«Voler molto apprendere col minimo sforzo» / Formiggini e i lettori

5 Maggio 2019

«Da molti anni si lamenta che in questa alma città manchi una biblioteca circolante nella quale con un dispendio minimo ogni ceto di lettori possa trovare in belle edizioni e in politi esemplari ogni genere di libri interessanti, italiani e stranieri, soprattutto quei libri che per il loro carattere ameno e piacevole sogliono essere esclusi dalle biblioteche dello stato o comunque non essere dati in prestito». Scriveva così, l’editore Angelo Fortunato Formiggini, nell’annuncio di costituzione di una biblioteca circolante a Roma. «Dite che gli schedari son visibili / ad ogni ora, nel palazzo Doria, / e, perché siano meglio reperibili, / aggiungete “6A” vicolo Doria», ribadiva in versi invitando amici e giornalisti al simposio inaugurale del 1 aprile 1922.

Quasi impossibile da notarsi oggi, vicolo Doria è schiacciato fra il traffico di piazza Venezia e il passo rapido dei turisti che percorrono quell’ultimo tratto di via del Corso: rapida congiunzione fra le vetrine dello shopping e l’imminente foto al Vittoriano.

 

Nato in una famiglia ebraica che contava molti rami cattolici (ed è forse in questo che origina una delle sue più costanti necessità umane: quella della fratellanza fra popoli e culture, che ben emerge fin dai tempi della sua tesi di laurea sottotitolata Contributo storico-giuridico ad un riavvicinamento tra la razza ariana e la semita), Formiggini è forse soprattutto noto come editore della collana Classici del ridere, i cui volumi si trovano ancora con una discreta facilità nel circuito dell’usato a causa delle alte tirature con cui venivano distribuiti.

 

Si racconta spesso come il principio della sua attività editoriale sia stata frutto di un gioco del destino, ed è lo stesso Formiggini a rafforzarne questa interpretazione quando scrive, nel luglio del 1908: «Non so ancora con certezza se continuerò nella via editoriale nella quale mi sono per caso incamminato, certo è che il magnifico esordio mi è di acuto incitamento». 

Il magnifico esordio è la pubblicazione di una raccolta di sonetti burleschi di Alessandro Tassoni, dati alle stampe (contemporaneamente a una Miscellanea tassoniana introdotta da Giovanni Pascoli), con caratteri quattrocenteschi accompagnati da «xilografie giocose in fedele imitazione di quelle che si vedono nei primi libri impressi».

L’occasione di stampa è la cosiddetta festa della Fossolata, che il neo-editore organizza a mo’ di ironico incontro di pace fra modenesi e bolognesi nello stesso luogo della battaglia combattuta fra le due città nel Medioevo, e rievocata appunto nella Secchia rapita del Tassoni.

In realtà, l’ingresso di Formiggini nell’editoria non è casuale, anzi: esiste una bozza di contratto per rilevare la casa editrice Vincenzi di Modena datata 1906. Semmai è il destino a posticipare di due anni l’inizio delle sua carriera di editore, collocandola nel 1908, all’età di trent’anni, a metà esatta della sua vita: soli altri trent’anni lo separano dal suicidio.

 

Fra i primi collaboratori della casa editrice figura il coetaneo Massimo Bontempelli, con cui il rapporto epistolare è intimo e amicale: «Se tu non passerai per Ancona in novembre come hai promesso – scrive l’autore all’editore – mi vendicherò: […] andrò dicendo a tutti che i Profili sono porcherie e farò scrivere un articolo di diciassette colonne nella “Voce”». 

Ecco, i Profili: collana che, anche se disomogeneamente, copre l’intero arco di attività dell’editore: centoventinove titoli fra il 1909 e il 1938 che nell’idea di Formiggini si sarebbero presentati come «sintetiche e suggestive rievocazioni di attraenti figure di artisti, letterati, pensatori [per soddisfare] il più nobilmente possibile alla esigenza, caratteristica del nostro tempo, di voler molto apprendere col minimo sforzo». Da principio, 50 lire era quanto offriva agli autori per stendere un profilo; raramente aumentava il compenso e solo quando fosse lui stesso a commissionare l’opera all’autore. In questi casi si raggiunsero punte eccezionali in cui si rese disponibile a pagare 200 lire. Fu solo a partire dagli anni Venti che tali cifre salirono, rimanendo però sempre al di sotto di quello che un autore avrebbe potuto ottenere scrivendo un articolo di giornale.

 

 

Ma «la cosa editorialmente più seria che [Formiggini] abbia mai creata» è, a sua detta, la collana Classici del ridere, altra colonna portante del catalogo che vede centocinque uscite dal 1912 al 1938. Caratterizzata anch’essa per l’estrema cura tipografica e le incisioni originali, si basava sull’idea che l’editore aveva di raccogliere «quanto di meglio gli antichi e i moderni hanno scritto a ricreazione del genere umano». Da dove gli fosse venuta questa sua passione per il riso, Formiggini non seppe spiegarlo mai, ma torna qui il grande tema dell’amicizia fra culture diverse. Dichiarava infatti nel 1913, alla vigilia dello scoppio della Prima guerra mondiale: «Possano questi volumi rendere gli italiani più contenti di vivere e più consapevoli della gaia e fratellevole missione loro assegnata per la universale armonia della grande famiglia umana».

 

La più grande messa alla prova delle sue speranze e idee di comunanza nella famiglia umana lo investe improvvisamente una domenica mattina, quella del 24 maggio 1915, quando sua moglie, vedendo da lontano il titolo di un giornale esposto in edicola, esclama: «È scoppiata la guerra!». Alla sera di quello stesso giorno Formiggini è di fronte al colonnello del suo distretto militare; lasciava, come disposizioni per i suoi collaboratori, un solo biglietto in cui spiegava di non poter dare consegne: «Fate quello che potete!», concludeva.

Vestire la divisa non vuol dire dismettere i panni di chi dei libri ha fatto la propria esistenza. Fin dal 1912 Formiggini aveva stretto contatti con alcuni bibliotecari che stavano avviando iniziative per l’istituzione di biblioteche da campo. L’editore impiegò i suoi magazzini di Genova e Modena come centri di smistamento per l’invio dei testi al fronte, per poi spedire, durante il conflitto, quattordici casse di libri al fine di sostenere tali biblioteche. Spiegò questa iniziativa in una lettera ai commilitoni, nella quale sosteneva che «i libri non dovrebbero fermarsi ai centri, ma giungere alle periferie, e non dovrebbero stare fermi e nascosti nella cassetta d’ordinanza di un Tizio o negli scaffali di un ufficio, ma circolare sulle plance improvvisate delle baracche di legno, negli zaini e nei tascapane». Il capitano Formiggini che firma queste righe è lo stesso che predicava ai suoi soldati non già di esser coraggiosi o adeguarsi ai disagi ma «che fossero allegri», fedele alla sua idea che un esercito su di morale sarebbe stato invitto. E infatti, nelle casse di libri inviate in trincea si trovano molti Classici del ridere: «Dolente che non mi sia possibile esilarare tutto l’esercito italiano in massa. So bene che questi sarebbero i volumi più a voi graditi per quel bello e riposante senso pagano che li ispira. Perché si illude chi vagheggia di costruir biblioteche da campo con lo scopo di creare degli eruditi o dei filosofi. La vita del campo è poco adatta alla meditazione».

 

Finita la guerra, in un momento in cui i costi di carta e manodopera continuavano incessantemente a salire, Formiggini utilizzò i proventi della vendita di beni lasciatigli dal fratello per finanziare il rilancio della casa editrice; ma i lettori, nei primi anni del fascismo, non sembrano essere voracissimi. Lo testimonia l’editore stesso nei suoi scritti, quando nel 1924 definisce Roma come città in cui l’abitudine di leggere «non esiste affatto», ma anche altre voci, come quella di Moravia che così ricorda in una intervista rilasciata a Fernando Camon nel 1973, l’eccezionalità del suo esordio: «Gli indifferenti (1929) furono accolti da un successo enorme, e presero in contropiede lo stesso fascismo che fin allora non si era mai occupato di libri perché i libri non si vendevano in Italia […]. Di un libro si vendevano pochissime copie; la borghesia leggeva poco; il popolo nulla».

 

 

Si torna allora alla biblioteca circolante di vicolo Doria, un luogo fisso, in cui a circolare sono i libri, che possono essere dati in prestito dietro pagamento di un abbonamento al servizio. È sulla diffusione del libro in prestito come volano per favorire la crescita di un numero sempre maggiore di lettori che si fonda l’idea fomigginiana, e che trae ispirazione da iniziative analoghe, come quella torinese di Giuseppe Pomba, che nel 1855 promosse la fondazione di una Biblioteca civica rivolta a tutti i cittadini.

Ma nel perseguire un progetto del genere, i dubbi non possono essere fugati dal solo istinto, e la domanda può la circolazione in prestito dei libri arrecare danni agli editori che quei libri dovrebbero venderli? risuona nella testa di Formiggini, che cerca una risposta avviando fra i suoi colleghi, ma anche fra scrittori e librai, una vera e propria inchiesta, i cui esiti lo confortano nell’avviare l’impresa. Era persuaso che «col rendere accessibile a moltissimi la soddisfazione [del bisogno di leggere], tale bisogno si crei, si accentui e si moltiplichi».

L’iscrizione al prestito durava un anno ed era possibile prendere contemporaneamente più libri aumentando la quota versata; sempre con un supplemento mensile si poteva aderire al servizio del cambio dei libri a domicilio, inoltre, particolare attenzione era riservata a chi abitava fuori Roma, che poteva prendere in prestito un numero doppio di volumi senza sovrappiù economici. Formiggini non si rivolgeva con la sua biblioteca ai proletari (i quali erano forse più interessati alle reti di prestito popolare), né – naturalmente – agli studiosi che frequentavano le grandi biblioteche statali; era la classe borghese colta, vogliosa di essere aggiornata sulle novità letterarie il suo obiettivo: «La biblioteca avrà carattere ben distinto da quello delle biblioteche pubbliche e delle biblioteche popolari esistenti, perché mentre le prime sono particolarmente destinate all’alta cultura e le altre alla educazione del popolo, questa si proporrà principalmente di dar modo al pubblico della capitale di seguire, con dispendio minimo, tutta la produzione letteraria italiana e straniera».

 

E però, nonostante i molti investimenti in termini allestimento e acquisizione delle copie, l’impresa – dopo una rapida crescita nei primi anni – divenne insostenibile e spinse Formiggini ad una costante attività di promozione (anche nei confronti dei grandi giornali e delle maggiori istituzioni pubbliche per convincerli a far sottoscrivere gli abbonamenti loro dipendenti). Poi, già a partire dalla fine del 1929, la ricerca non fu più quella di sostenitori, ma di possibili acquirenti. È l’inizio della parabola discendente di quella istituzione che di fatto non riuscì mai a soddisfare il suo proposito di attirare l’attenzione della borghesia medio colta alla quale si rivolgeva.

 

Una parabola che – come anche altre importanti iniziative, ad esempio quella del periodico di informazione libraria “L’Italia che scrive” – è destinata ad infrangersi contro il Regime, che pure l’editore modenese non osteggiava, ma che, a seguito dell’emanazione delle leggi razziali lo induce, in quanto ebreo – lui che ebreo non si era mai considerato –, al suicidio gettandosi dalla Ghirlandina a Modena.

 

Gli sopravvivono le sue pubblicazioni e il suo progetto culturale, ora ripercorribile attraverso foto, lettere e documenti editoriali nel volume Angelo Fortunato Formiggini, Ridere leggere e scrivere nell’Italia del primo Novecento, a cura di Matteo Al Kalak e pubblicato dalle Edizioni Artestampa, a cui questo articolo deve molto.

 

La mostra ANGELO FORTUNATO FORMIGGINI (1878-1938) - Ridere, leggere e scrivere nell’Italia del primo Novecento - Galleria Estense - Sala Mostre e Biblioteca Estense Universitaria - Sala Campori (largo Porta Sant'Agostino, 337) 28 febbraio - 30 giugno 2019

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