Dalla capanna al capannone

31 Maggio 2012

La capanna ha una storia millenaria, anzi, addirittura, secondo alcuni, si tratterebbe dell’edificio umano con la storia più lunga in assoluto. Di certo ne parla Vitruvio nel suo De Architectura, e ne parleranno dopo di lui trattatisti antichi e studiosi moderni, e poi ancora antropologi, storici, filosofi, oltreché – naturalmente – architetti.

 

La capanna può essere variamente concepita e costruita: può essere realizzata con fango e paglia, oppure con rami, frasche o pelli conciate; può essere circolare o quadrangolare, semplice o complessa. In tutti i casi, ciò che caratterizza la capanna è la sua leggerezza e la sua naturalità, nonché – dettaglio non trascurabile – l’assenza o la riduzione al minimo delle fondamenta. Sono queste caratteristiche che, in una certa misura, la distinguono dagli altri edifici, da tutte le costruzioni che seguiranno la strada tracciata dalla loro prima “antenata”.

 

Il passaggio dalla capanna al capannone, però, al di là delle comuni radici semantiche, non è affatto immediato. Il capannone non è in nulla e per nulla una grande capanna: è il prodotto (ultimo, estremo? difficile dirlo) di una cultura industriale, profondamente artificiale, e conseguentemente di un processo produttivo di cui il fattore dimensionale è soltanto uno degli aspetti, anche se in qualche modo ne è – al tempo stesso – l’emblema.

 

Il capannone segue con coerenza lineare, spietata, la logica dell’epoca di cui è il prodotto. Non è un’architettura nel senso proprio del termine: è soltanto un contenitore il più possibile capace, vorace, la materializzazione di un’astrazione, di uno spazio “idealmente” neutrale, assecondabile a qualsiasi utilizzo. È la costruzione pronto uso. È la forma stessa della forma di produzione che ospita e delle relazioni che questa determina.

 

Allorché – sotto le scosse del terremoto – crollano, i capannoni rivelano la loro vera natura: che è la massima lontananza dalle origini, la massima estraneità dalla capanna. A parte il nome, con quest’ultima essi mantengono un’unica caratteristica in comune (peraltro non trascurabile): l’assenza o la riduzione al minimo delle fondamenta. Per il resto, nessuna leggerezza, nessuna naturalità. Ed è questa la ragione per cui un capannone, nel momento in cui crolla, produce effetti del tutto diversi da quelli che produrrebbe il crollo di una pur grande capanna.

 

Sono di oggi le parole del procuratore capo di Modena che, nell’annunciare l’apertura di un’inchiesta relativa ai crolli dei capannoni, ha affermato che “la politica industriale a livello nazionale sulla costruzione di questi fabbricati è una politica suicida”. Sono parole forti, difficilmente confutabili (se non forse per dire che si tratta piuttosto di una politica omicida) ma al tempo stesso sorprendenti, visto che il territorio italiano – e la Pianura Padana più di ogni altro – è letteralmente disseminato di capannoni, e risulta strano pensare che nessuno se ne fosse accorto prima.

 

Il problema tuttavia – almeno in una certa misura – non è quello della responsabilità, delle colpe. Il problema è comprendere la natura della società, della cultura, che ha prodotto il capannone. La natura dell’inganno – o dell’illusione ­– che vi è sotteso. Lo stesso inganno – o illusione – ch’è sotteso nel nostro linguaggio, che assimila un capannone a una grande capanna.

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