Nei labirinti di Romeo Castellucci

7 Novembre 2013

Lanciati negli spazi siderali, tra le esplosioni dei venti gassosi che si scontrano sui bordi del più grande buco nero della galassia, piccoli tra le sedie del teatro Argentina. The Four Seasons Restaurant, l’ultima creazione di Romeo Castellucci / Socìetas Raffaello Sanzio, ci investe con quei suoni ricostruiti nei laboratori del Mit di Boston, e ci trascina, subito dopo, quando l’illuminazione si fa totale, in uno spazio candido, in un rito di ragazze in vestiti di campagna americana ottocentesca, tra bandiere della Confederazione degli stati secessionisti del Sud e spalliere svedesi da ginnastica.

 

ph. Sonja Zugic

 

Il rito inizia emozionante con le fanciulle che entrano da sole o in piccoli armonici gruppi e, tra ansimi e sospiri, si tagliano la lingua. Un cane ne mangia i resti, per aprire la strada a una cristallizzazione di alcune scene della Morte di Empedocle di Hölderlin, con i versi proiettati in tedesco e ripetuti in italiano. Alcune di queste donne guerriere, donne che accudiscono, donne assemblea, donne nemico, scambiandosi i personaggi indossano fasce rosse alle braccia e la scena si popola di pistole e kalashnikov. Una corona d’oro segnerà il personaggio di Empedocle, il governante filosofo di Hölderlin, prima venerato, poi osteggiato dall’aristocrazia e dal popolo, che infine scompare, come un dio, sottraendosi alle mediazioni della politica buttandosi nel cratere dell’Etna.

 

ph. Sonja Zugic

 

Sembrano, quelle ragazze, sacerdotesse di un’investitura che si trasforma in rito di rifiuto, processo, eliminazione. Le voci, sommesse, profonde o squillanti, a un certo punto iniziano a essere ingrandite, affidate a una vecchia radio, duplicate, amplificate, e a scappare dal sincrono con le labbra. Si sente l’eco di un pallone che rimbalza. La cerimonia è officiata con ampi fitti gesti di pittura e scultura rinascimentale o neoclassica, di pose sceniche del teatro ottocentesco, verso una natura evocata come sublime, paurosa e meravigliosa e una società che rifiuta il filosofo, l’artista, come un Cristo, calunniandolo, emarginandolo, mettendolo a tacere, costringendolo a eliminarsi nel fuoco dell’Etna per affermare la propria verità indimostrabile.

 

ph. Sonja Zugic

 

The Four Seasons Restaurant, creato per Avignone nel 2012 e presentato in Italia solo al teatro Argentina di Roma per il RomaEuropa Festival(ed è uno scandalo che nessun altro ente rappresenti un lavoro bellissimo, di uno dei nostri più grandi artisti di teatro), fa parte di un ciclo che comprende Sul concetto di volto nel Figlio di Dio e Il velo nero del Pastore, sul sottrarsi, sulla sparizione. Se nel Concetto di volto pesava l’assenza di un Dio che abbandona l’uomo al dolore e il Velo nero partiva dallo scandalo del sottrarsi alla vista del reverendo Hooper nel racconto omonimo di Hawthorne, qui le mosse partono dal rifiuto dell’artista, quello di Mark Rothko a vedere installati in una gaudente sala di ristorante i grandi quadri, esplosioni e implosioni di colori, dipinti per il locale di Manhattan. Ma in Castellucci la pista inziale si biforca e si inoltra in uno dei quei labirinti iniziatici che servono a vedere meglio non l’esterno, ma l’interno di se stessi. Da Rothko a Hölderlin, passando per le deflagrazioni sui bordi dei buchi neri, nei risucchi della materia, verso un nulla che il creatore di Cesena disegna piuttosto come un magma assorbitore e generatore.

 

ph. Christian Berthelot

 

Dopo il nitore della prima parte, cala il sipario azzurro che ci aveva accolto all’inizio, inscurito in tonalità indaco. Avanza e indietreggia. Rivela un corpo di cavallo morto. Si apre e diventa magma ribollente, mentre infuria il vento cosmico riscritto da Scott Gibbons. Magma, acqua, vapore, magma, acqua ribollente. Tempesta (sarà un’impressione, quella di essere stati colpiti, in platea, da una manciata di terra?). Tutto muta, trascinando lo spettatore con sé, nel rifiuto che presuppone una ricostruzione totale, non senza un dolore.

 

Le donne avevano abbandonato il palco dopo faticosi parti, nude, come penitenti di una vita che inizia ripetendo i propri riti. Riappaiono, nel frastuono, mentre dal magma sembra stagliarsi una figura che sventola un vessillo nero, segno di vittoria, di resistenza estrema o di richiesta d’aiuto. Sono una fila sconsola di Eve cacciate dal paradiso, precipitate nella vita, nostre sorelle, madri smarrite. Una dolce voce femminile canta in tedesco un lied di Schubert e sullo schermo leggiamo: “Non mi lasciare… ti supplico… non mi lasciare”. Tutta la ritualità della prima parte, la superfetazione neoclassica, la riduzione di emozioni a codice, esplode in un nero che brucia le immagini e vuole ricrearle, che scioglie i rapporti e non sa nascondere la nostalgia.

 

ph. Cristophe Raynaud

 

Ma qui mi rendo conto che sto andando per strade mie: le immagini, sembra dire Castellucci, contengono tutto, tutto ciò che volete trovarci (e Rothko lo insegna). Bisogna liberarsi da esse, e affondarci. L’artista deve sparire ed è necessario. Sogno iconoclasta e viaggio immaginale. Dopo le tante spiegazioni fornite per difendere il suo Sul concetto di volto nel figlio di Dio dagli attacchi degli ultratradizonalisti cattolici (e non solo), qui il regista ritorna a chiedere a me spettatore di fare i conti con le mie proprie visioni. Apre la porta del labirinto con un misterioso stupendo spettacolo, chiedendo a noi di rintracciare il filo per uscirne o sprofondarvi.

 

ph. Cristophe Raynaud

 

Questo artista, che va definito più autore che regista, reinventa il teatro fuori dall’intrattenimento, dalla didascalia, dalla narrazione, dalla facile emozione: come rito profondo, come sfida all’intelligenza per capire, trasversalmente, i tempi che viviamo, dolorosamente inseparabili dalla falsificazione e dalla forza dell’immagine. Ci mette a cimento con una cerimonia segreta di figure che verranno rivelate solo da un lavorio profondo della psiche, con il rimpianto per l’impossibilità, nei nostri tempi, dell’assoluto della tragedia, della cura di una comunità intorno all’individuo, abbandonato solo nel suo errare. Ecco Hölderlin, ecco l’origine dissonante della frammentazione della modernità (La morte di Empedocle non ha una versione definitiva, ma è tanti testi più o meno compiuti, vari ripensamenti di fronte al tema del conflitto tra individuo, collettività, arte, natura).

 

ph. Sonja Zugic

 

Dopo il vento cosmico, dopo le Eve scacciate e penitenti, si forma lentamente, in una pioggia di cenere vulcanica, un volto. Sembra all’inizio quello di un Cristo con gli occhi chiusi, rinato dopo l’esplosione finale di Sul concetto di volto nel Figlio di Dio. Prende a poco a poco sempre più le sembianze di un giovanetto o di una donna liberty. È l’immagine di una prostituta fotografata tra fine ottocento e primi novecento. In fondo all’esplosione sta il suo volto. Dolce, pacifico, cristologico, infinitamente paziente, ricomposto. In sottofondo, lo strazio e l’amore senza soluzione del Tristan und Isolde di Wagner.

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