Alighiero Boetti: disegni e ricami

3 Febbraio 2014

Pubblichiamo un estratto dall'ultimo libro di Michele Dantini Macchina e stella. Tre studi su arte, storia dell'arte e clandestinità: Duchamp, Johns, Boetti (Johan & Levi) in libreria in questi giorni

 

 


 

Qual è l’origine dell’interesse di Boetti per tecniche desuete, delegate o in apparenza artigianali, come il ricamo?

La collaborazione di Boetti con ricamatrici afghane e di Peshawar (Pakistan) inizia nel 1971. Già nel 1969, tuttavia, l’artista chiede ad Anne-Marie Sauzeau, sua moglie e nell’occasione musa, di ricamare a punto croce la mappa dei territori occupati nel Sinai dall’esercito israeliano al tempo della “guerra dei sei giorni”.

Possiamo interpretare l’impiego di collaboratrici retribuite come attestazione di un interesse nostalgico per l’artigianato locale o una qualsiasi etica-estetica relazionale? È lecito nutrire dubbi. La riduzione della “creatività” a routine artistico-industriale è una via per abitare una soglia e situare il processo creativo al di là dello “stile” o dell’abilità individuale. Farsi “macchina”, per l’artista, equivale tout court a sperimentare una condizione di estatica impersonalità...

Cimento dell’armonia e dell’invenzione (1969), serie di venticinque fogli disegnati a quadretti con tecnica a ricalco, è all’origine della svolta degli arazzi. Nel ricopiare la quadrettatura della carta Boetti esplora il confine di ciò che per Duchamp era l’“infrasottile”: la ripetizione propaga irregolarità e minime differenze. L’artista non usa righe o righelli, né si attiene a uno schema ordinato e progressivo: ogni giornata di lavoro è caratterizzata dalla scelta arbitraria di un’area da ricopiare. Abbiamo così, a livello di ricalco, morfologie “a scala”, poligonali o “a macchia”. E colori diversi. In alcuni casi Boetti ripassa un unico quadretto. Spessore e profondità del segno mutano a seconda delle contingenze, anche se possiamo ritenere che l’artista usi una sola matita o matite di uguale durezza. Già dal titolo, che rimanda ad Antonio Vivaldi, la serie si presenta come un saggio sull’arte della variazione: una disciplinata competizione tra elementi strutturali (armonici) ed elementi individuali (inventivi: la distinzione tra “strutturale” e “individuale” ricorre negli appunti didattici di Klee, apparsi in Italia nel 1959). Boetti non intende cedere all’uniformità della griglia prestampata; al tempo stesso interviene limitandosi ad avviare un procedimento semplice e iterativo, in buona parte meccanico, di lunga durata...

Niente da vedere, niente da nascondere è una celebre opera del 1970: una semplice griglia metallica che incornicia una vetrata. Il titolo è a suo modo fuorviante: muta radicalmente senso a seconda che poniamo l’enfasi su “niente” o su “vedere”. L’immagine, suggerisce Boetti, non nasconde simboli o geroglifici sapienziali. Sfida invece l’osservatore a oltrepassare l’ambito “retinico” e a definire l’esperienza estetica in modo nuovo, attraverso una dislocazione dall’occhio al “sesto senso”. Dovremmo cogliere il tratto processuale: la vetrata è un modello (una riduzione, un indizio, un diagramma) della quarta dimensione. «Io vivere vorrei addormentato» annota l’artista in un disegno-collage del 1978, citando Sandro Penna, «entro il dolce rumore della vita.» O anche, in un disegno datato 1977, quasi a fissare il compito di interpreti futuri: «udire tra le parole».

In un disegno a matita dal titolo Regno animale (1978), Boetti commenta a distanza l’interpretazione che Georges Bataille aveva dato della zoologia fantastica di Lascaux. Le sue mani sono intente a tracciare un’unica linea mentre una costellazione di animali finemente delineati prende a popolare l’immagine. Trasferiti su carta con la tecnica del ricalco, insetti, rettili, uccelli e mammiferi si muovono lungo sottili linee oblique, forse meridiani di un’antica mappa celeste. Agli animali si aggiungono un quarzo e un ciclomotore: sono ironiche intrusioni nel contesto di un disegno che ha caratteri di enciclopedia o catalogo e dissolvono la rigidità delle demarcazioni scientifiche. L’enfasi non cade sulle singole figure né sulla figurazione in quanto tale, ma sulla trasparenza reciproca e la “totalità” dei mondi. Siamo vicini a “vedere” nella mente dell’artista e prendiamo parte con lui al processo immaginativo, mostrato come un sogno a occhi aperti. Il disegno è avvicinato in chiave processuale, come soglia del “sesto senso”. Le mani tracciano una “linea infinita” piuttosto che un contorno determinato: sono metaforicamente in viaggio. Boetti si autoritrae come un fedele seduto e intento a recitare una preghiera. L’attitudine esteriore è da pittore orientalista che rende omaggio al misticismo coranico. La liturgia è tuttavia modernista. Si tratta di tracciare ogni giorno una linea, come suggerisce un antico motto (nulla dies sine linea); e di abbandonarsi docilmente alle risorse del rito privato. Non gli occhi, non la mente: le mani procurano “veggenza”...

L’arazzo dei Vedenti è datato 1972-73. In esso il tema orfico dello sguardo interiore si coniuga all’accuratezza di un processo esecutivo che richiede tempo, meticolosità e pazienza. Riconosciamo una genealogia illustre e un’intenzione articolata. La memoria di celebri vedute egiziane di Klee porta eco remote di distese alluvionali e culti solari; al tempo stesso istruisce sul modo di comporre “ad arazzo” proponendo confronti molteplici tra arti plastiche e tecniche (o morfologie) artistico-industriali: il tappeto e il ricamo.

I vedenti sono una composizione programmaticamente à la manière de, un omaggio a Klee in uscita dalla stagione poveristica e concettuale. Tema è la penetrazione progressiva dello sguardo o l’impercettibile attraversamento della cortina. I colori trapassano l’uno nell’altro come per un esercizio di passage, e le cesure (simili alle dighe e cateratte disegnate dall’artista svizzero-tedesco) richiamano effetti d’atmosfera che producono meraviglia senza niente concedere a dimensioni illustrative o letterarie. «Effetti di meraviglioso ottico» aveva osservato Klee, «discendono dall’interruzione atmosferica dei profili.» Boetti trae dal suggerimento il pretesto per una variazione sul suo tema forse più ricorrente: l’indugio estatico, il rapimento (o la “sottrazione”) dello sguardo...

Infine: cosa vedono i vedenti? A mo’ di profezia, l’arazzo promette un potenziamento del senso visivo. Non dobbiamo tuttavia credere che sia questione di chissà quali rivelazioni o misteri. Il premio della veggenza è la partecipazione al gioco dell’immagine, la sospensione dell’esperienza ordinaria. L’insolita complessità visiva prende al laccio l’osservatore e (per così dire) agisce, se corrisposta, un breve episodio di trascendenza. L’immagine smarrisce lo sguardo e ingaggia la memoria morfologica: adempie così la profezia...

Disegni, mappe e arazzi dischiudono le arti plastiche alla dimensione del tempo. È vero: l’esecuzione diviene via via più socializzata quanto più crescono le esigenze di produzione e si definiscono i repertori di immagine. Boetti contribuisce in tal senso all’erosione delle più tradizionali nozioni di autore e si distacca da pratiche enfatiche o sentimentali di artigianato pittorico. Anche il dettaglio geopolitico risulta più avvertito: confini e bandiere mutano gradualmente nel tempo a seguito di modificazioni territoriali o delle forme di governo. Ma la morfologia del processo creativo non è in discussione. L’indugio “tra sé e sé” dell’artista è la salda premessa di ogni successiva trasformazione e porta con sé sottili implicazioni metafisiche.

Duchamp fugge dall’«acidità malsana degli ambienti artistici» trovando rifugio negli scacchi. Modernista irregolare affascinato dal confronto con le culture extraoccidentali, Boetti ci appare determinato a sperimentare l’estinzione dell’ego nel gioco compositivo o nelle vicissitudini del viaggio; e a cercare nella ripetizione (variazione, permutazione, riproduzione) un corroborante oblio.

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