È morta a 65 anni l'ideatrice del Maxxi di Roma / Nella corrente di Zaha Hadid

31 Marzo 2016

Nel 1988, quando il vecchio Philip Johnson e il giovane Mark Wigley organizzano la mostra Deconstructivist Architecture al Museum of Modern Art di New York, è la più giovane partecipante e l’unica donna tra i sette architetti invitati. Ed è la prima donna a ricevere il Pritzker Prize, nel 2004. Zaha Hadid ha attraversato lo spazio di tempo che le è stato concesso (1950-2016) con un’energia e con un piglio quantomeno singolari. Nata a Baghdad, dopo i primi studi in matematica presso l’American University of Beirut, si trasferisce a Londra, dove a partire dal 1972 studierà architettura all’Architectural Association School. È lì che incontra Elia Zenghelis e Rem Koolhaas, rispettivamente professore e giovane assistente della Diploma Unit alla quale la giovane Zaha è iscritta. Ed è lì che rivela la sua passione per le avanguardie artistiche russe d’inizio secolo (Malevic, El Lissitsky, Tatlin) alla quale i suoi progetti (ma anche le sue opere pittoriche) si ispirano. Nel 1976 entra a far parte di OMA (Office for Metropolitan Architecture), lo studio fondato da Koolhaas e Zenghelis a Rotterdam. Nei progetti di OMA di quegli anni è fortemente riconoscibile il suo tratto, anche se la collaborazione si interrompe già nel 1978, e poco dopo Hadid apre un proprio studio a Londra. Esemplare dei suoi esordi come architetto in proprio è il progetto per il concorso internazionale da lei vinto per il Peak Club di Hong Kong (1982-83). Si tratta di un progetto molto articolato, con diverse destinazioni legate alla cura del corpo, disposte in un edificio orizzontale sospeso su pilastri e addossato alla collina retrostante la città. Piegature, deformazioni ed elementi in conflitto fra loro “disturbano” le usuali gerarchie architettoniche, mentre l’ordine ortogonale risulta infranto del tutto. Ma più ancora che le scelte progettuali adottate, decisive risultano le tavole pittoriche che corredano il progetto, ispirate ancora una volta ai quadri suprematisti di Malevic: vertiginosi “esplosi” e spaccati assonometrici in cui i differenti layers del complesso vengono fatti letteralmente fluttuare nell’aria, come altrettante campiture di una composizione astratta.

 

 

Dalla combinazione di prospettive forzate fin oltre i limiti di una percezione corretta, e di proiezioni in cui le linee orizzontali e verticali subiscono un inverosimile inarcamento, scaturisce la modalità progettuale caratteristica di Hadid: modalità che sembra piuttosto derivare da una rappresentazione artistica bidimensionale, che non essere frutto di una ricerca spaziale pienamente consapevole. Nonostante l’indubbia autonomia che siffatte presentazioni grafiche assumono (dove, fra gli espedienti più ricorrenti, vi sono l’utilizzo di visioni notturne che riprendono la lezione dei costruttivisti russi, l’impiego di effetti di trasparenza che sembrano far compenetrare le forme, l’uso di tinte accese, fortemente espressive, ma anche di acide o tenui, sempre lontane comunque dalla purezza delle colorazioni moderne), Hadid riesce nella non facile impresa di tradurne il linguaggio immaginativo in oggetti reali: più timidamente nell’Edificio residenziale all’IBA di Berlino (1986-93), in maniera più convincente nel Vitra Fire Station, a Weil am Rhein (1990-94). In particolare, in quest’ultimo la tradizione della costruzione in cemento armato faccia a vista viene rivisitata imprimendo a piani e volumi, “stirati” longitudinalmente e riuniti a grappolo, diverse angolazioni e inclinazioni. Elementi secondari come l’appuntitissima pensilina prospiciente l’ingresso diventano occasione per singolari tour de force della diagonale. Zaha Hadid a proposito della stazione dei vigili del fuoco parla di «movimento congelato». Ed è proprio in direzione di un più marcato dinamismo che si spinge infatti il suo lavoro negli anni successivi. Con la Cardiff Bay Opera House a Cardiff (1994-96), il padiglione permanente del Landesgartenschau (LF One) a Weil am Rhein (1997-99), il Terminal intermodale Hoenheim-Nord a Strasburgo (1998-2001), il Centro nazionale per le arti contemporanee (MAXXI) a Roma (1998-2005), la Sede centrale della BMW a Lipsia (2002-04), la Stazione Marittima a Salerno (2007-16), per ricordare soltanto qualcuno dei numerosi edifici da lei realizzati, l’immagine – figurale e metaforica – dei “flussi” e dei “fluidi” fa ingresso nella sua pratica progettuale e nel suo vocabolario. L’andamento serpeggiante che spesso domina tali edifici, con il complesso intreccio di volumi e le labirintiche relazioni spaziali interne che vi si determinano, più che all’idea di oggetti statici, immobili, rimanda a quella di correnti in movimento, soggette ad accelerazioni improvvise: una configurazione riconducibile a un “circuito automobilistico”, sia pur frammentato, interrotto, il cui “moto perpetuo” trova un ricorsivo sbocco in se stesso. Lo spazio liscio (concetto impiegato da Deleuze e Guattari per indicare lo «spazio nomade», contrapposto allo spazio sedentario) trova così la sua concreta edificazione nelle gettate di cemento che Hadid utilizza: materia liquida, prima ancora che solida, e dunque materia “liscia” per eccellenza; materia priva di venature, di fibra, perfettamente disponibile a lasciarsi colare in qualsiasi (cassa)forma.

 

 

Sulla malleabilità del calcestruzzo (e perciò anche sulla sua capacità di modellazione secondo un’alternanza di pieni e di vuoti, con il raggiungimento di originali effetti di porosità) si basa il Phaeno Science Center a Wolfsburg (2000-05): un piatto e irregolare trapezio sollevato su eterogenei pilastri scultorei che lascia libere al proprio interno diverse cavità dai perimetri anomali destinate all’esposizione e alla comunicazione scientifica. Questa plasticità curvilinea, evocativa della morfologia delle stratificazioni geologiche, si mescola con la linearità declinante secondo varie pendenze delle finestre e con il gettarsi a sbalzo del corpo principale dell’edificio, cuneo fluttuante a mezz’aria che prorompe dal suolo.

 

 

Al di là comunque delle tecniche e dei linguaggi specifici – formali e spaziali – con cui Hadid affronta i progetti, vi è un tratto che attraversa la sua opera come un limite intrinseco, ma anche come una caratteristica peculiare. In quale senso vada intesa quest’ultima è la stessa Hadid a chiarirlo in occasione di un’intervista: «Si tratta di dare vita a uno spazio che, in una molteplicità di modi, offra alla gente piacere, divertimento, comodità e benessere simili a quelli provati in un paesaggio. La finalità è quella di fornire spazi pubblici potenzialmente in grado di dare piacere». A un simile approccio all’architettura edonistico e “naturalistico” corrisponde di fatto un atteggiamento assai meno concettuale e problematico che non piuttosto sensibile, esperienziale; atteggiamento che tende istintivamente a privilegiare gli aspetti e gli effetti di superficie. Ed è appunto alle superfici, nel loro perpetuo dispiegarsi e trascorrere di piano in piano, che le architetture di Hadid si “aggrappano”: con l’esito – non necessariamente premeditato – di fornire un ritratto preciso e impietoso dell’assenza di radicamento contemporanea.

Vi è invece qualcosa di sicuramente molto meditato e di intensamente perseguito che prorompe con grande evidenza dalla vita – e di conseguenza dall’opera – di Zaha Hadid: la volontà implacabile di tradurre in forme esteriori la propria interna energia; un’energia divorante che – si tratti di edifici o di oggetti di design – è impressa in essi come uno “slancio vitale”. Come forse pochi altri protagonisti della scena architettonica degli ultimi decenni, Hadid ha ideato e prodotto forme che, se non sempre sanno adattarsi ai contesti e rispondere in modo misurato alle funzioni, sono in compenso capaci di incarnare ciò che Goethe, a proposito di Faust, chiamava Streben: un’aspirazione, un anelito inesausti, di cui Zaha Hadid rappresenta plasticamente l’odierna versione femminile.

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