Gae Aulenti in Cina

14 Gennaio 2024

La collana di libri fotografici di Humboldt editore si chiama ‘Viaggi nel tempo’. Quando mi propongono di presentare ‘Gae Aulenti. Cina 1974’, nella macchina del tempo ci entro io.
Nel 1974 avevo 21 anni, negli ultimi quattro ero stato uno dei molti ‘filocinesi’ e maoisti a Milano. Le fotografie di Gae Aulenti, architetta in viaggio di studio, abitano il comunismo, e la Rivoluzione Culturale cinese che era un comunismo al quadrato. Mi è stato chiesto di presentare il libro insieme a chi ha più titoli di me, perché di fotografia e architettura si tratta: Nina Artioli, Simona Galateo, Giovanna Silva. Il mio ruolo è quello di chi la Cina la conosce, ho vissuto a Pechino tra il 2012 e il 2016, la mia casa editrice Metropoli d’Asia si è occupata di Cina per quindici anni: mi affascinava questo paese del terzo mondo che d’improvviso entrava a far parte del primo: città scintillanti, futuro davanti agli occhi, benessere, progresso tecnologico impensabile - certo, tutto circondato da un oceano di miseria rurale che però pian piano si andava superando - e a differenza del resto dell’Asia c’era quel comunismo trasfigurato in un capitalismo arrembante, la Cina come fabbrica del mondo – anche se a dirla tutta il sistema politico cinese oggi ricorda più il fascismo del nostro ventennio, a dispetto della retorica e iconografia comunista si tratta di capitalismo e dittatura. Ma con le fotografie di Gae Aulenti torniamo al 1974, e vorrei gridarlo che io c’ero, che ero in Italia come tanti altri a esaltare la Rivoluzione Culturale cinese, parte essenziale del terremoto sociale, culturale ed esistenziale a cavallo dei sessantotti di ogni parte del mondo: sbagliavamo, e della grossa, a stare dalla parte di Mao e di quel comunismo. Nel mio 1974, a ventun anni, ci stavo arrivando, a comprendere l’errore, e altri insieme a me. Molti invece ci arrivarono più tardi, finché è stato così tardi che, di quel tempo lontano, c’è chi ancora oggi ne può parlare a vanvera, e il comunismo si indossa come un vestitino griffato tra i tanti.

Le ragazze che mi affiancano, due architette e una fotografa, iniziano a parlare. Ci metto un po’ a rendermi conto che non son ragazze per niente: il mio punto di osservazione – un vecchiaccio - distorce la realtà. Le tre donne parlano, raccontano cose interessanti. Mi colpisce che nella descrizione del loro lavoro sul libro, nel commento alle immagini che Gae Aulenti scelse e che loro hanno selezionato, in queste tre narrazioni manchi una parola ineludibile. Quando tocca a me, mi guardano, a dirmi dai, allora, raccontaci la Cina. E io pronuncio la parola: comunismo. La prima immagine del libro non è una fotografia, ma la riproduzione dell’agenda di Aulenti, 3 novembre, domenica: “Combinare lotta di classe, produzione, ricerca scientifica. Esempio: gli studenti di storia compongono il loro studio della storia antica della Cina con la critica a Confucio dal punto di vista marxista-leninista”. È un lessico dimenticato. Oggi, è solo un linguaggio criptico: cosa mai vorrà dire? Aulenti flirtava con parole di tal fatta. E sì, era il nostro discorrere di allora. Era il linguaggio di mezzo mondo, si stenta a crederci. In Italia, più che altrove in occidente, l’abbiamo utilizzato per decenni, e gli intellettuali, in questo caso parliamo degli architetti e dei designer, hanno affiancato la progettualità comunista, magari non aderendovi in toto – e non so dire di Gae Aulenti – ma comunque simpatizzando, partecipando interessati – leggo qui che uno dei primi viaggi di Aulenti fu in Urss. A me piace ripensarlo come positivo, l’impegno sociale degli intellettuali di quel tempo, oggi dimenticato, tralasciato: ogni artista, ogni architetto, si interrogava su come dar voce alle masse di operai che popolavano le nostre città, su come aderire al processo di cambiamento che il movimento operaio pretendeva e via via imponeva. Bello: lo facessero anche oggi, gli artisti e i designer e gli architetti! Ma il progetto comunista portava con sé un’hybris, la presunzione di chi pensava che al progresso scientifico e tecnologico si potesse affiancare un’operazione di ingegneria sociale – che fallì, e giustamente è stata poi coniata la definizione di eterogenesi dei fini, cioè trasfigurazione di un progetto di liberazione in uno statuto di oppressione sistematica. Gli architetti e soprattutto gli urbanisti, a ben pensarci, condividevano la medesima hybris quando immaginavano le città e i quartieri come frutto del loro ingegno, di una pianificazione che cadeva dall’alto, azzerando l’anarchia naturale delle cose e delle persone, la pluralità delle azioni – qualcuno ha detto: il vicolo, con la sua confusione e proliferazione di caotica iniziativa: di libertà. Ogni grande architetto ci cascava: il Wright di Broadacre City, o il Le Corbusier della Ville Radieuse sono i primi esempi che mi passano per la testa. 

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Il volume di Humboldt è corredato di buoni e interessanti testi. Nina Artioli ricorda brevemente Aulenti – e quanto mi è piaciuta la sua frase lì citata: “Questo essere così nomadi tra un luogo e l’altro, può sembrare artificiale, ma io non voglio essere specialista di qualche cosa (…)” – e ci sono due testi ‘della Gae’, a quel che capisco inediti, sull’idea di città suggerita da un interno famigliare uno, e dalla progettualità riguardo al verde il secondo, a Nanchino e a Pechino. Il saggio finale di Silvia Calamandrei ci dà l’inquadramento storico, la Rivoluzione Culturale e l’edificazione del comunismo: e mi conforta nel pensare che le fotografie di Gae Aulenti è su questo ci interrogano – che mi interrogano – a mezzo secolo di distanza. La città del comunismo io l’ho vista altrove, ricordo l’Urss della fine anni sessanta, la Cecoslovacchia e la Germania est degli ottanta, anche la Tanzania del socialismo africano sempre negli ottanta. Città vuote, fantasmatiche, perché essendo la proprietà privata un furto – citiamo Marx – l’iniziativa economica è riservata allo stato o alle cooperative dirette dallo stato, quindi pochissimi negozi, e il deserto al calar del sole. Le fotografie di Aulenti solo parzialmente riproducono quel vuoto, per esempio sull’emblematico Ponte di Nanchino, le larghe carreggiate e solo un paio di camion a sfilare sotto i gruppi monumentali che ne segnano l’ingresso – oggi su quel ponte c’è una fila di auto come in ogni metropoli del mondo –, statue che riproducono riuniti e quasi abbracciati i protagonisti della costruzione della città nuova, gli operai, i contadini, gli ingegneri e perfino i ‘fratelli africani’. Ci sono scene di quartieri popolari, da terzo mondo ma irrigidito, dove le mille attività economiche informali e le baracchette e baracchini dei paesi in via di sviluppo sono assenti, ma c’è un sacco di gente che staziona in piedi, appoggiata ai muri, fuori dalle case perché è in strada che si vive. La contrapposizione tra i palazzi del potere antico, la Città Proibita, il Tempio del Cielo, e l’esterno e interno del Palazzo dell’Assemblea del Popolo è scelta evidente: inquadratura frontale piatta per i primi, con i gruppi di visitatori a salirne le scale, spiato da un lato il secondo, di sguincio, vuote le scalinate esterne e l’interno della grande sala, a sottolineare la presenza immateriale di un potere che chissà dov’è ma è dappertutto, come lo Spirito Santo. Mi sorprendo a pensare che le città del comunismo, che appartengono ora sostanzialmente al passato, bene starebbero dentro a una narrazione su un tremendo futuro possibile, una distopia come si dice oggi: sono senza tempo, una fantascienza degna di Orwell e di una serie tv coreana, un’ipotetica o metaforica follia. Mi sorprende quanto sia inciso nella mia memoria quel tempo così lontano, che non c’è più ma se ne sta immerso dentro al mio ragionare ora: posso chiamarla una discronia? Affastello epoche diverse, mi stupisco della distanza di qualcosa che è vicino, e del suo contrario. La discronia mi risprofonda nella distopia comunista, materia con cui, almeno in Italia, mai abbiamo fatto i conti, ci abbiamo messo una pietra sopra: come se bastasse. 

È stata, l’Italia, l’unico paese europeo nel quale il sessantotto e le lotte operaie con le quali si era collegato trovarono un esito comunista, marxista leninista, e perfino maoista. È stato, questo paese, l’unico nel quale il grande partito del movimento operaio e dei progressisti non fu socialista, o socialdemocratico, o laburista, ma legato a doppio filo al comunismo sovietico. Quel che abbiamo fatto noi, ora vecchiacci, scemò via via verso la metà dei settanta, poi il terrorismo cosiddetto rosso ci colpì come un cazzotto in piena faccia: alla metà degli ottanta la scelta fu di scordarcelo, il comunismo. Il grande partito, che aveva scaraventato milioni di operai contro al muro di Berlino a farselo cadere addosso, si limitò a cambiare nome. Alcuni fieramente il nome rivendicarono, e gli restò cucito come puro elemento di marketing politico. Abbiam voltato pagina – e la testa – invece di separare il grano dal loglio, di rimarcare quel che era giusto e quel che era sbagliato. Di giusto c’era moltissimo.

Fotografie, 1974. Ho sempre pensato che l’immagine, nell’oggi, sia meno in grado di veicolare contenuti esatti di quanto non sia la parola, scritta o pronunciata. In questo tempo maledetto ne siamo sovrastati, dalle immagini: capaci di essere false, retoriche, parziali e fuorvianti. Quando però arrivano da un passato nostro a sbattercelo in faccia, beh, ecco che le immagini funzionano, e azzerano le parole al vento. Forse dovremmo comprarceli tutti, i Time Travel di Humboldt Books. 

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