Arte in Italia tra le due guerre

25 Agosto 2014

Per effetto di rovesci economici o militari, cesure istituzionali e drammatici conflitti, la storia culturale italiana del Novecento ha caratteri come di palinsesto: una continuità profonda, scritta in un alfabeto spesso perduto, corre al di sotto di innumerevoli cancellazioni e rifacimenti di superficie. L’opacità dei documenti e la dispersione degli archivi consiglia un’estrema sensibilità storica e linguistica e una diffidenza metodica per l’apparente ovvietà dei processi di trasmissione culturale. La tradizione interpretativa, osservava Giovanni Previtali, dovrebbe esserci preziosa in senso per lo più eziologico: come storia dell’errore.

 

In Arte in Italia tra le due guerre Fabio Benzi si misura con due difficoltà principali. La prima interna: potremmo chiamarla reticenza documentale. Se molti artisti italiani del ventennio non avevano mancato di assicurare il loro sostegno al regime, per sincerità, convenienza o un inestricabile intreccio tra le due, questi stessi artisti avevano poi cercato, negli anni della guerra e subito dopo, di riscrivere la propria storia nel segno della dissidenza se non dell’antifascismo militante. I casi cui Benzi fa riferimento sono quelli di Cagli, Mafai e Morandi. Non si tratta in nessun modo, da parte sua, di un intento di denuncia. Adesione o fiancheggiamento non determinano la qualità di un’opera né condizionano il giudizio storico-artistico.

 

Non mancano, nel libro, innalzamenti o diminuzioni, che contribuiscono a proporci un “canone” diverso da quello abituale; e a Morandi spetta un ridimensionamento tanto severo quanto inatteso e argomentato. Ma il punto di vista metodologico è quello della distanza storico-ideologica dalle vicende considerate. Alla distorsione delle evidenze storiche concorrono, con gli artisti, i critici e pubblicisti “apologetici”. Arte in Italia tra le due guerre si presenta come una revisione radicale e filologicamente supportata di luoghi comuni storiografici che hanno la loro origine in Mario De Micheli anziché in Corrado Maltese o Palma Bucarelli, in Antonello Trombadori, Argan o Bruno Zevi.

 

La difficoltà esterna cui ho prima accennato sta invece nel pregiudizio internazionale. Critici ideologici e studiosi non italiani di orientamento radicale fanno oggi fatica a riconoscere che possono esservi state ampie “zone grigie” o che le belle arti siano fiorite sotto una dittatura.

 

La tesi di Benzi è appunto questa: eccettuata la Francia (o meglio Parigi), nessun’altra nazione europea compete con l’Italia per vivacità, pluralità e ricchezza di orientamenti figurativi. Neppure la Germania, con cui pure sono frequenti e proficui gli scambi grazie a critici-curatori come Margherita Sarfatti o critici-artisti come Mario Broglio. Troviamo proficui rapporti con gli “italiani di Parigi” all’origine della carriera di Alberto Giacometti e sorprendenti aperture internazionali – colpisce l’indicazione di Diego Rivera come fonte sia del Severini “muralista” che di Ferrazzi. Il regime sostiene le arti e Mussolini si preoccupa di riportare in Italia gli artisti residenti all’estero, assicurando incarichi e committenze. Tutto questo non ha per Benzi i caratteri dell’idillio. Configura tuttavia un’“anomalia” virtuosa nel contesto dei regimi totalitari. A differenza della Germania hitleriana o dell’Urss di Stalin, il regime mussoliniano è una dittatura temperata dalla relativa libertà che, per ragioni per lo più strumentali, si concede all’arte e agli artisti almeno sino al 1938, anno di promulgazione delle leggi razziali.

 

Personalmente non credo che il modello interpretativo offerto da Mirella Serri nei I redenti. Gli intellettuali italiani che vissero due volte, libro cui Benzi si riferisce più volte, sia sempre valido e applicabile all’ambito storico-artistico: talvolta risulta tagliato con l’ascia e tradisce un intento eccessivamente polemico. Escludo ad esempio che Argan possa essere sbrigativamente incluso, come Serri fa, tra i fascisti convertitisi all’antifascismo nel tardo periodo di guerra o subito dopo la cessazione delle ostilità (come ho scritto in “Ytalya subjecta”. Narrazioni identitarie e critica d’arte 1937-2009, in Gabriele Guercio, Anna Mattirolo (a cura di), Il confine evanescente. Arte italiana 1960-2010, Mondadori Electa, Maxxi 2010, pp. 262-307). Ritengo invece che la partecipazione di un archeologo come Bianchi Bandinelli al dibattito sull’“arte nazionale” sia ben più estesa e dirimente di quanto sinora ammesso. E’ estremamente difficile riuscire a dipanare la matassa dei rapporti tra artisti, intellettuali e regime: soprattutto nel coinvolgente capitolo conclusivo Arte in Italia tra le due guerre pone un’istanza di metodo storico e avvia chiarificazioni risolutive.

 

Ho accennato al “canone” di Benzi. Vale la pena richiamarlo adesso nei suoi tratti più innovativi. Se De Chirico, Sironi e Cagli sembrano essere i tre “giganti” dell’arte italiana tra le due guerre agli occhi dell’autore, un posto d’onore è riservato a Severini, cui si riconosce l’onore di avere introdotto la stagione europea del ritorno all’ordine, a Carena e agli artisti della scuola romana, Scipione su tutti. Si adombra invece l’astro di Morandi (o forse diminuisce il prestigio della sua figura), dei Sei di Torino (eccettuato Levi), di Mafai e di Corrente di vita giovanile (ma non di Birolli): l’attività del giovane Treccani ci è mostrata sotto una diversa luce ideologica e restituita all’illustre contesto familiare.

 

Ampiezza e competenza non esauriscono i meriti del libro. L’accurata ricostruzione del periodo entre-deux-guerres si rivela utile per ricomporre continuità di lungo periodo, e l’enucleazione di temi o topiche ricorrenti permette di ridurre la distanza tra la prima e la seconda metà del secolo.

 

Più forte dei “desastres”, una sorta di appassionata aria di famiglia unisce opere e artisti italiani tra terzo e ottavo decennio del Novecento: poi si disperde. Esemplifichiamo. Una comune domanda identitaria sorregge l’attività di artisti che si misurano con metafore (e retoriche) “mediterranee”: De Chirico e Savinio conducono magicamente a Pascali. Il primo aforisma di Kn (1935), celebre manifesto astrattista di Carlo Belli – “l’arte è. Essa quindi non è altra cosa all’infuori di se stessa” – richiama l’affermazione di Piero Manzoni sulle “immagini assolute che non potranno valere per ciò che ricordano, spiegano, esprimono, ma solo in quanto sono: essere”. E ancora. Il tema dell’”attesa” si irradia dai quadri metafisici e postmetafisici di De Chirico e Carrà per giungere, via Fontana, sino al Manzoni monocromo (ancora), a Paolini e a Fabro. Diramate connessioni, infine, talune ancora da chiarire, avvicinano le esperienze dei muralisti milanesi e romani, ossessivamente protesi verso “monumentalità”, “mitologia”, “primordio”, alle “poetiche del muro” che si affermano nei tardi anni Cinquanta attorno all’interpretazione dei Sacchi di Burri.

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