Il teatro può narrare il presente?

2 Maggio 2014

Dopo una pausa di oltre tre mesi è appena uscito l’ultimo numero dei “Quaderni del Teatro di Roma”. Si tratta di una rivista mensile che ha raccontato, per oltre tre anni, la scena teatrale romana, non solo quella più strettamente legata allo Stabile, ma anche il fermento proveniente dai tanti tessuti di cui si compone la periferia della città. Di questo ultimo numero e del futuro della rivista ne abbiamo parlato con Attilio Scarpellini, giornalista, saggista e critico, nonché direttore dei “Quaderni”.

 




È finalmente uscito l’ultimo numero dei “Quaderni del Teatro di Roma”. Quali contenuti avete voluto inserire nel numero che esce dopo questo silenzio?


Abbiamo scelto di riaprire con uno scritto di Jacques Copeau, cioè di uno dei grandi rifondatori del teatro d’arte del Novecento, per rispondere con un anacronismo all’eccesso di attualità (che puntualmente è un difetto di attualità) che rischiava di schiacciare il dibattito sul futuro del teatro, non solo dello stabile romano che ancora oggi, mentre parliamo, non ha un direttore artistico. Per noi la questione artistica è centrale rispetto a quella politica e il fondatore del Vieux-Colombier, nel suo manifesto del 1913, fa dell’indignazione uno strumento poetico. Volevamo segnalare il bisogno che riscontriamo di tornare alle origini e di non trattare il teatro come un banale epifenomeno della politica culturale e della sua crisi attuale. Rivendicare la fedeltà e la forza di quella che Copeau definiva senza mezzi termini una “chimera”. Per il resto, tutto quello che segue questa cesura simbolica iniziale è all’insegna della ripresa e della continuità: un focus su Romeo Castellucci, uno degli artisti più rappresentativi della nostra scena contemporanea, una riflessione sul genius loci shakespiriano e sugli Shakespeare che si approssimano per le celebrazioni del 450mo anniversario, una conversazione con Emma Dante, un’anticipazione del progetto sul teatro di Peter Handke che si svilupperà proprio a Roma tra maggio e novembre, le recensioni. Il numero che avremmo fatto comunque.

 

Quaderni del Teatro di Roma

Fino a oggi sono usciti diciannove numeri dei “Quaderni”. Puoi trarre un personale bilancio di questa esperienza da direttore di una rivista importante e anche un po’ trasversale in cui si parla di teatro in tante declinazioni?

 

Fin dall’inizio, per volontà dello stesso Teatro di Roma, i “Quaderni” non sono stati un house organ dello Stabile: volevamo creare uno strumento che rimettesse il teatro al centro del dibattito culturale, ma come forma di espressione dotata di una sua forte autonomia poetica. Gli spettacoli in cartellone al Teatro di Roma erano il centro di un’irradiazione che si estendeva a tutto il paesaggio nazionale dello spettacolo del vivo, danza compresa. Abbiamo cominciato già dal primo numero a parlare di drammaturgia e già dal primo numero abbiamo cercato di abbattere la frontiera tra un teatro ufficiale (quello degli abbonati e delle poltrone rosse dileggiate da Peter Brook) e un teatro contemporaneo. Era la presunta marginalità della scena nell’orizzonte della società di massa che andava ribaltata, dimostrando che il teatro può raccontare il presente e non ha mai smesso di farlo, anche con i suoi esigui numeri. Ci siamo riusciti? Difficile rispondere ora. Quanto alla trasversalità, i “Quaderni” sono una delle riviste di teatro che ha più collaboratori tra gli scrittori, come Lorenzo Pavolini, Christian Raimo, Emanuele Trevi, Carola Susani, o tra i poeti, come Azzurra D’Agostino, Michele Ortore, Giulio Marzaioli.

Ancora parlando di editoria teatrale, cosa ne pensi del fiorire degli ultimi anni di riviste on line che raccontano con riflessioni e approfondimenti il teatro e quello che accade? Mi riferisco, per esempio, a “Teatro e Critica”, “Il tamburo di Kattrin”, “Altre Velocità”, la stessa “Doppiozero”.


Penso che rispondano a un’urgenza espressiva della critica – e non semplicemente della critica giovane o nuova – che si vede sempre più sottrarre spazi di informazione e di approfondimento sulle pagine dei giornali che hanno smesso da tempo di trattare uno spettacolo come un evento pubblico. Se il teatro si lega ad altre notizie, o magari ad altri scandali, se ne parla, altrimenti la sua sopravvivenza sui giornali dipende dalla capacità contrattuale e dalla passione delle firme che ancora se ne occupano in spazi sempre più circoscritti. Il tramonto degli scrittori-critici non ci ha giovato. Il web per sua natura dà spazio alle minoranze e alle vocazioni minoritarie, per usare una definizione di Goffredo Fofi: permette loro di organizzarsi in piccoli mondi esposti a un grande ascolto virtuale. Il rischio è l’auto-referenzialità, la rinuncia a un formato editoriale o peggio, lo scatenamento di pseudo-dibattiti come quelli che spesso si leggono sui social media. Ma il vantaggio è una ripresa letteraria che oggi permette l’esistenza in rete di quotidiani di letteratura o di quotidiani di teatro. Metà dei redattori dei “Quaderni” vengono dai web-magazine e sono bravi quanto i colleghi che scrivono (o non scrivono più) sui giornali di carta. 

 

Quaderni del Teatro di Roma
 
Il Teatro di Roma è rimasto orfano di Cutaia, una professionalità che a tutti era sembrata una speranza, un’occasione di rinascita e di cambiamento. Come si prospetta secondo te il futuro?


Non so ovviamente dire che cosa accadrà, a parte le nominations che tutti conoscono. Ma credo sia difficile, a questo punto, che chiunque arrivi alla direzione del Teatro di Roma possa ignorare del tutto quelle che sono state le linee di rilancio anticipate nel breve periodo della “non direzione”, chiamiamola così, di Ninni Cutaia. Tra le quali c’era, molto chiara, l’idea di consolidare la relazione tra lo stabile e il territorio, mobilitando le forze artistiche della città. Roma vive una condizione molto particolare: chi pensasse di riprodurre qui i numeri forti di altre esperienze di stabilità come ad esempio il Piccolo di Milano, si scontrerebbe con una situazione che è meno organica e più plurale di quella milanese. Milano ha una borghesia che tradizionalmente sostiene il teatro in quanto istituzione. È la città del teatro di regia. Roma è stata la città delle cosiddette cantine, del fermento artistico diffuso, abituata a vivere al di sotto delle proprie possibilità creative, la città esibizionista, come la definiva Pasolini, che non trova mai una vetrina all’altezza della propria leggenda, sotto-rappresentata grazie al suo stesso eccesso di rappresentazione. Il fatto è che la sostanza artistica di questo fermento è molto più ricca di quanto la sua relativa disorganicità non la faccia apparire. Riorganizzarla è vitale per il futuro civile della città.

 

Lo ha scritto molto bene Graziano Graziani in uno dei suoi ultimi pezzi: due o tre generazioni di artisti rischiano di uscire di scena per colpa dell’incuria di istituzioni che non sono mai andate oltre la famigerata “politica degli eventi”. Rifare ogni volta la lista è quasi umiliante: registi come Massimilano Civica, Fabrizio Arcuri, Veronica Cruciani, Lisa Natoli, drammaturghi come Lucia Calamaro (l’autrice de L’origine del mondo che tanto successo ha riscosso di recente proprio al teatro Franco Parenti di Milano), performer come Daniele Timpano, Roberto Latini, Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, gruppi che hanno rinnovato il teatro immagine, e che magari oggi sono più orientati a lavorare all’estero come Muta Imago e Santa Sangre, sono nati artisticamente a Roma. E potrei citarne molti altri. Gli spazi in cui lavoravano o chiudono i battenti, come il Teatro Palladium, sottratto alla programmazione del Romaeuropa Festival, o sono sottoposti a chiusura provvisoria, come il Teatro India, la principale scena romana del contemporaneo, mai sfruttata nella direzione che il suo fondatore, Mario Martone, aveva a suo tempo indicato. Certo, è soltanto un lato del problema configurato dal rilancio del Teatro di Roma come centro di propulsione artistica della città: lo sfondo forte è quello dei nuovi teatri nazionali e dunque della capacità che dimostrerà lo Stabile romano di parlare all’Italia e all’Europa. Ma chi cerca di dimostrare che questi tre discorsi sono in contraddizione tra di loro – che bisogna limitarsi a fare vetrina di grandi nomi nazionali e esteri – non rende un servizio al futuro, perché in realtà non vuole costruire una tradizione artistica di livello europeo.

Per ricollegarmi al discorso dei “Quaderni” mi hai detto che state lavorando al prossimo numero che uscirà il mese prossimo. In una linea immaginaria di progettualità, cosa c’è nell’orizzonte dei Quaderni?


L’orizzonte dei “Quaderni”, inutile negarlo, è legato a doppio filo a quello del suo editore, il Teatro di Roma. Non so se la nuova direzione continuerà a riconoscere la necessità che ha fatto nascere la testata all’epoca della direzione artistica di Gabriele Lavia e della presidenza di Franco Scaglia, dando seguito a un’intuizione dell’allora consigliere Debora Pietrobono. Il prossimo numero lo stiamo facendo sotto la supervisione del nostro direttore editoriale di sempre, Sandro Piccioni, e grazie all’interessamento del nuovo presidente Marino Sinibaldi. Anna Bandettini sul suo blog su “Repubblica” ha generosamente scritto che i “Quaderni” sono un’eredità da non disperdere. Bisognerà capire se la nuova direzione artistica intenderà mantenerli come sono, cambiarli, riformulandone la linea editoriale o il formato, oppure eliminarli. Non si è mai uomini per tutte le stagioni. Quanto alle progettualità immaginarie, ovviamente, sono sconfinate, neanche lo spoil-system le può limitare. È l’unica forza che hanno le chimere.

I diciannove numeri dei “Quaderni del Teatro di Roma” sono leggibili e scaricabili a questo link

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