Inconscio napoletano: Caracas

11 Aprile 2024

Perdersi è meraviglioso. Così titola il testo di Richard A. Barney su David Lynch, suggerendo una sorta di “astrattezza” – o, meglio, una suggestività atmosferica – che caratterizza il cinema del regista statunitense e che incoraggia un atteggiamento libero, appassionato, non ossessionato dall’idea di voler ridurre ogni cosa ad una formula intellettuale o ingabbiare in una descrizione definitiva. L’approccio più efficace per addentrarsi in un certo tipo di cinema potrebbe essere proprio quello che rinuncia a preoccuparsi troppo dei significati e delle interpretazioni, e che si affida all’intuito, all’inconscio, che fa sì che le cose affiorino e si sviluppino senza interruzioni, lasciandosi ispirare dalle idee e senza accanirsi nel cercare di conoscere le coordinate di quel mondo. Un mondo in cui è anche concesso perdersi. 

Il valore del non-identificato e del non-detto rappresentano un interessante punto di partenza per approcciare la terza pellicola diretta da Marco D’Amore, Caracas, liberamente ispirata al romanzo di Ermanno Rea Napoli Ferrovia. La premessa sull’opera dedicata al regista di Mulholland Drive viene anche in aiuto per introdurre uno dei primi temi che D’Amore porta in scena: il sogno. Chi meglio di Lynch, infatti, sa muoversi nell’universo onirico descrivendo tutto quello che potrebbe essere ma non necessariamente è? Caracas è un grande mondo. È un luogo di sogni e di incubi, è un universo di idee che arrivano volutamente alla rinfusa e che seguono un ritmo tutto loro. Un ritmo spesso frenetico, indiavolato, perfettamente coerente con gli stati di coscienza alterati, dilatati e amplificati dei personaggi che fanno parte di quel grande mondo. Tutto è più complicato di quello che sembra, nella migliore accezione possibile. Quello che si presenta ha dietro di sé qualcosa che non si rivela e che lo rende possibile. Bisogna, allora, diffidare della semplicità, non per un gusto autolesionista della complicazione fine a sé stessa, ma perché la semplicità può essere spesso fuorviante, ingannevole, ideologica. 

Marco D’Amore decostruisce, e lo fa non smontando quello che ci è stato consegnato dalla tradizione (quella di Ermanno Rea, la sua medesima come attore, e quella dei suoi “miti”), ma mostrando quello che c’è dietro a certi comportamenti o pensieri, soprattutto soffermandosi su quello che c’è dietro le varie gerarchie che esistono all'interno del nostro mondo. Uomo/donna, europeo/non-europeo, estremi/estremismi, ideologia/passione, sogno/realtà, eroe/antieroe: tutto queste coppie binarie costituiscono il discorso di D’Amore, interessato a mostrare i continui rapporti di interdipendenza tra quello che sembra essere antitetico ma che è, in realtà, complementare. Questo è, poi, anche il nocciolo filosofico della dottrina della decostruzione, e che ha tanto impegnato il pensiero di Jacques Derrida, costantemente interessato a mantenere la compresenza tra livelli diversi: alto e basso, antico e moderno, finito ed infinito, attuale ed eterno. 

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I due personaggi di Caracas sono abitati da tante idee. Uno è lo scrittore Giordano Fonte (Toni Servillo), l’altro è Caracas (Marco D’Amore), militante in un gruppo di estrema destra ma intento a convertirsi all’Islam. Uno e l’altro, cioè uno necessario all’evoluzione e alla maturazione dell’alto. Ma anche uno che diventa l’altro, che si sovrappone, che lo ingloba. L’altro, lo stesso (come dice Borges), allora, come se potessero anche un unico e solo personaggio, scisso e sdoppiato. Poi c’è Yasmina (Lina Camelia Lumbroso), il terzo elemento così forte da non rompere il dittico Fonte-Caracas, ma da creare un nuovo equilibrio, ancora più indistruttibile. I due personaggi che Marco D’Amore porta sullo schermo sono caratteri costantemente in formazione, perennemente in fieri. Esplorano, conoscono, partoriscono idee e poi le uccidono; sono antagonisti, complici, vittime, assassini. La follia dell’uno si incontra e s’incrocia con quello dell’altro, così come la loro disperazione. Sono caratteri mossi, concitati, sfuggenti. Star dietro alla frenesia delle loro menti significa imbattersi in un labirinto di idee che non cerca mai una soluzione comoda. Questo è quello che muove Marco D’Amore, la necessità di sfuggire a una zona di comfort, di guardare in più direzioni, di procedere avanti e indietro. Caracas ha le proporzioni di un paesaggio che continua a farsi nuovo. Che pensa, pesa le parole, si serve di un’inspiegabile magia, eco del precedente lavoro di D’Amore, non solo per il titolo. Un obiettivo coraggioso, quindi, che non vuole cercare profondità ma anche generarla. 

Lucido, pur muovendosi in uno spazio onirico, lo sguardo di D’Amore racconta una Napoli sempre diversa, cupa, in cui i corpi si allungano e si accorciano; una Napoli che vuole tutto, vuole esserci per forza, vuole ricordare. La forza di questo progetto sta anche e soprattutto nella sceneggiatura firmata da D’Amore e da Francesco Ghiaccio, che grazie alla forma diaristica, trova la strategia di raccontare infiniti modi di affondare e risalire. Queste scelte potrebbero far pensare che Caracas perda i suoi contorni, e che i suoi personaggi diventino sempre più fantasmi. Proprio l’oblio potrebbe essere, però, la condizione in cui riporre le speranze. Si tratta certamente di un paradosso, ma D’Amore sembra volerne fare la propria cifra stilistica. Basti pensare al suo primo lungometraggio (anche se la prima esperienza alla regia è stata quella di otto episodi – dal 2019 al 2021 – di Gomorra), L’immortale (2019), che sceglie di «resuscitare» non il personaggio, ma la sua umanità. Un paradosso, se si pensa al luogo in cui è nato, che è proprio Gomorra, trionfo della menzogna e del male. Eppure, sopravvive l’intento di portare sullo schermo un’esistenza, così da condurre l’orrore verso qualcosa di inedito, vero, al di fuori della morte. Il paradosso, poi, prosegue con Napoli Magica (2022), in cui per conoscere la bellezza è necessario scendere negli abissi, nei luoghi più lontani da questa idea, per vedere e conoscere quello che ancora non è emerso, e che può venire fuori anche dallo sporco, dalle brutture, dagli orrori. La direzione dello sguardo di D’Amore, allora, sembra chiara perché cerca una moralità di pensiero intatta e senza compromessi. I suoi personaggi vogliono essere sempre segreti, così come gli oggetti o i paesaggi. Non può essere concepito nulla che esuli dal mistero. 

Come si scontra lo sguardo di D’Amore, però, con quello di Rea? Il regista – sin dal principio – ha parlato di omaggio, allontanandosi da qualsiasi pretesa di adattamento fedele del romanzo. Quella di Rea è certamente una prospettiva rigorosa, severa, non facilmente manovrabile. Una prospettiva che – proprio per la sua particolare scrupolosità – rende difficile la trasposizione sullo schermo. Fortuna che D’Amore ha saputo come fuggire da questa impresa e – soprattutto – da una parte della critica che gliel’ha attribuita. Non si tratta, poi, del primo esperimento di attingere all’opera di Ermanno Rea. È stato Mario Martone, infatti, nel 2022 che con Nostalgia ha provato a distorcere la memoria, a manovrare il Tempo per trasformarlo; a riappropriarsi dei ricordi costruendo una realtà che non esiste, preferendo snaturare la percezione delle cose pur di riappropriarsi di sé. Una storia di redenzione, di rabbia, di rimpianto. Approcciarsi ad Ermanno Rea esige una consapevolezza verso un autore che ha scritto, fotografato, raccontato il mondo rifiutando di abbassare la propria diversità culturale e morale a un’ennesima (inutile) etichetta. Questo rigore, questa capacità di analisi che trattiene ogni dettaglio, possono fare paura. Ma Napoli Ferrovia per Caracas è un punto di partenza, mai un ostacolo. E sarebbe senz’altro un errore far sì che le paure impediscano di cogliere la (propria) verità delle cose.  

Se è vero che perdersi è meraviglioso è vero anche che «chi non si perde non possiede nostalgia», come ha detto Pier Paolo Pasolini. Marco D’Amore costruisce un eterno paradosso che costringe gli spettatori a vivere da sognanti. Ed è proprio nel sogno che la mente monta e rimonta le immagini già conosciute che diventano nuove, perché è come se questo mescolare facesse venire fuori dei falsi ricordi. È necessario, allora, affidarsi, accettare e abbracciare le storture, osservare una realtà che ancora non c’è, ma che potrebbe esistere. Ed è proprio dove quello che è reale e vissuto incontra quello che è potenziale e immaginario che nascono le tensioni più interessanti. Caracas mette in discussione i modi consolidati di leggere la realtà. I personaggi non promettono eroismi, ma sono pronti a cambiare, a fuggire ma poi a ritornare. È una fortuna che le definizioni sfuggano, a dimostrazione di come sia necessario assecondare una caduta, un movimento liberatorio. Decostruire, lasciarsi andare, spostarsi da ciò che è percepibile verso ciò che non lo è, e ancora perdersi.  

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