Un inossidabile duo comico / Stanlio è Ollio

23 Febbraio 2015

Negli ultimi anni della sua vita, quando Hollywood era ormai lontana e la salute si era fatta malferma, uno dei passatempi preferiti di Stan Laurel era frequentare cartolerie. Diceva che se non avesse fatto l'attore, probabilmente gli sarebbe piaciuto gestirne una. Non doveva essere difficile incontrarlo mentre passava i pomeriggi fra gli scaffali colmi di quaderni a righe, matite e penne di qualche negozio di Santa Monica, dove si era trasferito con l'ultima moglie nel 1958, in un appartamento affacciato sul Pacifico.

 

Stan con l'Oscar alla carriera, ca. 1964

 

Nel 1957, alla morte del suo storico compagno di lavoro, il vecchio Stan aveva dichiarato: «Questa è la fine della storia di Laurel e Hardy», e aveva mantenuto la parola, rifiutando nel 1962 un cameo fra le “vecchie glorie” di Questo pazzo, pazzo, pazzo, pazzo mondo, e, prima ancora, una remunerativa offerta di lavoro, in qualità di consulente e gagman, da parte del suo pupillo Jerry Lewis. Non aveva rinunciato invece a mantenere la corrispondenza con gli innumerevoli ammiratori sparsi su entrambe le sponde dell'Atlantico: compito cui si dedicava con cura meticolosa quasi quotidianamente, e che gli consentiva fra l'altro di incrementare le proprie soste in cartoleria. Proprio in una di queste occasioni (lo racconta l'amico e biografo John McCabe) un commesso, da dietro il bancone, dopo averlo osservato a lungo, improvvisamente aveva esclamato: «Ma io la conosco!... Lei è... è...». «Oliver Hardy», aveva risposto Stan, con la massima serietà. «Giusto!» aveva ribattuto l'altro, entusiasta. «Ah, signor Hardy, lei e il signor Laurel siete stati davvero grandi! Ho visto tutti i vostri film. Non può immaginare quanto mi abbiate fatto ridere... A proposito, che fine ha fatto il signor Laurel?». Al che l'anziano comico, sempre senza scomporsi, aveva replicato: «È impazzito».

 

Stan è Ollie, Ollie è Stan. Sembra di rivedere la scena finale di un loro film, Thicker than water, quando, a seguito di una trasfusione di sangue, i due si ritrovano con le caratteristiche invertite: il magrolino con la cravatta e i baffetti del grassone, e questi che piagnucola e si gratta la testa secondo l'inconfondibile stile del compagno.

 

Thicker Than Water, 1935

 

Eppure Ollie non è il “doppio” di Stan, o viceversa – non nello stesso modo in cui, poniamo, Dean Martin costituisce il “doppio positivo”, il “modello” a cui vuole/deve conformarsi il buffo e sgraziato Jerry Lewis. Al contrario, come ha scritto Stefano Brugnolo in un suo recente saggio, Laurel e Hardy appartengono al novero delle “strane coppie”, nobile famiglia letteraria che comprende, fra gli altri, Tweedledum e Tweedledee, Bouvard e Pécuchet, Vladimiro ed Estragone. Personaggi che esistono unicamente in funzione l'uno dell'altro, come due parti di un unico organismo: «Se nominiamo uno, dobbiamo nominare anche l'altro» scrive Brugnolo, «e anche quando in scena c'è uno soltanto dei due è inevitabile pensarlo in relazione al suo partner». Riusciamo a pensare a Ollie senza pensare a Stan? Ovviamente no. Quando il produttore Hal Roach, a seguito di una disputa contrattuale con Laurel, provò a lanciare Hardy come comico solista in Zenobia (1939), il risultato finale fu un sonoro fiasco.

Simili ma diversi, opposti ma complementari, mettono in crisi il principio d'identità: in Angora Love, Ollie può provare sollievo nel massaggiarsi il piede dolorante, senza rendersi conto che si tratta del piede di Stan.

 

Angora Love, 1929

 

Ma se Ollie si ritrae infastidito non appena si accorge del proprio errore, Stan, con la sua aria trasognata e leggermente inebetita, non sembra preoccuparsi troppo del proprio io. E come potrebbe, se già fatica a distinguere la presenza dall'assenza (nel citato Thicker Than Water, quando gli domandano se Ollie sia in casa, risponde: «Sì, c'è, ma non c'è»), o confonde il sonno con la veglia («Sognavo di essere sveglio, poi mi hai svegliato e mi sono accorto che dormivo»)? Come se non bastasse, uno dei cartelli introduttivi di  Hog Wild (1930) significativamente avverte che «il signor Laurel non aveva in effetti alcuna memoria da perdere».

 

Descrivendo il giardiniere Chance, protagonista di Oltre il giardino (non a caso impersonato sul grande schermo da un altro “figlio spirituale” di Laurel, Peter Sellers), Giorgio Vasta lo ha suggestivamente definito «un personaggio cavo». Non un semplice stupido, un candido ingenuo o un puro idiota, ma un personaggio «vuoto di un vuoto costitutivo, originario», senza passato e senza futuro. Una pagina bianca sulla quale chiunque può leggere quello che vuole, ma solo perché in realtà non c'è proprio nulla da leggere. Esattamente come Stan.

 

The Battle of the Century, 1927

 

Stan procede per imitazione, non coglie le similitudini o le metafore, si esprime spesso per frasi proverbiali, magari storpiandole («Getta il tuo pane sulle acque, perché chi semina raccoglie»), e le rare volte in cui tenta un ragionamento complesso, i suoi discorsi si ingarbugliano fino a diventare incomprensibili: «Sai, se noi prendiamo il pesce, chi se lo compra non deve pagarlo... e allora il guadagno andrebbe... al pesce». Qualche volta Stan si permette addirittura di fornire suggerimenti, spesso palesemente deleteri, ma che Ollie accoglie subito con soddisfazione, convinto ogni volta che l'altro stia incominciando a imparare dai suoi insegnamenti («Finalmente cominci a pensare con il mio cervello!»). Tuttavia, mentre il concreto mr. Hardy sembra cadere regolarmente nelle trappole del mondo, l'evanescente Stan attraversa incolume i pericoli, protetto dalla propria totale, “magica” inconsapevolezza (e che cos'è, se non magia, quella che gli permette di usare il dito come un accendisigari o suonare la rete di un letto come se fosse un'arpa?). Alla fine è proprio lui a guidare Ollie, questa caricatura della figura paterna, questo augusto che crede di essere un clown bianco, fuori delle convenzioni piccolo borghesi dei sobborghi residenziali anni Trenta, delle villette monofamiliari, dei prati tagliati di fresco. È sufficiente un gesto, dettato dalla malaccortezza oppure da un estemporaneo moto di stizza, e quel mondo che si credeva impenetrabile e inattaccabile si rivela improvvisamente fragile come un castello di carte, e collassa su se stesso in un'esplosione di comica follia.

 

You're Darn Tootin', 1928

 

Quando Stan Laurel morì, nelle prime ore del pomeriggio del 23 febbraio 1965, aveva al suo attivo quasi sessant'anni di carriera nel mondo dello spettacolo, circa duecento film tra corti e lungometraggi (in qualità di interprete, sceneggiatore e regista più o meno occulto), due Oscar (di cui uno, nel 1961, alla carriera) e persino un'associazione, i Sons of the Desert, dedita alla conservazione e alla divulgazione dell'eredità artistica di Laurel e Hardy. Da vecchio artista del music-hall dedito unicamente al proprio lavoro e poco incline alle celebrazioni, forse avrebbe dato un'alzata di spalle, o magari si sarebbe  stupito scoprendo che a mezzo secolo dalla sua scomparsa, e a più di ottant'anni dal primo film girato in coppia con Hardy, ancora si sarebbe scritto, parlato e discusso di loro: «Beh, eravamo solo due attori comici. Quella non era arte».

 

Racconta ancora John McCabe che durante uno dei suoi ultimi viaggi negli Stati Uniti, Dylan Thomas venne invitato da Amos Vogel a presenziare ad un dibattito sull'elemento poetico nel cinema d'avanguardia presso Cinema 16, il leggendario cineclub newyorkese. Al momento di esprimere il suo parere sull'argomento, Thomas si scusò di non poter dare una definizione sufficientemente erudita della poesia cinematografica. «Però posso farvi un esempio», aggiunse. «Ricordo una scena in cui Laurel spingeva Hardy giù dalle scale...» Non riuscì a proseguire, perché scoppiò in una fragorosa risata. «Ah! non ve la posso descrivere. Bisognerebbe vederla. Dirò solo questo: era autentica poesia, in tutti i sensi». Quando qualche anno dopo riportarono l'aneddoto a Stan, questi rimase a lungo in silenzio, per prorompere alla fine in un sonoro «The hell he says!», seguito da abbondanti risate.

«The hell he says», e una risata: forse è questo l'unico, vero modo di omaggiare un poeta della comicità.

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