Cina: visto, non visto

2 Aprile 2014

La Cina come gli Usa? Tutti in caccia della famosa carta verde? Sembra di sì.
Si è avverato quanto previsto dopo il cambio della guardia, con il Congresso del PCC del novembre 2012: cambia il regime di permessi di residenza e soggiorno per gli stranieri nel Paese di Mezzo. E cambia proprio tutto: le agenzie italiane che hanno sempre fatto da tramite con l’Ambasciata rispondono sconsolate che oramai è così. Siano professionisti inviati da aziende italiane per qualche mese sul suolo cinese, o perfino assegnati di stanza in Cina per un anno, la procedura per la concessione di visti di lavoro o visti business è diventata un muro invalicabile.

 

Senza una ragione apparente vengono rifiutati i visti, le agenzie in Italia ti concedono visti turistici con due entrate di 30 gg ciascuno. All’expat non verranno posti ostacoli alla propria attività di lavoro nel paese, ma lo si costringe a uscire a passare il confine dopo un mese (un weekend a Hong Kong è la soluzione più utilizzata, anche se basta camminare fino alla frontiera pedonale tra Shenzhen e Hong Kong, uscire, fare dietro front, e si è di nuovo accolti a braccia aperte). E dopo due mesi l’expat dovrà tornare in Italia (o in Corea, o altrove nei paesi confinanti) a rifarsi un visto, tre o quattro giorni in tutto.
Neppure le mitiche agenzie di Hong Kong, quelle che bastava pagare e avevi di tutto, hanno più grandi margini di manovra. Proteste d’Ambasciata, furie protocollari reciproche, ma Cina e Occidente si allontanano di un altro pezzetto.

 

 

È stata (e per certi versi lo è ancora) manna dal cielo per giovani professionisti, la Cina degli ultimi anni. Chi il cinese lo ha studiato sapeva di poter entrare nel paese senza limiti di tempo, i visti business venivano rilasciati a Milano a fronte di un solo biglietto da visita o della richiesta su carta intestata della propria società. Sono arrivati giornalisti freelance, architetti, artisti, viedomaker, arredatrici e addestratrici di cagnolini. Per non parlare degli anglosassoni detentori dello skill primario globale: la lingua inglese.
Trovarsi un alloggio decente a basso prezzo non è semplicissimo (bagni comuni all’aperto come nelle nostre case di ringhiera, mancanza del gas di cucina, elettricità e riscaldamento random), ma superato questo ostacolo poi si pranza con meno di un euro, e si mangia anche bene. Il posto giusto per far passare la crisi in Italia, e qui il lavoro viene fuori in fretta.

 

Ogni ditta italiana che apre le sue operazioni cinesi ha bisogno di un referente, che spiccichi qualche parola in mandarino e soprattutto che conosca il terreno, le abitudini: almeno sappia parlare con un taxista. Manna dal cielo, la Cina, davvero, sembrava il nuovo Eldorado e il numero degli occidentali saliva di numero.
Il cambio della guardia frustra speranze e progetti di vita. La frase comune di ogni expat è: non è più come una volta, ti senti l’ostilità attorno. E non è solo un problema di visti.

 

La stretta sui permessi corrisponde a una stretta della censura. Di nuovo le case editrici rifiutano manoscritti, di nuovo qualche microblogger dissidente si trova agli arresti dall’oggi al domani. Un anno fa l’anniversario della strage di Nanchino (seconda guerra mondiale, la guerra contro i giapponesi dicono qui) ha visto manifestazioni di piazza, un nazionalismo spontaneo riversarsi sugli stranieri.

 

 

Il detonatore è stata probabilmente una serie di inchieste del New York Times sulle ricchezze accumulate all’estero dagli alti papaveri della nomenklatura. Sito del NYT oscurato in Cina (non è certo l’unico), giornalisti del gruppo Bloomberg che si vedono rifiutare i visti, perfino espulsioni. Un corrispondente italiano dell’Ansa mi racconta che ormai le conferenze stampa ufficiali del Ministero degli Esteri sembrano scontri dialettici tra i giornalisti occidentali annichiliti e i funzionari arrembanti.
La cosa buffa è che i cinesi non sanno come siano fatti i giapponesi: e scambiano gli occidentali per tali. È capitato a qualcuno, per strada.

 

Qualcosa sta cambiando. Io in genere diffido della lamentazione expat: l’ho sperimentata in molti luoghi del mondo. Si definiva Mal d’Africa quell’atteggiamento un po’ colonialista di chi tornava a casa da paradisi naturali, capitali immerse nel verde dove qualunque impiegato d’ambasciata viveva servito e riverito da un cuoco, una governante, un autista e una guardia notturna. E il rimpianto per l’Africa che cambiava l’ho percepito di frequente.

 

A Pechino pare accadere la stessa cosa: Mal di Pechino, in via di spegnimento progressivo: non è più come una volta. Immagino fossero tempi d’oro: i cinesi son simpatici, popolani, sorridenti, e immagino giovani e anziani incuriositi dalla prima ondata di ragazzi occidentali, migliaia di laureati in cinese sfornati dalle nostre università giungevano a Pechino a specializzarsi, le aziende delocalizzavano e mandavano qui i loro avventurieri, la Cina apriva le braccia ad accogliere nuovi posti di lavoro per i suoi contadini trasformati in operai non qualificati, o muratori.

 

Oggi, come dicono gli italiani di qui, si stringe. Si chiude.
Due capisaldi. Il primo: diffidenza, controllo, necessità di rimettere le mani sui dissidenti interni bricconcelli che con perifrasi di vario tipo mettono in discussione il monolite. Il secondo: beh, anche qui l’esercito dei laureati si è ingrossato. Hanno fatto il calcolo, il 7% di incremento PIL previsto è il limite minimo che consente l’assunzione dei dieci milioni di laureati l’anno che sfornano le università cinesi. Quindi, occidentali, occhio: non portate via il lavoro ai nostri ragazzi!

 

Classe media cinese, affaticata dalla rapidità timelapse del mutamento, i genitori contadini poveri in campagna, i figli impiegati improvvisamente arricchiti in città, i figli dei figli già disoccupati intellettuali. Tutto in vent’anni: c’è da dar fuori di testa.
E allora un nemico si troverà, per dar sfogo agli animi surriscaldati. In Cina, gli extracomunitari siamo noi.
Ma tu che visto hai? Dove te l’hanno dato?

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