Speciale

L’avventura formativa dei Mille

4 Dicembre 2011

Quando mi ricordo quella sera e quell’ora, sento gonfiarmisi il cuore, e piango sulla perduta gioventù, e piango sulla tomba dell’uomo che i sogni più belli della gioventù mia se li ha portati con sé! (G. Bandi )

 In venticinque giorni dalla partenza da Genova [i Mille] avevano vissuto quanto si può vivere in parecchi anni, e veduto e sentito quanto in un lungo viaggio, per terre di civiltà antiche e venerande. (A. Secchi)

La camicia rossa ci si è stretta alle carni. Moriremo con essa, cercando con l’ultimo sguardo, le luminose visioni d’un passato che sarà spento con noi. (Barrili)

 

Sappiamo ora che tutti i testi di maggior qualità della letteratura garibaldina italiana furono scritti spesso molti anni dopo i fatti vissuti. Si è cominciato perciò con il riportare tre citazioni di autori diversi che fanno il punto o rievocano con pochi tratti la propria esperienza garibaldina restituendo un ventaglio di differenti emozioni - la nostalgia struggente, la consapevolezza d’una avvenuta iniziazione e l’indelebile persistenza d’un ricordo fattosi modo d’essere - ruotanti tutte però attorno all’elemento della giovinezza. Cosicché da subito, ancor prima che il significato storico e politico di enorme rilevanza rivestito dall’impresa dei Mille, conta, nel guizzo della rievocazione individuale, la miracolosa coincidenza tra un evento di portata epocale e la propria giovinezza. Ora, tornando invece all’inizio della spedizione e servendoci delle prime impressioni del curioso e ricettivo Abba, si assiste nella città di Genova ad una massiccia presenza giovanile: “Ieri sera arrivammo ad ora tarda, e non ci riusciva di trovar posto negli alberghi, zeppi di gioventù venuta di fuori”. Ed una volta imbarcato l’osservazione si rinnova con una maggiore attenzione e volontà di rendersi conto del panorama umano che pian piano si va delineando: “...in generale veggo facce fresche, capelli biondi o neri, gioventù e vigore”.

 

Prendere il mare aperto verso una terra sconosciuta ed un’impresa dai contorni indefiniti, ma certo di grande pericolo personale, rappresenta per i giovani dei Mille innanzitutto il distacco iniziatico dalla famiglia. In particolare dalla madre, che tenta fino all’ultimo di trattenere a sé il figlio, come descrive Abba nella più distesa delle scene riguardo a questa tematica: “Sapete che la madre di Luzzatto venne a cercarlo?” “Da Udine?” “O da Milano, non so. Corse di qua, di là, da Genova alla Foce, dalla Foce a Quarto, chiedendo, pregando, e tanto fece che lo trovò”. “E lui?” “E lui la supplicò di non dirgli di tornare indietro; perché sarebbe partito lo stesso, col rimorso di averla disubbidita”. “E la mamma?” “Se n’andò sola”. Anche il Nievo degli Amori garibaldini si allinea all’immaginario dei memorialisti nel confermare la figura femminile quale portatrice dei vincoli amorosi che lo slancio del giovane s’attenta a sciogliere (così egli si rivolge al sedicenne protagonista di Ad uno che parte: “La tua madre infelice/ Dì non ti strinse al core?” vv.7-8, “La tenera sorella/ Al canto della porta/ Non ti trattenne anch’ella?” vv.11-3, “Va! parenti, sorella/ Madre, tutto abbandona!/ Spezza la vita anch’ella!” vv.56-9).

 

Per contro il padre, nel racconto di Abba, evidentemente più conscio della necessità della formazione per via patriottica, sembra piuttosto accompagnare il figlio (“Immagino il vecchio austero sulla porta della sua Pradalunga, intento a guardare il figlio che gli ha dato le spalle”) e riceverne semmai le confidenze sull’eccezionale impresa militare sotto forma di naturali prove della propria maturazione. Oppure il maschile paterno viene caricaturato quando per pavidità meschina, gretto egoismo o cautelosità politica, tenta di ostacolare, con la retorica, con l’autorità o l’implorazione, il tradimento salutare e l’irrefrenabile slancio del figlio: “...cominciò colle meraviglie, poi colle esortazioni [...] Poi passò alle minacce. Avrebbe scritto, si sarebbe fatto aiutare da quanti del mio paese sono qui; mi avrebbe affrontato all’imbarco per... Ed io nulla. Ultima prova, quasi piangendo e colle mani giunte, proruppe: - Ma che cosa vi ha fatto il re di Napoli a voi che non lo conoscete e andate a fargli guerra? Briganti! - Eppure un suo figlio verrà con noi”.

 

Ora, a muovere questa gioventù, che si mostra straripare ad ogni pagina con immagini di vorticoso impeto fin dall’impazienza per la partenza e dall’accalcarsi all’imbarco verso la traversata, sono certamente le parole d’ordine patriottiche di unità e di liberazione, e tuttavia il concetto che ricorre con maggior incisiva frequenza nei testi ruota attorno al desiderio: “Il Vecchi m’andava contando ad una ad una le difficoltà dell’impresa, raccomandandosi che col desiderio nostro e colla nostra impazienza non si aggiungessero stimoli a quelli che già aveva del proprio Garibaldi” (Bandi).

Scrive Hillman che “il termine greco per indicare questo specifico movimento erotico di desiderio nostalgico era pothos. Platone lo definisce nel Cratilo come il desiderio struggente per un oggetto distante”. Nei testi presi in esame esso risulta naturalmente la fiabesca e letteraria immagine di una Sicilia ignota (“A nominarla, sento un mondo nell’antichità... Quel che oggi sia l’isola non lo so. La vedo laggiù in una profondità misteriosa e sola”) e vagheggiata (“io questi azzurri gli aveva indovinati, veduti, respirati”, Abba).

 

Il desiderio trova il suo correlativo metaforico nello sguardo, che percorre febbrile e nostalgico la distesa marina de “l’isola dei nostri sogni” (Adamoli), su cui il giovane agogna di distendersi in una libera e fascinosa avventura di formazione esistenziale: “...il mare scintillava sotto i nostri occhi, ripercosso dagli ultimi raggi del sole cadente. La veduta del mare ci ridestò più tormentosa nel cuore la poesia della romanzesca impresa che ci aveva innamorati” (Bandi). Ma se lo stimolo più evidente consiste appunto nel richiamo del misterioso oggetto, presente nell’immaginazione oltre lo sguardo teso ed il mare infinito si evidenzia poi che la fonte della propria utopia va ricercata ancora nella spinta più profonda del sé: “È di quella tribù d’uomini che vanno avanti, con lo sguardo sempre fisso in certi punti lontani, che il mondo non vedrà mai. Eppure per essi quell’ideale lassù lassù, è realtà di vita interiore” (Abba).

 

A questa vera e propria possessione, che s’impadronisce del soggetto e lo trascina via oltre ogni prudente calcolo e ragionevole resistenza, non soggiacciono soltanto i giovani, bensì lo stesso condottiero al momento cruciale della decisione. Guerzoni infatti rappresenta dapprima un Garibaldi anch’egli romanticamente pensoso a scrutare l’orizzonte marino, dopodiché paragona l’improvvisa risoluzione con quella degli eroi classici svegliati dal torpore grazie ai messaggeri di Giove avvicinandosi ad uno dei modi utilizzati da Omero e da Virgilio per indagare la vita interiore dei personaggi: “fu certo una gran voce echeggiata dentro le profondità più ascose dell’anima sua, quella che troncò tutti i contrasti, vinse tutte le dubbiezze di Garibaldi, e all’improvviso, imperiosamente, inappellabilmente, con un cenno di Dio, gl’intimò la partenza”.

 

Hillman, riprendendo l’archetipo del puer aeternus di Jung quale “componente eternamente giovanile di ogni psiche umana... eternamente girovaga, eternamente piena di desiderio” scrive dell’ “andare errando come simbolo di anelito” e ritrova in Alessandro Magno la più chiara esemplificazione di pothos. Scrive ancora Hillman che a tale personaggio storico “si attribuisce anche di aver coniato l’espressione “afferrato da pothos”, per spiegare il suo indescrivibile desiderio per qualcosa che fosse oltre, un desiderio che lo portò oltre tutti i confini in una conquista orizzontale dello spazio, vero cosmonauta dell’antichità. Bastava che Alessandro si sedesse sulla sponda di un fiume o di fronte alla sua tenda a guardare lontano, perché pothos lo afferrasse spingendolo ad andare oltre. “Spazio e distanza diventano immagine visiva che libera il suo struggimento”. Ed ecco che le similitudini adoperate per rendere il desiderio lanciato orizzontalmente nello spazio, in quella presa dell’intero regno meridionale chiamata appunto “avventurosa corsa” (Bandi), sono prese a prestito dagli elementi scatenati della natura, quali il vento, il fuoco nel suo improvviso accendersi e rapido propagarsi, l’acqua corrente o, più spesso, coincide con il cavallo, per la sua impazienza a sfrenarsi.

 

Una volta poi giunti ai confini naturali dell’isola liberata, che si sommano alla mancanza di navi da trasporto ed ai paralleli divieti provenienti da Torino di approdare nella parte del Regno ancora in mano a Francesco di Borbone, ancora più acuto si fa lo struggimento smanioso di passare lo stretto (“Era dunque tempo di passare sulla terra ferma, ma l’impresa non poteva dirsi tanto facile quanto grande era il desiderio di compierla con sollecitudine”); “Ma ben inteso, mi affretto a dirlo, appena giunti, Catania non ci bastò più, e volevamo Messina, e dopo Messina le Calabrie, e dopo le Calabrie Napoli!” Adamoli). La tensione dei giovani, attizzata dai molteplici ostacoli, nel continuare e completare l’arco del proprio slancio, è un tratto saliente della personalità puer del loro comandante consistente nel “viaggiare, inseguire, trasgredire ogni limite” (Hilman), che viene, specie in questa occasione, riconosciuta in pieno dalla gioventù specchiantesi in lui.

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