Essere Frank Gehry

7 Dicembre 2025

Più di dieci anni fa la rivista «Abitare», allora diretta da Stefano Boeri, pubblicò con cadenza più o meno annuale alcuni numeri monografici interamente dedicati a famosi architetti: Renzo Piano, Norman Foster, Zaha Hadid, Jean Nouvel. Più che semplicemente “dedicati a”, quei numeri erano costruiti direttamente “a ridosso” degli autori dei quali trattavano, e addirittura con loro, affiancandoli nella loro vita professionale, e in certi momenti anche in quella personale. Non a caso quella serie si intitolava Being seguito dal nome dell’architetto.

Si ispirava naturalmente al film Being John Malkovich del 1999, diretto da Spike Jonze e scritto dal geniale Charlie Kaufman, in cui – in seguito a una surreale circostanza – chiunque avesse voluto, e pagato, avrebbe potuto letteralmente entrare nel corpo del famoso attore, vale a dire, per un breve tempo, essere lui.

Era l’epoca dei “grandi architetti”, idolatrati come divi di Hollywood o come eroi del pallone. Di loro si voleva sapere “tutto”: come avessero fatto a diventare quello che erano – creatori di edifici su scala globale, indifferentemente dalle latitudini –, e soprattutto, come ci si sentisse ad “essere loro”.

Nella serie mancava Frank Gehry. Per ragioni misteriose (ma al tempo stesso probabilmente del tutto spiegabili) Being Frank Gehry non apparve mai. E forse è meglio così. Anzi, sicuramente è meglio così.

Che cosa può aver significato “essere Frank Gehry”? Al di là dell’“archistar” (o dello “starchitect”), al di là del “Borromini del Novecento”, al di là del “titano dell’architettura”, ovvero al di là di tutti gli stereotipi che lo hanno accompagnato in vita e che in occasione della sua morte vengono ora ritirati fuori dall’armadio in cui stavano chiusi da tempo (l’uomo si è congedato dalla vita il 5 dicembre a 96 anni, un’età ormai ragguardevole) e rispolverati alle bell’e meglio?

Innanzitutto, essere Frank Gehry ha significato “inventarsi” un’identità. Come nel caso di Charles-Édouard Jeanneret, anche in quello del giovane Frank Owen Goldberg, nato a Toronto nel 1929 da genitori ebrei russo-polacchi, il processo che lo ha condotto a se stesso non è stato facile né immediato. E non soltanto perché, dopo il suo trasferimento della famiglia negli Stati Uniti, negli anni immediatamente successivi al termine della seconda guerra mondiale, e dopo avere studiato al College of Architecture della University of Southern California di Los Angeles (una scelta – questa – più sofferta, a quanto risulta, di quanto le consuete “mitologie” non raccontino), decide – nel 1954 – di mutare il proprio cognome in Gehry per le preoccupazioni dell’allora moglie Anita in merito alle possibili ostilità antisemite che il cognome Goldberg avrebbe potuto attirare.

Ma essere Frank Gehry ha comportato anche inventarsi un ruolo all’interno di un panorama architettonico come quello californiano, schizofrenicamente oscillante tra un professionismo di maniera e una quasi obbligata “eccentricità”. Nella definizione di tale ruolo hanno certamente avuto una grande importanza tanto la collaborazione con lo studio di Victor Gruen (architetto viennese trasferitosi a Los Angeles nel 1938 e inventore dello shopping mall, il centro commerciale destinato a proliferare negli Stati Uniti e nel mondo), quanto l’amicizia con diversi giovani esponenti nella scena artistica angelena.

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Alla ricerca della sua identità architettonica, Gehry ha oscillato – nelle sue prime prove – tra l’esplorazione della moderna “tradizione” locale (Richard Neutra, Raphael Soriano, il Wright del Deserto dell’Arizona) e il recupero del cosiddetto Spanish Colonial, il tipico stile delle missioni, caratterizzato da muri bianchi coperti di stucco, depurato però da ogni elemento ornamentale (Studio e casa Danzinger a Hollywood, 1964-65). Si tratta di sperimentazioni assai poco mainstream, che si sono spesso servite di materiali e soluzioni low-cost (il legno, il compensato e il metallo ondulato galvanizzato), e che offrono un’estetica informale, deliberatamente laconica, che bene però si adattava ai committenti artisti, desiderosi di spazi ampi e anticonformistici, ma in molti casi dotati di disponibilità economiche limitate.

Tra i primi esiti di questa fase di sperimentazione vi è la Casa-studio per l’artista Ron Davis a Malibu (1968-72), un edificio a pianta trapezoidale dal profilo inclinato che crea un’illusione prospettica e un marcato senso d’instabilità. L’esterno in lamiera ondulata e l’interno in travi di legno lasciate a vista danno l’impressione di un rifugio costruito artigianalmente, di una dimora provvisoria – la stessa impressione prodotta dalla casa costruita nel 1949 da Rudolph Schindler per Ellen Janson a Hollywood, che «faceva pensare che sarebbe caduta al primo colpo di vento o al primo acquazzone». E ancora, più o meno la stessa impressione prodotta dal pergolato della Norton Simon Gallery a Malibu (1974-76), di Gehry: una scomposta fascina di travi di legno che sembra sul punto di scivolare dal tetto, ma che rievoca al contempo anche un’installazione di arte contemporanea.

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È in questo periodo che Gehry studia l’applicazione a vari oggetti d’arredo del cartone ondulato stratificato più volte in direzioni alternate, tanto da conferire ad esso la resistenza propria di materiali consuetamente considerati più solidi. Le sedie della serie Easy Edges (1972), in cui il pannello di cardboard si ripiega più volte fornendo ad esse una solida base d’appoggio, testimoniano dell’originale combinazione di uno spirito autenticamente innovativo da un punto di vista estetico e materico e di una volontà di trovare soluzioni a “bassa tecnologia” (se non a basso costo).

Essere Frank Gehry si viene così precisando a partire dalle condizioni specifiche di un luogo e di una cultura, quella della California degli anni ’60 e ’70, terra al tempo stesso di hippies e land artists e di straordinari inventori di nuove tecnologie e di imperi economici (è lì – per intendersi – che nascono e crescono Steve Jobs e Stephen Wozniak, padri di Apple). E non è certo un caso che sia sulla sua propria casa di Santa Monica (una tipica casa californiana con tetto a falde e struttura in legno ricoperta di asbesto dipinto di rosa) che Gehry applichi nella maniera più radicale e paradigmatica i frutti delle sue elaborazioni di quegli anni. Alteration to a Suburban House, risuona il titolo di un’opera del 1978 dell’artista americano Dan Graham: perfetta sintesi dell’operazione compiuta da Gehry tra il 1977 e il 1978, e poi ancora tra il 1991 e il 1994; operazione di profonda “destrutturazione” della regolarità, della “normalità”, non soltanto della realtà materiale di una casa situata nei suburbs angeleni, ma anche dell’idea di casa americana come “home sweet home”, luogo di ordine costituito a scala domestica. Disponendo intorno al volume originale dell’edificio pareti di lamiera ondulata e legno compensato, squarciate da finestre disassate in modo apparentemente gratuito, e “gabbie” di rete metallica che formano paradossali stanze virtuali, Gehry sembra voler proteggere la casa da un’irruzione dall’esterno, o forse piuttosto minacciarne lui stesso la tranquilla esistenza.

In City of Quartz (1990) Mike Davis rilegge le barriere di rete metallica frammiste a volumetrie infrante che compaiono ad esempio nel Cabrillo Marine Museum a San Pedro (1977-79) come forma di «sfruttamento dei ruvidi ambienti urbani» in cui spesso gli edifici di Gehry sono inseriti, mediante l’utilizzo «dei loro detriti e dei loro lati più hard come potenti elementi di rappresentazione». In questo senso per Davis essi divengono «potenti metafore della fuga dalla strada e dell’introversione dello spazio che caratterizzano la reazione alle insurrezioni urbane degli anni sessanta». Pur mantenendosi distante da qualsiasi interpretazione in chiave politica dei luoghi in cui sorge, l’architettura di Gehry rispecchia in effetti alcune delle contraddizioni da cui questi sono segnati. «Con luminosità a volte agghiacciante, il suo lavoro chiarisce le relazioni sottostanti – repressione, sorveglianza ed esclusione – che caratterizzano la spazialità paranoica e frammentata a cui Los Angeles sembra aspirare».

“Linguaggio da guerriglia” pare anche quello che Gehry adotta nell’intervento che compie sulla Loyola Law School di Los Angeles (1978-84), un complesso che reagisce all’anonimía della zona in cui è situato volgendo prudentemente le spalle alla strada e radunandosi intorno a una sorta di “foro” introverso. Qui, come poi molte altre volte nelle opere del Gehry più “maturo”, l’unità dell’edificio è decomposta in una molteplicità di frammenti. Una frammentazione che ancora una volta va letta in chiave metaforica, ben più che semplicemente funzionale. Quelli che nella consueta società americana – di cui quella californiana costituisce uno specchio al tempo medesimo amplificante e deformante – rappresentano obiettivi sociali largamente condivisi (sicurezza e ricchezza), nella versione di Gehry risultano mandati inopinatamente in frantumi. E in fondo poco conta che ciò venga attuato nei termini più aspri del citato Cabrillo Marine Museum oppure in quelli più marcatamente pop della Spiller House (1978-79) o della Norton House (1982-84), entrambi a Venice. L’apparente ingenuità – o il finto infantilismo – sono espedienti usati anche nella Dépendance di Casa Winton a Wayzata, nel Minnesota (1982-87) e nel progettato Campo estivo Good Times a Malibu (1984-85), in collaborazione con la coppia di scultori Claes Oldenburg e Coosje Van Bruggen. Al pari della sede dell’agenzia pubblicitaria Chiat/Day (1985-91), anch’essa a Venice, l’edificio subisce una disaggregazione che ne fa qualcosa di assimilabile a una “natura morta”, i cui elementi, compresi oggetti d’uso quotidiano imprevedibilmente ingranditi (come il binocolo posto in corrispondenza dell’ingresso dell’ultimo progetto citato, realizzato anch’esso Oldenburg e Van Bruggen) hanno lo scoperto intento di suscitare una réaction poétique surrealista.

Potrebbe apparire una contraddizione – o più semplicemente un errore –, alla luce di ciò, che Gehry entri a far parte dei venti architetti invitati a disegnare una facciata per un ipotetico edificio posto lungo una altrettanto ipotetica Strada Novissima ricostruita all’interno delle Corderie dell’Arsenale, in occasione della I Mostra Internazionale di Architettura alla Biennale di Venezia, diretta da Paolo Portoghesi nel 1980. In realtà, quella di Gehry è soltanto una delle possibili facce del Post Modern che in quell’occasione viene celebrato, benché non sia certo la più ovvia. Né deve stupire di trovare Gehry impegnato in una performance intitolata “Il Corso del coltello”, concertata sempre insieme a Oldenburg e Van Bruggen, alla Biennale di Architettura di Venezia del 1985, diretta da Aldo Rossi, in cui, travestito da “architettura” palladiana, solca le acque dei canali veneziani.

Più prevedibile appare invece la sua inclusione nella mostra “Deconstructivist Architecture”, curata da Philip Johnson e Mark Wigley al Museum of Modern Art di New York nel 1988, dal momento che le sue opere fino ad allora avevano effettivamente cercato di “decostruire” i paradigmi dell’architettura modernista e della società capitalista, per quanto pur sempre all’interno di un’irridente prospettiva californiana. Pur trattandosi evidentemente di singoli “episodi”, le partecipazioni alle mostre citate contribuiscono tutte a costruire quel senso particolare che l’essere Frank Gehry ormai rappresenta.

Ciò nonostante, nell’assurdo spettacolo all’aria aperta che ogni giorno e a ogni ora va in scena in ogni angolo della West Coast, dove l’eccezione è la regola, quello che stupisce maggiormente in Gehry (e di riflesso nella sua architettura) è la puntigliosità – verrebbe quasi da dire l’ostinazione – con le quali entrambi s’impegnano nel recitare, a dispetto di tutto, il proprio ruolo. Va colta, in questa rivendicazione di un ruolo, un’eco neanche troppo lontana della ferrea volontà di Frank Lloyd Wright – la figura alla quale Gehry con tutta evidenza guarda con il massimo interesse e con cui non può mancare di confrontarsi –, di tornare a occupare una posizione centrale, in quanto architetto, all’interno di processi progettuali che, dall’incendio di Chicago del 1871 in avanti, erano e saranno sempre più largamente occupati dalle componenti economiche. In questo senso, in maniera altamente emblematica, contro il collocamento dell’architetto nella parte del “solutore di problemi” utile e ubbidiente, l’Edgemar Development a Santa Monica (1984-88) si offre come uno sconclusionato accatastamento “casuale” di oggetti disparati, entro cui sono collocati un museo d’arte, un ristorante, uffici, negozi e parcheggi.

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Risulta quasi logico, alla luce del modo nel quale Gehry ha impostato il suo “essere”, che egli venisse attratto, come da un’irresistibile forza magnetica, dal mondo Disneyland. In perfetta sintonia con il contesto in cui sorge, come fosse Paperopoli o Topolinia, la sede amministrativa del Team Disneyland ad Anaheim (1987-96) presenta, sul fronte rivolto verso il theme park, pareti dalla consistenza apparentemente fluida, gommosa, quasi fossero fatte della materia “molle” – o meglio ancora, della materia “fumosa” – di cui sono fatti i cartoons; mentre su quello opposto, prospiciente una highway a scorrimento veloce, predispone un edificio rigido, ricoperto di lastre metalliche, completamente uniforme e regolare, non fosse per l’oggetto ingigantito ch’è posato ai suoi “piedi”: una sorta di pettine o rastrello alto quanto un piano ed esteso per tutta la lunghezza dell’edificio (Gehry lo denomina cowcatcher, precisamente come quell’elemento che stava davanti alle vecchie locomotive per spazzare i binari da qualunque oggetto li dovesse per caso occupare). Nel “gran teatro del mondo alla rovescia” che è Disneyworld, ogni performance trova la sua conveniente ribalta.

A partire dalla seconda metà degli anni ’80, essere Frank Gehry richiede di lasciare la California ed avventurarsi nel mondo. Lo aveva già fatto il giovane architetto, all’inizio degli anni ’60, per una breve esperienza a Parigi presso lo studio di André Remondet. Ma a questo punto è alle sue opere che è richiesto di “sradicarsi”, di abbandonare l’ambiente californiano all’interno del quale erano nate e sviluppate, e dentro il quale avevano trovato una piena “corrispondenza”. È uno spostamento “pericoloso”, in una certa misura, benché probabilmente indispensabile – oltreché certo desiderato – per un architetto che nel 1989 ottiene il riconoscimento mondiale con il conferimento del Pritzker Architecture Prize; il rischio consiste nel fatto che al di fuori della loro “terra d’origine”, quelle forme ironiche, aggressive, surreali, per poter sopravvivere, dovranno per forza di cose farsi linguaggio. Ed è precisamente quello che succede con edifici come il Fishdance Restaurant di Kobe, in Giappone (1986-87), il Vitra Museum a Weil-am-Rhein, in Germania (1987-89), il complesso per la Vila Olimpica di Barcellona (1989-92), dove l’effetto di straniamento da essi operato rispetto ai loro contesti diventa programmatico, assumendo il sapore, più che di provocazioni in competizione con altre provocazioni, di provocazioni incondizionate, completamente prive di motivazioni e di relazioni.

Compaiono, certo, forme appartenenti alle sue radici culturali e alla sua predisposizione artistica, quali quelle del pesce e del serpente, apparse in precedenza in situazioni irrealizzabili (si pensi al progetto di un “ponte” di collegamento tra il Chrysler Building e il World Trade Center a New York, 1981, con Richard Serra). Ma il fatto nuovo è che adesso si realizzano.

Se l’American Center di Parigi (1988‑94) e il Frederick Weisman Art Museum a Minneapolis, Minnesota (1990-93), sono edifici in cui il minuzioso lavoro di scomposizione e ricomposizione della forma incomincia a dare i suoi esiti in termini linguistici, di un ben più complesso intreccio di volontà politiche, di forze economico-finanziarie e di “società dello spettacolo” è il prodotto il Guggenheim Museum di Bilbao (1991-97). Riguardo a quest’ultimo, facendo un esplicito richiamo al saggio di Jean Baudrillard sul Centre Pompidou, si è parlato di “effetto Bilbao”: «Si tratta […] del tentativo di catturare il commercio globale, in un ambiente in cui si chiama l’architettura (o lo spettacolo dell’architettura) a svolgere un ruolo-chiave». Quanto ne sortisce è una non meglio definita “entità” dalle forme prosperose e agglutinate, una specie di cetaceo arenato tra la riva del fiume Nervión e il centro di Bilbao, che fa della propria pelle satinata di titanio lo schermo pluricurvato su cui proiettare l’immagine di un futuro che non è basco né spagnolo – così come non è americano e neppure californiano – bensì piuttosto mondiale, planetario; scheggia in sé compiuta, completa, di un immaginario collettivo integralmente forgiato, per la prima volta in proporzioni simili, nei laboratori della comunicazione mediatica.

Nel Guggenheim gehryiano – in implicito dialogo-competizione con quello wrightiano – si lasciano comunque riconoscere tutte le strategie progettuali messe in campo dall’architetto canadese negli anni precedenti, riunite in un corpo solo: dall’infrazione dei luoghi comuni – visivi e spaziali – dell’architettura, alla frantumazione dell’unità dell’edificio, alla proposizione di forme assai più scultoree che non architettoniche; persino la memoria del pesce, animale caro a Gehry – espressione di una naturalità guizzante, cangiante, vivente, ma al tempo stesso di una “meccanica” di altissima precisione, è presente nella corazza di squame argentee che avvolge per buona parte il museo. È quest’ultimo, non a caso, di più ancora delle opere d’arte esposte, a diventare il vero oggetto dell’attenzione, quello in grado di attrarre folle di visitatori provenienti da ogni parte del mondo.

Il Guggenheim di Bilbao rappresenta una boa, all’interno dell’opera – e probabilmente della vita – di Frank Gehry: un punto di svolta, ma anche un punto di non ritorno. Di lì in avanti essere Frank Gehry vorrà dire essere l’architetto del Guggenheim di Bilbao. Anche la Walt Disney Concert Hall di Los Angeles (1989-2003), cominciata in precedenza e terminata più tardi, non potrà che essere vista come una “variazione” sul tema del Guggenheim, anche laddove essa presenta caratteri suoi propri, benché innegabilmente innestati sulla medesima “radice” linguistica. E così che molte sue altre opere successive si trovano costrette a un inesorabile confronto con quella, tanto che ne ripetano le “movenze”, quanto che cerchino di distaccarsene. È questo il prezzo che Gehry è costretto a pagare all’essere Frank Gehry, o meglio, a quell’essere Frank Gehry che quest’ultimo è diventato: dover assomigliare a se stesso, per essere riconosciuto, oppure doversi “allontanare” da se stesso, per poter ritrovare una propria libertà ideativa.

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È in questo passaggio che l’opera di Gehry cessa di essere interessante, o comunque cessa di racchiudere motivi criticamente appaganti. Non riesce ad essere veramente tale, ad esempio, la sede della DG Bank, a Berlino (1994-98), in cui, dietro il riserbo e la regolarità delle facciate che prospettano su Pariser Platz, Gehry occulta l’inquietante forma della sala riunioni, creatura aliena incastonata al centro del cortile coperto, da lui denominata “testa di cavallo”. Né riesce ad essere molto più che stravagante la coppia di edifici della Nationale-Nederlanden che danzano allacciati sul lungofiume del fiume Vltava, a Praga (1992-96), reincarnazione dell’eterno principio/contrapposizione maschile-femminile (ovvero Ginger e Fred, nella “proiezione” gehryiana). E ancora, non sembra riuscirvi il Ray and Maria Stata Center, all’interno del campus del MIT, a Cambridge (1998-2004), imperturbabile roccaforte accademica della ricerca scientifica e tecnologica paradossalmente “fissata” nell’esatto momento del suo crollo apparente. Perfino l’Experience Music Project di Seattle (1996-2000), santuario profano dedicato al culto del rock ispirato alla figura di Jimi Hendrix, fatica a risultare molto di più che insolito e curioso, mediante il dissonante scontro di materiali e colori allestito da Gehry nel tentativo di trasporre in forme tridimensionali i torrenziali e devastanti assoli prodotti dalla Fender Stratocaster del mitico chitarrista.

Essere Frank Gehry, ciò nondimeno, continua a lasciare al soggetto che ne anima il corpo ampi spazi di manovra: in primo luogo, quello della penna che – al pari di una chitarra elettrica hendrixiana – esegue intricati meandri nello spazio del foglio bianco. Nell’aggrovigliata matassa che ne costituisce la sostanza, Gehry ha sempre “visto” la propria architettura: «È come se io spremessi la carta, cercando di trovare l’edificio. Come lo scultore che incide la pietra o il marmo, cercando la figura». Ripuliti da ogni correttezza grafica e gremiti esclusivamente di svisature, i disegni di Gehry non sono la bozza di qualcosa che attende il proprio perfezionamento nel passaggio alla fase realizzativa; in tal senso, anzi, i suoi edifici conclusi assumono le sembianze di schizzi ben più di quanto i suoi schizzi riescano mai ad assumere le sembianze di progetti di edifici “normali”.

Ma vi è un altro aspetto essenziale nel quale Gehry manifesta la sua capacità di ridare libertà al proprio essere architetto all’interno dei processi progettuali: già a partire dal 1989 aveva infatti deciso di attrezzare il proprio studio con un sistema informatico. Una scelta pionieristica e consapevole, compiuta per di più da una persona dichiaratasi allora e sempre “analfabeta” in materia di computer.

In precedenza, le procedura progettuali nello studio di Gehry consistevano nella traduzione dei suoi schizzi in modelli tridimensionali “analogici”, sui quali eseguire manipolazioni e verifiche formali. Grazie alla smaterializzazione dei modelli digitali, resi “trasparenti” dalla struttura reticolare “a filo di ferro”, diventa ora possibile ottenere sezioni a qualsiasi livello, orizzontale o verticale, e agire sullo spazio tridimensionale dando così definizione formale e costruttiva all’indistinto bidimensionale dello schizzo.

Il primo progetto in cui il computer viene messo alla prova è quello della già citata Vila Olimpica di Barcellona: l’oggetto da realizzare è una struttura metallica coperta da una trama d’acciaio piegata a formare un dorso inarcato, una coda e un paio di ali che la fanno somigliare a un pesce volante. Non è forse casuale, in tal senso, che la scelta del software di progettazione ricada su CATIA, un programma originariamente sviluppato dalla Dassault Systèmes per costruire gli aerei da combattimento Mirage e poi adattato dalla Boeing per la realizzazione di aerei civili. Con la sua adozione – decisiva per le possibilità di controllo numerico di ogni punto della superficie e di modellazione 3D dello spazio – le architetture di Gehry si affrancano ancor più decisamente dalle forme edilizie tradizionali e incrementano ulteriormente il loro grado di complicazione.

Sarà proprio la problematica traduzione del modello digitale in oggetto tridimensionale a scala reale – fonte di difficoltà ed errori con le procedure tradizionali – a spingere lo studio di Gehry a compiere il passo ulteriore: la connessione tra progettazione e produzione assistita dal computer (CAM – Computer-Aided Manufacturing). L’acquisizione di apparecchiature quali le frese CNC (Computer Numerical Control), in grado di leggere i files digitali e di trasferirne le informazioni direttamente sul pezzo di materiale da tagliare e piegare, consente un controllo totale e un’assoluta continuità dal progetto alla costruzione. L’assunzione del controllo della fase produttiva restituisce così nelle mani all’architetto – almeno da un punto di vista ideale – la sua “mitica” interezza.

Ciò non toglie che, nel corso del tempo, l’architettura di Gehry abbia finito per trasformarsi progressivamente in “maniera”. Tramontata ormai l’epoca in cui Mike Davis poteva definirla un incrocio di radicalismo e di cinismo, il lavoro di Gehry, a partire dal XXI secolo, ha preso a veleggiare su rotte ben più rassicuranti: dove la radicalità ha finito per consistere semmai nell’insistenza della ripetizione di modelli ben rodati, e il cinismo nello sfruttamento spregiudicato della provocazione. Così, dallo sterminato elenco delle opere prodotte dallo studio in anni ad altissima intensità, è difficile rintracciare edifici che la memoria possa riuscire a mettere in salvo. Vi si rinvengono piuttosto imbarazzanti esibizioni di un virtuosismo del tutto fuori luogo, come l’hotel e cantina vinicola Marqués de Riscal di Elciego, esplosione di lamiere contorte nel paesaggio bucolico delle Province Basche (1998-2006), o come il Lou Ruvo Center for Brain Health, a Las Vegas (2007-10), che con buona ragione potrebbe essere considerato, vista la sua destinazione, «un inasprimento della pena», per citare le parole di Adolf Loos rivolte in orgine ad un altro obiettivo (verificare per credere).

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The Eisenhower Memorial

 

Essere Frank Gehry ha comportato anche questo, benché non per forza solo, o soprattutto, questo. Ha comportato finire per essere celebrato e al tempo stesso parodiato in una puntata dei Simpsons in cui Marge scrive una lettera al famoso architetto Frank Gehry per commissionargli un auditorium per Springfield – lettera che Gehry appallottola e getta via, salvo vedervi subito dopo la “geniale” forma con cui progetterà l’edificio. Ha comportato essere utilizzato come testimonial della campagna pubblicitaria Apple “Think different”, in cui la sua sola immagine – senza il suo nome e senza alcun riferimento alla sua architettura – era destinata a comunicare, in particolar modo a un pubblico statunitense, il suo essere per antonomasia un “pensatore differente”. E ancora, ha comportato – a Oviedo, nel 2014, nel corso della cerimonia del premio Principe delle Asturie che gli era stato conferito – mostrare il dito medio a un “sfacciato” giornalista che gli domandava se la sua architettura fosse esclusivamente una questione di spettacolarità.

Insomma, vi è da presumere che essere Frank Gehry non debba essere stato banale né semplice. Sicuramente deve averlo tenuto molto occupato, se ancora nel 2020, passati ormai i novant’anni, è riuscito ancora a realizzare, a Washington, D.C., in collaborazione con lo scultore di origini russe Sergey Eylanbekov e l’artista e architetto di Los Angeles Tomas Osinski, il National Dwight Eisenhower Memorial, dedicato all’omonimo generale d’armata e 34° presidente degli Stati Uniti d’America. Si tratta di due quinte sceniche realizzate con lastre di calcare rosa animate da sculture figurative che rappresentano momenti cruciali della vita di Eisenhower, e in un terzo podio sul quale è disposta una statua dello stesso Eisenhower da giovane. A fare da sfondo a questi scenari, un gigantesco “arazzo” in acciaio inossidabile, collocato di fronte alla lunga facciata del Department of Education Building e sorretto da svettanti cilindri di pietra, che riproduce uno schizzo di mano di Gehry raffigurante la costa della Normandia. Illuminandosi di notte, il garbuglio di segni fuoriusciti dalla matita dell’architetto dà l’impressione di proiettare nello spazio un suo edificio, tanto quanto molti dei suoi precedenti edifici-garbuglio davano l’impressione di corporizzarne gli schizzi.

Tutto sommato, comunque, dev’essere stato divertente essere Frank Gehry. Ma di questo, per averne la certezza, bisognerebbe essere stati Frank Gehry.

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