Carmen, l'amore dissoluto

16 Aprile 2015

Esistono pagine della nostra letteratura europea che, pur appartenendo ad altre epoche storiche, hanno mantenuto nei tempi attraversati una sorprendente capacità di aderenza all’attualità: opere che sanno trovare al loro interno un potenziale di modernità che le proietta nell’oggi e nelle questioni che lo animano. Carmen di Prosper Mérimée è certamente una di queste opere. Soprattutto attorno a questa novella si sviluppa il lavoro di Mario Martone in scena al Teatro Argentina di Roma fino al 19 aprile.

 

Con questa produzione del Teatro di Roma e dello Stabile di Torino, si rinnova il sodalizio tra Martone ed Enzo Moscato, autore di Lacarmèn, stesura napoletana dalle pagine di Mérimée, creata ad hoc per questa occasione. Nella riscrittura sono introdotte alcune novità importanti, come l’ambientazione dell’opera a Napoli, città che non solo fa da sfondo all’opera, ma che si erge a vero e proprio cosmo di azione, con le sue caratteristiche contradditorie e fascinose. Si passa così dalla originale Siviglia e dall’universo andaluso alle stradine dei Quartieri Spagnoli, in quell’atmosfera di città baluardo del Mediterraneo, porto di attracco di umanità differenti, dove i destini lontani degli uomini trovano consuete e inconsuete strade per incrociarsi.

 

ph. Mario Spada

 

Le vicende di Carmen e di Cosé, Lilà Bastià, di Zinuga e ‘O Torero (il torero Escamillo, per l’occasione anche fascinoso cantante) si intrecciano alimentando quel mix di culture e parlate diverse che confluiscono nella città partenopea. L’opera di Martone guarda alla tradizione di un luogo cosmopolita, un po’ struggente e pericoloso, un po’ melodrammatico e superbo.

 

È una raggiante Iaia Forte a vestire i panni di Carmen: entra in scena con una benda sugli occhi, si muove lentamente sul palco, il suo viso emerge lentamente dal buio. È cieca. E subito capiamo che il suo destino è cambiato rispetto alle scritture passate; difatti non muore per mano del suo vecchio amante, ma sopravvive, privata della capacità di vedere il mondo che la circonda e gli occhi che su di lei si andranno a posare. Alle prime battute Carmen affida la sua presentazione: «una donna allo stesso tempo puttana e filosofa», definizione che rifugge ogni tipo di romanticismo femminile e ogni eventuale possibile compatimento. A Carmen non importa di farsi compatire, né di farsi comprendere. È moderna e vive all’insegna solo della sua libertà e della sua autodeterminazione personale. È una donna borderline, abituata più a stare fuori che dentro le convenzioni, a ingegnarsi più che ad attendere, a scoprire più che a farsi scoprire. È un personaggio che, per scrittura e interpretazione, è in grado di spostare l’opera stessa lontano dalla sua origine ottocentesca per riposizionarla attualizzata nel nostro tempo, in un indeterminato fosco secondo dopoguerra.

 

 

ph. Mario Spada

 

È dunque una bella prova di attrice quella di Iaia Forte. Il suo ruolo è molto sfaccettato, dai continui giochi di seduzione che intavola, fino alla prepotenza che mostra in qualsivoglia frangente; questa versione di Carmen non ha perso quegli originali caratteri zingareschi e truffaldini che c’erano nella scrittura originale, quella capacità di vivere alla giornata e di non appoggiarsi mai troppo alle sorti altrui, se non per comodo. Carmen non conosce regole e la sua autorità fa tornare alla mente le cronache che raccontano le donne camorriste degli anni Duemila e le loro vite, le loro responsabilità rispetto a interi clan e la capacità di tenere unite strutture complesse che necessitano un governo. Come ha giustamente osservato Maria Grazia Gregori, Carmen sembra un personaggio sfuggito dalla Pelle di Curzio Malaparte. Così come potrebbe benissimo sembrarlo anche Cosé (Roberto De Francesco), soldatino forestiero dall’accenno veneto, che seguiamo nel suo percorso di totale dissoluzione amorosa e vitale. Il suo nome già di per sé si interroga sulla natura stessa della sua essenza. Lo vediamo nella prima scena rinchiuso in una cella carceraria sull’isola di Procida, cullato dal rumore delle onde del mare, solo ad attendere la sua ora e a non capacitarsi ancora del vortice in cui la vita lo ha spinto. Accecato dalla gelosia e dall’amore, si è macchiato di non pochi delitti per seguire la sua Carmencita, amante e delinquentella, che lo ha catturato nella sua rete e lo ha fatto lentamente impazzire. Una trama sentimentale che ha condotto il povero Cosé a commettere un errore dietro l’altro, primo per tutti quello di farsela (volontariamente) scappare dopo averla arrestata per una zuffa alla fabbrica di sigarette. La loro è una storia d’amore senza tempo, come ce ne sono state tante e tante ce ne saranno sempre. Cosé vede solo alla fine la sciagura in cui lo ha trascinato quella ammaliatrice di mestiere che è Carmen; è accecato dai sentimenti e alla causa di tutto questo suo inferno in terra destinerà proprio la punizione perpetua di non potere più vedere.

 

ph. Mario Spada

 

In questo caleidoscopio partenopeo fatto di sentimenti, tradizioni, contrabbandieri e risse di quartiere, si inserisce perfettamente anche l’Orchestra di Piazza Vittorio (che già si era cimentata con questa opera con la cantante Cristina Zavalloni). Alla Carmen di Martone questo collettivo di artisti diretti da Mario Tronco aggiunge molte tinte, non solo musicali. Se all’inizio i musicisti entrano diligentemente nella loro buca dedicata all’orchestra, per tutto il resto dello spettacolo saliranno e scenderanno dal palcoscenico, prestandosi a diventare parte integrante del cast di attori. Alla loro coralità in scena sono affidati diversi momenti e ruoli, all’occasione possono essere contrabbandieri e delinquenti, testimoni e ballerini. Si inseriscono con maestria e allegria in quello scenario napoletano che Martone vuole costruire, multiculturale e aperto alle contaminazioni di tutto il Mediterraneo.

 

ph. Mario Spada

 

L’arrangiamento musicale è stato affidato a Mario Tronco e Leandro Piccioni che, partendo dalla Carmen di Georges Bizet, hanno creato universi sonori che riecheggiano musicalità di paesi lontani, atmosfere gitane ed echi partenopei, a cui si mescolano influenze dal Mediterraneo africano e spagnolo. Il lavoro dell’Orchestra di Piazza Vittorio guarda anch’esso alla tradizione regalando suoni che a volte fanno venire in mente le processioni dei santi e le bande che macinano brani e passi nelle stradine bianche del sud. L’effetto finale è bizzarro (soprattutto pensando a un certo rigore che contraddistingue determinate opere come la Carmen), ma molto piacevole, in un certo senso anche pop, coerente con le scelte di regia e drammaturgia e coerente con l’opera di Bizet che ne esce reinventata e rinvigorita. La regia di Mario Martone è meritevole soprattutto di riuscire a tenere insieme tante forze che avrebbero potuto disperdersi nel caos di molte aspirazioni diverse: al contrario, lo spettacolo è fedele e forte di indicazioni registiche originali che vengono fatte proprie e rispettate dai tanti attori (cito tra gli altri anche il bravissimo Ernesto Mahieux, Giovanni Ludeno e Houcine Ataa) e maestranze coinvolte dalla produzione.

 

Dal 5 al 17 maggio a Milano, al Piccolo Teatro Strehler.

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