di “pensare che la cultura di massa sia radicalmente cattiva”)? E noi “bravi critici/analisti” là nel mezzo? Cosa mancò e manca questa separazione, che sembrava mantenere le categorie di “superiore”, “medio” e “inferiore”, seppure fra le “virgolette” degli utilizzatori?

 

Manca, di situazionismo e dei suoi detours “fra”, anche fra le due categorie (appunto i “segnalatori” apocalittici e gli “abitanti della città”, che ne colgono i segni silenti), manca, con lettura retrospettiva, di de Certeau e delle tattiche e strategie di resistenza: cioè, manca, quindi, di “Resistance through rituals”, degli allora nascenti cultural studies anglosassoni, proprio a cavallo degli anni di quelle edizioni. Studi – certo, ancora una volta con il senno, e segno, del poi – che sono direttamente connessi ad un altro ’77: quello del punk inglese e americano.

 

Dove si collocano questi, dell’iconoclastia, della semioclastia, della messa in pratica del do it yourself e dell’anticipazione di autoproduzioni, dei “makers” e “media dal basso”? E infine, oggi, dove stanno le forme, gli oggetti e le pratiche seriali della rete e del deep-remix attuale? Che continuamente, nel ri-produrre se stesse, oggetti al tempo stesso midcult e teorici, sono non soltanto per “nicchie” di nerds in fandoms, ma per nuvole che si spostano nell’attuale iconosfera? Stanno in mezzo, sopra o sotto? Ecco, provare a ri-ripensare, ancora una volta, a vampiri integrati e ad apocalittici paciosi. Magari, proprio come in quella rivista americana degli anni ’60 “di quart’ordine”, come descritta da Eco, che pubblicava racconti “per aiutarvi a diventare vampiri”. Ma comunque, più in generale, pensando al manicheismo come lotta, dunque legame, fra opposti.

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