Martone. Il giovane favoloso

24 Ottobre 2014

Scrive Pietro Citati che Leopardi “possedeva un'immensa vitalità”. Egli non sopportava “la noiosa esistenza quotidiana, nella quale i minuti si susseguono ai minuti”; desiderava invece “un tempo più rapido, più intenso, vertiginoso, in cui ogni istante fosse vivo e infinito”. “La vita, per Leopardi, non era altro che questo”, conclude Citati: “L'insaziabile movimento, la metamorfosi infinita di esseri minimi, appena visibili, che durano un attimo con un'intensità quasi intollerabile”.

 

 

Chissà se Mario Martone ha mai letto queste righe. Forse sì. Certo è che la sua (ri)lettura di Leopardi è proprio così: intensamente vitalistica, concreta, “fisica”. Giacomo che corre a perdifiato per le strade di Recanati. Giacomo che si rannicchia sfinito all'ombra degli alberi. Giacomo che osserva dalla finestra – è un'immagine ricorrente – il grande spettacolo dell'umanità, rinchiuso com'è nell'ordine razionalista (e reazionario) di quell'altro mondo, quello di carta, l'amata/odiata biblioteca del parimenti amato/odiato genitore. “Io sono tenuto quello che sono, un vero e pretto ragazzo”, scrive a Pietro Giordani, “e i più ci aggiungono i titoli di saccentuzzo di filosofo d'eremita e che so io”. Il Leopardi di Martone è l'esatto opposto: furiosamente attratto dal mondo reale, dalla sua vastità, dal suo disordine. Più ancora che “favoloso”, è un giovane curioso, goloso, avido di piaceri

 

 

Ma la vitalità di Giacomo è illusoria. Il suo corpo, compromesso da un misterioso “sistema” di malattie e dalla deformità, è già il corpo di un moribondo. Allora non apparirà un vezzo “lombrosian-strasberghiano” la tanto canzonata gobba di Leopardi/Elio Germano. Più che un romanzo di formazione, Il giovane favoloso è a tutti gli effetti un accostamento progressivo alla morte. Un itinerario di conoscenza e di sofferenza che ha come stazione conclusiva il ventre di una Napoli sepolcrale, in cui i segnali della fine sono sparsi ovunque: il culto delle capuzzelle, la minaccia del colera (“Voi gli aspettate invan, son tutti morti”, chiosa un mendicante nella città spopolata dall'epidemia, facendo il verso al Dialogo di un folletto e di uno gnomo), il “formidabil monte sterminator” del Vesuvio.

 

Il giovane favoloso, e non poteva essere altrimenti, procede con lo stesso passo del suo protagonista, instancabile flâneur: diseguale nel ritmo, si muove a strappi e a salti, alternando corse forsennate a pause inaspettate. Un perfetto correlato visivo della prosa leopardiana e del suo Pensiero “stupendo e tremendo”, in continuo mutamento. Non è un caso che le pagine meno efficaci del film siano soprattutto quelle in cui Martone sembra sforzarsi di “illustrare” le visioni leopardiane o di “dare voce” alla sua poesia. Con risultati, occorre dirlo, irrimediabilmente didascalici, e alcune cadute francamente evitabili (l'ultimo bacio di Consalvo, ad esempio, o il dialogo tra Giacomo e la Natura, ripreso dalle Operette).

 

 

In questo tortuoso viaggio verso il nulla, attraversiamo in compagnia del protagonista un'Italia piccola piccola, provinciale, da Opera buffa. Siano essi aristocratici codini o velleitari riformatori, i grandi personaggi della cultura ottocentesca, da Colletta a Vieusseux, dal solo evocato Manzoni a Tommaseo, scrutati dalle distanze “siderali” di Leopardi, ci appaiono come le figure di un teatrino di marionette, “pulcinelli e baroni fottuti”. Quasi una anticipazione dell'Italia “gretta, superba e assassina” descritta da Martone in Noi credevamo e a legare i due film ritroviamo Roberto de Francesco e il suo cardillo... - posta questa volta sotto il segno di Rossini (per quanto “increspato” dalle sonorità inaspettate di Sascha Ring) piuttosto che sotto quello del melodramma verdiano.

 

Un'Italia inconsapevolmente ridicola, nella quale Giacomo si muove con un'aria fintamente remissiva. Absent: così si autodefinisce. Ma è tutt'altro che conciliante. E fra le tante maschere di questa commedia la sua “difformità” gli permette di ritagliarsi il ruolo del fool shakespeariano, del servo ribelle della Commedia dell'Arte: un Arlecchino forse, o persino – così lo apostrofa Giordani – un Leporello. Un ruolo che ne fa naturalmente la vittima di cocenti delusioni (l'amore non corrisposto per Fanny), di situazioni paradossali (l'interminabile anticamera in casa Antici) e di crudeli burle (l'episodio dell'ermafrodito, inatteso “apocrifo” di Enzo Moscato); ma ne fa anche colui cui è concesso di ribaltare il senso comune, di demolire ogni pretesa di certezza, munito soltanto della forza del dubbio e delle armi del comico. Perché “terribile ed awful è la potenza del riso”, si legge nello Zibaldone: “chi ha il coraggio di ridere è padrone degli altri, come chi ha il coraggio di morire”.

 

E nello splendido finale con La ginestra, nel quale la voce di Leopardi conduce gli spettatori dalle campagne partenopee fino nelle profondità del cosmo a contemplare la vanità di tutte le cose umane, sembra quasi di sentir rimbombare, in quel vuoto infinito e assoluto, la beffarda risata del briccone divino.

 

Una versione di questo articolo è apparsa su Filmidee #11.

 

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